RENZO FAVARON
Che primavera è
Una rondine. Due iris.
Che primavera è.
Non più la pianura.
Si direbbe una svista
o che lo sguardo
non fosse più lo stesso.
Pazienza.
C’è qualcosa da fare.
Sempre.
Una casa da svuotare.
Un’altra da riempire.
Poco o molto.
Non si può dire.
Solo una rondine. Due iris.
Oggi.
La pienezza.
*
Se occorre
I fiori nei ciliegi
non ci sono,
ma nei meli
e in alberi che non so.
Sotto le vigne
è pieno di soffioni:
ne ho preso uno
e disperso la sua corona.
Mi siedo
e ascolto il cuculo.
Ho un fiore in mano
e i suoi petali
-se occorre-
saprò sfogliarli all’infinito.
*
336
Non amo che la quiete,
ma preferisco il mare in burrasca
al piatto e monotono bordeggiare.
O lassù. Con il vento. La roccia.
E nulla da dire,
nulla di serio o di bestiale.
Non amo più che la quiete,
lo stare a vele abbassate
e nient’altro che il mare
a perdita d’occhio.
Oppure dare l’assalto
all’aria stagnante,
a questa storia cocciuta
che si trascina senza rotta,
come sotto il piatto
nero del cielo.
Il tempo si dilata, dilaga sì
- e noi ci troviamo al 336 di aprile
più simili a fiori di una pianta
che non vive che della propria acqua
e cresce, cresce anche mentre muore.
Io non amo che la quiete,
ma preferisco il mare in burrasca
con i suoi schizzi, preferisco
non diventare quella vela
che si arrotola su se stessa
per paura dei venti.
*
Ti vedo nelle parole
Ti vedo nelle parole.
Così mi tocchi: parla,
mostrati nuda, svelati.
Una parola di luce spacchi il buio,
perché non basta
che io ti veda spogliata,
svestita, ma impensabile.
Non sei quando stai muta.
Fuoco di un’immagine
si ode nella parola,
forma dove la pietra cede
e l’occhio ascolta
il cuore che cercava.
Parla, non sei una stella:
terra di nebbie
deve essere raccolta e dispersa
nelle luci della casa.
È immobile il sole, chiare
le sue ore come uccelli eterni.
*
Maternità
Guarda come sono poco.
Un lattante.
Ma più fuori.
Punto e linea.
Tu, prima,
tu, piena di grazia,
come per un nuovo battesimo.
Fa,
libera il tuo seno,
Cyinthia, perché sia
perfetta la scena.
Sì, guida le mie labbra,
tu, Madonna, tu, Madre,
tu, Acqua Solare.
Qui, adesso, immergi
tutto il corpo,
la pagina in cui entra
il tuo grembo
per nutrirla, per nutrirla.
E guarda,
parola dopo parola,
goccia dopo goccia,
due farsi uno,
come lassù
dove l’edera è cresciuta
e la torre non può farne a meno
senza franare.
*
Per favore
Ora vedo due finestre accese.
Ne vedo una spenta al centro.
Che qualcuno l’accenda.
Per favore: che qualcuno l’accenda.
Questa è la condizione inflitta.
Vedo due finestre accese.
Che qualcuno le spenga.
Per favore: che qualcuno le spenga.
Questo è il momento, quando la nebbia
s’addensa e non abbraccia la terra.
Sì, nella casa dei ricordi perduti
ci sono tre finestre.
Che qualcuno le spenga
o le tenga accese per sempre.
Per favore: che io non veda
da un occhio
ciò che l’altro non vede.
Sì, nulla del tempo che smentisca
il mio nome.
O luce.
O buio.
La raccolta di Renzo Favaron, Piccolo Canzoniere più bugiardo che vero, ed. Controluna 2020, è il frutto di un’attesa e di una lunga elaborazione. Non mancano immagini dettate dalla delusione e dal disincanto, ma si apre anche a squarci di luce e brevi epifanie.
Il tutto assemblato in un tessuto che unisce musicalmente la “fantasia” e lo scatto fonico-ritmico.
Renzo Favaron ha pubblicato alcune raccolte di poesia in lingua (Voci di interludio, Di un tramonto a occidente e Al limite del paese fertile) e in dialetto (Presenze e conparse, Testamento, In cualche preghiera, Nostos par passadoman, Balada incivie, tartufi e arlechini e Diario de mi e de la me luna). È autore di racconti e romanzi brevi (Esordi invernali, Dai molti vuoti e la Spalla). Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa.