SILVIA PIO
Il tempo mi sembra infinito. E mi appartiene.
Ora più nulla può accadere, dubito persino che il giorno finisca.
Dalla finestra entra la luce incerta di un pomeriggio eterno, cade in giochi di polvere sulla pietra del pavimento. Ne spezzo i raggi con la mano.
Non può accadere più nulla. In quest’attimo immobile incontro me stessa, nella figura vera e ormai definitiva. La conoscenza incomincia dal ricordo.
La nebbia di Maremma evapora in vortici leggeri: un filo di sole porta l’odore della mia terra. La sua dolcezza si esprimeva in caldi toni rosati e faceva pensare ad un futuro amoroso, che non conobbi mai. Mi prende una gran tenerezza per la ripida collina senese, per la casa paterna e per le illusioni di bambina.
Un anello fu il vincolo primo con l’uomo che sposai e che mi portò lontano. La pesantezza di catene invisibili accompagnò i nostri pochi anni, passati in un soffio e senza felicità.
Felicità. La rincorsi da quando imparai a camminare, credendo che fosse appena poco più avanti, o che fosse partita un attimo prima. Luccicò da lontano quando i sensali di matrimonio portarono a mio padre la proposta di Nello de’ Pannocchieschi. Pensai di trovarla quando andai a vivere con lo sposo.
Illusione. Nessuno ha colpa. Ci sbagliamo tutti, ogni giorno.
Capii presto che non l’avrei incontrata sulla strada terrena.
Quale delusione quando vidi per la prima volta i colori cupi della Pietra in Maremma, e allora non sapevo che quello sarebbe stato il castello a me riservato e che in esso, qui, avrei terminato i giorni della mia vita di sposa.
Chinai il capo per non guardare: il primo segno di sottomissione.
Mi domandai spesso “perché mi volle?”. Il suo cuore si stancò in fretta di me e volò come farfalla dietro un’altra dama. Fu facile per lui dimenticare la sua sposa, facile liberarsene in segreto. Non mi opposi quando ordinò che mi portassero nella sua fortezza e neppure quando vidi la porta chiudersi sulla mia giovane età.
Non sapevo che sarebbe stato per sempre. Ma il tempo aveva allora un significato diverso.
Quando abbiamo davanti tanti giorni, tanta vita, ci disperiamo per l’infelicità e ci consoliamo per la possibilità futura di cambiare il nostro stato.
La stanza dove venni rinchiusa mi sembrò una prospettiva orribile. Ogni sera mi struggeva l’angoscia di un’altra notte di freddo e solitudine, ma la mattina tornava la speranza. Ci sarebbero stati altri giorni, in uno di questi la porta si sarebbe aperta, avrei avuto ancora un sorriso, un battito veloce del cuore, una lacrima di commozione…
Il tempo consumò l’illusione. La nebbia si mosse in una danza macabra intorno alle mura del castello, soffocò la giovinezza, disfece la forma gentile di quel che ero e spense la possibilità del domani.
Urlai dalla finestra la mia disperazione. La voce rimbalzò contro i vapori malsani, turbinò nella prigione e ricadde su di me. Nessuno sarebbe venuto a liberarmi, perché nessuno sapeva dove mi trovassi. Solo lo sposo (ma potevo ancora considerarlo tale?) conosceva bene dove fosse la giovane moglie e come sarebbe finita. Non si dimenticava di me giusto per non tradirsi. Nessun altro avrebbe ricordato.
A volte la spossatezza attutisce il dolore, e quando la sofferenza diminuisce e la stanchezza diventa condizione perenne, ecco che la mente può raggiungere una dimensione mai avvertita e trovare serenità.
Sentii di non appartenere più all’uomo che mi aveva sposata, il matrimonio e ogni altro vincolo mi sembrarono inutili contingenze. Fui padrona dello spazio ristretto dov’ero confinata: le pietre del pavimento diventarono carte geografiche del mio mondo fantastico.
E il tempo, il tempo si gonfiò e restrinse al mio comando. Nessun incerto futuro occupava più i miei pensieri, che senza forma volarono oltre i muri e la terra della prigionia.
Fui libera per la prima volta.
La libertà è una sensazione del cuore. È una corsa della mente. Un attimo di febbre.
Apre le porte interne di noi stessi.
È l’inizio della rivelazione.
Guardai dentro di me. Innocenza, inganno, vanità, debolezza, rancore. Incapacità. E un velo bianco che avvolgeva l’anima. Nebbia interiore.
Qual era il senso?
Non avevo mai posseduto il mio tempo. Chi aveva disposto della mia sorte? Non certo mio marito.
C’è un attimo estremo in cui tutto si svela. Una luce di grazia che elimina il grigiore lattiginoso delle nostre povere vite.
Una forma suprema si manifesta. Un Signore di giustizia e generosità, l’unico, dolce padrone.
L’esistenza è un arazzo pensato da Lui, tanto grande che non ne possiamo vedere il disegno quando ne siamo vicini. Ogni giorno ne tessiamo una parte. Inetti e maldestri, quanti sbagli e brutture possiamo creare. Il piccolo tassello intrecciato con fervore o fatica può sembrarci ben riuscito, ma quanto poco si armonizza col disegno dell’arazzo. Se siamo capaci di vedere l’errore, possiamo rimediare, disfare con pazienza e ritentare l’opera. Per fallire magari di nuovo.
Questo lavorio ci dà il senso del tempo, ma ci fa spesso dimenticare che esiste un progetto iniziale, pensato per essere il migliore e il solo possibile. Il nostro Signore ci aspetta dopo che abbiamo fermato l’ultimo filo.
Vedo finalmente il mio disegno. La mia esistenza mi compare davanti e comprendo chi sono. La sapienza che mi è stata data all’inizio e che ho adoperato finora senza coscienza, si rivela nella sua totalità. Uno dei tanti Suoi doni.
L’eternità che mi si prospetta riduce a nulla la felicità che tanto ho desiderato.
Foto di Lorenzo Avico
Monologhi estremi è una raccolta di monologhi autopubblicata.
Dalla prefazione di Giuliana Bagnasco: «Silvia Pio dà voce e volto a figure femminili della Storia e della Letteratura, lasciando emergere “la diversità” della condizione femminile in un intreccio di relazioni che coagulano nello spazio dell’autentico, della genuinità. Dalla posizione storica di ciascuna si illumina con chiarezza, anche solo un sottofondo, una cornice, che, grazie al coraggio dello sguardo, trova un suo luogo privilegiato nella parola che la esprime, attenta ai movimenti dell’anima e del corpo. Solo la sensibilità femminile riesce a riferirsi ad altre donne con la capacità di guardare nell’interiorità più profonda. La parola di una donna appartiene ad un ascolto interiore che rifiuta ogni schermo simbolico. Nei monologhi Silvia Pio parla infatti all’intimità delle donne prescelte alle quali presta il verbo senza cadere nell’intimismo, svela potenzialità emotive, risonanze psicologiche acute in una parola ad alta frequenza evocativa. Le tappe della vita di ciascuna delle sue figure sono ripercorse come confessione, anamnesi, pur rifuggendo da ogni compiacenza psicologica. Si offre dunque una ricognizione per epifanie, deliri, nenie, liriche, disvelamenti, apparizioni in cui irrompe l’arcano delle creature.»
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