ROBERTO SEGRE
Il vice si trovava in ragioneria.
L’ufficio del ragioniere comunicava con un altro stanzone laterale, con vecchie scrivanie di legno, dove sedevano le guardie addette ai conteggi, all’epoca quasi tutti manuali, benché con uso di calcolatrici meccaniche e dei primi voluminosi computer, che davano però più problemi che risultati.
“L’informatico del ministero non c’è, il programma non funziona, è saltato…”, gli diceva sovente il ragioniere, grassoccio e calvo, rotondo, trotterellando agitato tra gli scartafacci, mentre gli agenti strizzavano gli occhi sulle pagine sotto la luce artificiale.
L’ultimo ufficio si prolungava in un grande andito ad arcate dove stavano i numerosi detenuti scrivani che, attraverso l’unico collegamento di una finestrella dotata di fitte e spesse sbarre, passavano i fogli su cui avevano lavorato con i riepiloghi e le colonne di cifre (sommate a mano) alle guardie per i primi controlli.
Raccolti e riordinati, i registri erano poi sottoposti alle firme del ragioniere e infine del direttore.
C’erano svariate decine di firme ogni giorno, su ogni sorta di moduli e documenti.
La contabilità carceraria era minuziosa e complessa: si dovevano amministrare i libretti dei detenuti su cui si caricavano gli stipendi dei lavoranti e il denaro portato dai familiari, sottraendo le spese per il sopravvitto (cioè i generi extra consentiti dal regolamento, alimenti, bevande, tabacco e anche vari oggetti, come bombolette a gas da campeggio, rasoi di sicurezza e accendini, entro un tetto di spesa mensile per ciascun detenuto).
Venivano poi i pagamenti delle varie forniture di vitto, vestiario, effetti di casermaggio all’impresa appaltante, e dei perenni lavori di costruzione e manutenzione del vetusto fabbricato, rabberciato di continuo e costellato di dispositivi di sicurezza, come telecamere, allarmi, filo spinato, porte e cancelli blindati, vetri antiproiettile.
All’epoca si procedeva anche alla preparazione delle buste paga dei dipendenti e non era raro che i detenuti conoscessero gli stipendi del direttore e del personale, benché fosse proibito fare svolgere questi calcoli proprio a loro.
Ma chi poteva controllare?
Bisognava fidarsi del sistema introdotto da tempo immemorabile, della minuziosa trafila burocratica di tipo russo, degli usi, e ogni tanto fare un’ispezione che faceva perdere tempo prezioso al direttore e ai funzionari, lasciando qualche viso offeso e storto, sia tra gli agenti che tra i detenuti, per quella presunta mancanza di fiducia, senza cavarne fuori granché: qualche piccola irregolarità, subito sanata.
“Eh, se stiamo a cavillare, non ne usciamo più”, sbottava esausto anche lui il ragioniere alle prese con infiniti calcoli che riceveva a ritmo incessante e non aveva il tempo di verificare. “Qui, se si controlla, si blocca tutto…”
E il vice doveva rassicurare i lavoranti, offrire un giro di caffè, spargere la voce che c’era un controllo della ragioneria dello stato, della corte dei conti, ma anche far capire che si doveva rigare dritto.
Al minimo errore, intenzionale o meno, i detenuti avrebbero perso quel lavoro cui tenevano più di tutto, e gli agenti sarebbero stati subito trasferiti dal tranquillo ufficio sedentario al pericoloso servizio a turno in sezione, tra i detenuti.
Il che molto raramente avveniva.
Strano, ma non poi tanto: i più abili truffatori, i contabili più esperti nello stornare il denaro, i delinquenti professionali autori di centinaia di raggiri e contraffazioni fuori, dentro il carcere lavoravano tutti nell’ufficio ragioneria.
Era grazie a loro che i conti, almeno formalmente, tornavano e i prospetti mensili in ordine venivano regolarmente inviati al superiore Ministero dove scomparivano negli inesplorati archivi senza tracce.
“Marescià, se facessi questo lavoro fuori, guadagnerei dieci volte tanto”, aveva confessato un ex bancario condannato ad anni di reclusione per svariati reati contro il patrimonio.
E il maresciallo, ghignando, gli aveva risposto:
“Non dovevi farti beccare… Comunque qui stai bene… Non ti lamentare.”
Il vice stava controllando fastidiosi libracci timbrati ad ogni pagina con prospetti riassuntivi e gli pareva che i totali non tornassero, benché il ragioniere gli spiegasse come doveva leggerli, quando si sentì un trapestio ed un vocio nell’ufficio matricola.
“Signor direttore”, urlò con voce alterata il comandante.
“Si, che c’è? Sono in ragioneria”.
Ansando il sottufficiale si precipitò nell’ufficio.
“Permette, venga, le devo parlare”.
Con sollievo suo e del ragioniere, il vice si alzò da quei massicci registri incartapecoriti che lo facevano starnutire per la polvere e andò nell’ufficio di direzione, seguito dal maresciallo.
“Che c’è?”
“Un omicidio, signor direttore”.
“Omicidio?”
“Si, c’è un morto in infermeria”.
“E chi l’ha ammazzato? Mica il medico?”, cercò di scherzare il vice.
Il medico del carcere era un anziano professionista con barbetta e occhiali, dotato di grande esperienza, ma della vecchia scuola, piuttosto incline a metodi spartani e sbrigativi, che si raccontava curasse i drogati con qualche calmante, lasciandoli gridare e sbattersi per un paio di giorni nella cella imbottita finché non crollavano a terra spossati.
Spergiurava sempre di andarsene, che non ne poteva più di quel lavoro, pronto alle dimissioni, ma finiva con il firmare qualunque richiesta della direzione ed era benvoluto dal personale e anche dalla maggioranza dei detenuti, che sapeva prendere con rudi battute e, se occorreva, con certificati di malattia.
Amico personale del precedente direttore, svolgeva il suo incarico nel modo più sbrigativo e adatto ma non tollerava interferenze.
Il vice lo rispettava, anche perché sapeva bene che sostituirlo non sarebbe stato facile.
Nessun medico, a parte qualche testa impregnata di confuse idee sociali, voleva lavorare in galera per quattro soldi, e poi… i rischi….
L’ambulatorio e l’infermeria erano perfettamente tenuti, lindi e in ordine e l’agente infermiere e i detenuti che lo coadiuvavano sapevano bene che col dottore non si scherzava. Al primo sbaglio, fuori.
“No, l’ho fatto chiamare, adesso arriva”.
“Va bene, anzi va male, andiamo a vedere”, disse il vice.
Scesero al pianterreno.
Entrarono, con sbattere di chiavi e di cancelli, nella sezione del carcere dove stava l’infermeria: locali luminosi, areati, dipinti di bianco, armadi pieni di strumenti e lettucci, saletta per visite e medicazioni, odore di medicinali: pareva di essere in ospedale.
L’ordine e la pulizia stonavano con il resto del fabbricato, scuro e sconnesso, con scale sbrecciate, pareti corrose, lugubri cameroni dove ristagnava un odore pesante di cibo e sporcizia.
Un agente e due detenuti infermieri in camice li aspettavano in silenzio.
Il morto vestito di scuro era sdraiato a terra vicino ad un letto.
Appariva piccolo e raccolto come un ragazzino, lo sguardo irrigidito in un’occhiata quasi ironica. C’era poco sangue.
“Che è avvenuto?”, chiese il vice.
“Mah, ecco, pare…”, fece la guardia.
“Forza, datemi una versione dei fatti! – disse il vice che si sentiva nervoso e voleva impersonare l’autorità – maresciallo, li prenda a verbale, forza”.
Si sedettero al tavolino bianco del medico, il comandante alla macchina da scrivere.
A domanda risposero la guardia e i due detenuti.
Risultò che c’era stato un vero e proprio duello, anzi pareva che l’ucciso avesse cercato per primo l’altro con un coltello, quello che si trovava accanto a lui, e l’altro si fosse difeso a sua volta a colpi di coltello.
“Maresciallo, da dove spuntano tutti questi coltelli?”, chiese il vice.
“Sa, signor direttore, ci sono i corsi per saldatori, si fabbricano coltelli per difesa personale. Raschiano i cucchiai, li affilano. Alle perquisizioni glieli togliamo, ma ne spuntano sempre di nuovi. Poi ai colloqui, glieli portano… E c’è qualche guardia… Detto tra noi, a qualcuno le guardie glielo lasciano, sa, quelli che…”, rispose il maresciallo e voleva dire “quelli che collaborano con noi, che ci aiutano a mantenere l’ordine”, ma si fermò.
Non sapeva ancora se il vice, teorico della rieducazione e nuovo all’ambiente di galera, avrebbe approvato e preferiva non informarlo su tutti i particolari interni.
Il coltello però pareva un comune coltello da cucina affilato e tagliente come un rasoio, di quelli con il manico nero arrotondato e rialzato a protezione delle dita che terminava con una specie di cucchiaio.
“Non lo tocchi, dottore, le impronte…”, ammoni il comandante al vice, che si era chinato per vederlo da vicino.
“No, no, tranquillo”, rispose il vice, seccato, perché avrebbe voluto esaminarlo.
Il brigadiere di servizio aveva già provveduto ad isolare due sospetti in celle singole, guardati a vista.
Arrivò il medico, concitato, si accese una sigaretta, esaminò rapidamente il cadavere che aveva una piccola ferita in gola, gli alzò un braccio che lasciò ricadere sull’impiantito:
“Emorragia interna, carotide lesa, niente da fare, è andato…” e scrisse il referto a mano con la sua grafia illeggibile.
“Poi ce lo traduci”, cercò di scherzare il vice che però si fece rileggere il referto per saperlo decifrare.
“Dotto’, bisogna visitare un altro, è ferito”, soggiunse la guardia.
“Vado, che cos’ha?”
“Mah, perde sangue…”
“D’accordo che questi hanno la pellaccia dura… però…”
Un detenuto fu accompagnato in infermeria; camminava, aveva una ferita al fianco, ma sembrava leggera, e un taglio sul viso che gli orlava la guancia di un filo rosso.
“Salvato’ che è successo?”
“Marescia’, non posso parlare, non ora”, fece Salvatore (così si chiamava), la faccia scura e trafelato.
Era anche lui di bassa statura, agile e dinoccolato come un ragazzino.
Il maresciallo non insistette, avrebbe saputo poco dopo come si erano svolti i fatti.
“Vediamo il rapporto, così telefono al procuratore”, disse il vice.
Per sicurezza il medico, dopo averlo visitato, medicato e bendato, mandò il detenuto all’ospedale e ci volle il suo tempo per trovare la scorta e l’auto di servizio.
Nel pomeriggio fu rispedito in carcere (nel locale piccolo ospedale i detenuti li tenevano il meno possibile, poiché occorreva una stanza isolata, con i piantoni e tutte le procedure di sicurezza: erano grane e quindi si affrettavano a scaricarli al più presto o al reparto attrezzato del capoluogo, o indietro nell’infermeria della prigione): le ferite erano poco più che scalfitture e, dopo una radiografia e un’antitetanica, Salvatore fu associato in cella di sicurezza.
Un secondo detenuto sospetto pareva non c’entrasse, ma poteva essere un testimone, l’avrebbero interrogato più tardi.
Si temevano vendette dei clan e il comandante diede ordine di guardare i due a vista.
Il vice chiamò il procuratore:
“Non toccate niente”, disse al solito il magistrato.
“No, ma abbiamo dovuto inviare il ferito in ospedale. Il morto è sempre in infermeria. Le mando subito il rapporto e il referto. Se desidera venire, le mando la macchina”, propose il vice, che sapeva che il procuratore, per problemi di artrite, non si spostava volentieri dal suo ufficio dove passava più di metà della giornata.
L’auto di servizio era una decrepita Fiat familiare blu che serviva per qualche rara ispezione, convocazione o commissione o talvolta per portare cassette d’acqua minerale al procuratore.
Avrebbe dovuto essere radiata, ma si continuava a tenerla in carico per la burocrazia, benché non facesse più di due o tremila chilometri l’anno…
Serviva forse di più l’agente “camminatore” che, come da regolamento, sbrigava commissioni e servizi spostandosi a piedi nei vari uffici e magazzini della città.
“Quello si corica in ufficio, ha sposato l’ufficio”, diceva il capo al vice a proposito del procuratore, che infatti disponeva di un divano di cuoio per eventuali pisolini nella parete di fronte alla scrivania intasata di fascicoli.
“Grazie, le farò sapere, per ora aspetto il rapporto” concluse il magistrato, come al solito occupatissimo, chiudendo in fretta il telefono.
“Meno male che è un amico del mio capo, pensò il vice, e non rompe le scatole…”
Altri procuratori o sostituti di tribunali vicini, insistevano, mettevano alle strette, intervenivano, saccenti se non sadici:
“Perché lei non ha impedito l’omicidio, e la sorveglianza come funziona, lei è responsabile, lei avrebbe dovuto… è suo dovere… la responsabilità”, e non si poteva nemmeno mandarli a quel paese perché minacciavano l’azione penale, tendevano a farti sentire in colpa, non accettavano spiegazioni, arroganti.
Come se il direttore dovesse personalmente sorvegliare tutti i detenuti.
C’era sempre qualche burocrate statale con il complesso di superiorità o d’inferiorità che veniva a complicare il lavoro quotidiano, perciò bisognava tenersi buoni la magistratura, la prefettura, la questura, i carabinieri e anche il genio civile, l’ufficio tecnico erariale, perfino l’ufficio pesi e misure, il comune e i vigili urbani.
Insomma tutti gli uffici esterni avevano a che fare con il carcere.
Questo gli aveva insegnato il suo capo (“Parati il culo!”) che, quanto a diplomazia, era un campione di scherzi, salamelecchi, contatti a voce e per telefono, organizzatore di cene, partite a carte e incontri, benvoluto e rispettato dalle autorità che gravitavano attorno al mondo carcerario, cioè, in pratica, tutte.
Aveva la battuta pronta, il capo, una vivacità estrema e la capacità istintiva di rendersi simpatico: il che gli serviva molto in galera e fuori.
Ora però era assente per malattia e il vice doveva sbrigarsela da sé.
Da un lato preferiva lavorare da solo, dall’altro sentiva il bisogno di appoggiarsi a qualcuno che avesse più esperienza di lui, e ci sapesse fare, come il suo capo.
Poteva sempre telefonargli e chiedere il suo parere, ciò che avrebbe fatto: gli dava sicurezza avere il “maestro” alle spalle, in un mondo difficile e complicato come quello.
Telefonò a casa del capo, che abitava non lontano.
Rispose lui:
“Che piacere sentirti, che c’è?”
“Scusa se ti disturbo…”
“Ma che disturbo e disturbo…”, al capo (che si annoiava a casa per malattia psicosomatica su certificato medico del medico del carcere, puntualmente convalidato da un medico dell’amministrazione penitenziaria cui il Ministero, dubbioso, aveva chiesto un riscontro, malattia diplomatica per non prendere servizio in una sede prestigiosa ma scomoda e lontana, dove la recente promozione l’aveva destinato) faceva piacere sentirlo e avere notizie dal carcere che era, o era stato, tutta la sua vita.
“Dimmi”
“Omicidio.”
“Uhm…”
“Ho avvisato il procuratore”.
“Bene, tu non ti devi preoccupare, capita, con i detenuti liberi di circolare…”
“Adesso gli mando il rapporto”
“Di’ al maresciallo di farti la lista di quelli del giro che potrebbero vendicarsi…”
“Giro?”
“Si, mafiosi siciliani, calabresi della ‘ndrangheta, sardi dei sequestri, zingari, camorristi, brigatisti, nappisti… che sono?”
“Ah, pare che siano calabresi”
“Com’è avvenuto?”
“Sembra un duello…”
“Ora se ne deve occupare il procuratore, tu prendi le misure del caso: isolamento dei sospetti, poi trasferimento, una perquisizione generale per trovare un po’ di coltelli…”
“Si, pensavo anch’io di fare…”
“Mettiti il culo a posto…”
Questo avvertimento era di prammatica.
“Vengo su, ci beviamo il caffè”, propose il capo.
“T’aspetto”, disse sollevato il vice.
Risultò poi che il duello c’era stato, non per questioni di donne, ma per vecchi rancori e inimicizie di clan.
La vittima, il piccolo calabrese scuro, era quello che aveva aggredito e inseguito l’altro di corsa fino in infermeria, dove costui si era difeso, con il coltello forse passatogli dagli infermieri o da chissà chi.
Un rapporto dettagliato con varie testimonianze fu inviato in procura dal vice.
Poi perquisizione generale delle celle, con l’aiuto di carabinieri e polizia due giorni dopo alle sette del mattino: un traffico organizzarla, con la polizia che piangeva la scarsezza di effettivi, i carabinieri che non avevano uomini, le guardie provate dai troppi servizi a turno.
Infine anche il procuratore ci mise una parolina e tutto si svolse tranquillamente: trovati una ventina di coltelli e materiale proibito (quale fosse, il vice non lo seppe esattamente, molti oggetti erano proibiti dal regolamento, ma circolavano ugualmente e lui era l’ultimo a saperlo).
Solo tempo dopo venne a conoscenza dalle confidenze d’un sottufficiale che, terminata la perquisizione, altri coltelli, o gli stessi sequestrati, venivano restituiti ai detenuti che collaboravano con la custodia per l’ordine interno.
Insomma, era un ricircolo, e ai collaborazionisti, alle spie, a quelli che passavano in galera per “infami”, erano fornite le armi, nell’interesse generale istituzionale.
“Un po’ come le SS e i Kapo criminali comuni cui era affidato l’ordine nei lager”, pensò il vice e giù a riflettere sui giannizzeri dei sultani, sottratti alle famiglie cristiane e allevati nella dura disciplina militaresca e nella religione islamica per servire ciecamente il sultano.
E poi sugli schiavi romani, i gladiatori e Spartaco.
E gli Schiavoni veneziani: insomma era una pratica comune nel corso della storia.
Intanto la denuncia all’autorità giudiziaria seguì il suo corso, e solo tempo dopo si venne a sapere che l’uccisore era stato assolto con formula piena.
Neanche il porto abusivo d’arma gli era stato contestato, il coltello fabbricato essendo considerato più un utensile per mangiare (aveva una specie di spatola cucchiaio all’altra estremità del manico) che un’arma.
L’omicida aveva agito con la scriminante della legittima difesa: la corte aveva considerato che aveva lottato per la propria vita (difesa proporzionata all’offesa), riuscendo ad uccidere l’aggressore, quel piccolino che il vice, con una stretta al cuore, aveva visto disteso ai suoi piedi, immoto nella rigida tranquillità della morte.
(da: ROBERTO SEGRE,Tredici indagini del vicedirettore, 2020)