Dialogo sul corpo

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GABRIELLA MONGARDI – SILVIA ROSA

Come sta cambiando la percezione individuale e collettiva del corpo, proprio e altrui, e dei vissuti che porta inevitabilmente con sé, in un tempo come quello attuale, in cui il corpo è stato scaraventato in tutta la sua fragilità al centro dei discorsi di ognuna e ognuno di noi? Come sfuggire alle ansie che ruotano vorticosamente intorno alla sua condizione di malattia, messa in netta contrapposizione allo stato desiderabile di salute, nella sua accezione più superficiale, da conservare a qualsiasi costo? Come si reagisce di fronte alla paura di ammalarsi? Quali pensieri prendono forma in un clima di sofferenza fisica e psichica, che aleggia su ogni angolo dell’esistenza, come minaccia senza possibilità di fuga, fino a stravolgere lo scorrere della quotidianità? 
Due amiche si sono confrontate per mail su questi temi e hanno pensato che le loro considerazioni potessero interessare anche altri, data l’esperienza collettiva che stiamo vivendo. Così ne hanno ricavato questo “dialogo sul corpo”: chi inizia a parlare è Silvia, poi le due interlocutrici si alternano regolarmente.

«In quest’anno di pandemia il corpo nella sua mera accezione di entità fisica, la malattia, il dato biologico hanno invaso prepotentemente le nostre vite e la narrazione di esse, a scapito di un’integrità che si richiama al modello bio-psico-sociale di benessere e salute. Il corpo è stato al centro dei discorsi, delle ansie e delle paure, mentre scompariva lentamente dalle relazioni sociali e dall’ambiente, mentre si ritirava dall’esistenza agita, ingigantendosi nella nostra mente come fulcro di tutte le angosce. Il nostro corpo e quello degli altri è diventato una minaccia, qualcosa da tenere minuziosamente sotto controllo, mentre la realtà subiva un blocco, una stasi, intorno all’idea ossessiva del contagio e della morte.»

«Già. In tempo di pandemia, quando un virus contagia tutti i corpi se stanno troppo vicini e ci impone di evitare i contatti fisici, il corpo degli altri ci fa paura e il nostro anche, nel senso che lo spiamo, lo auscultiamo allarmati dai minimi sintomi di infezione. Gran brutta storia, ma se ci pensi tutt’altro che nuova: la pandemia non è altro che un memento mori… Il paradosso è che, da un lato, il corpo nella società occidentale è al centro di tutte le cure e le attenzioni, c’è l’ossessione per la forma fisica e l’aspetto esteriore, proliferano palestre, spa, centri benessere, interventi di chirurgia estetica più o meno invasiva, nella speranza di cancellare dal corpo i segni del tempo; dall’altro, tendiamo invece a dimenticare di avere un corpo, o meglio di essere un corpo: cerchiamo di mettergli la sordina se non addirittura di silenziarlo, tant’è che la condizione di salute è definita come “silenzio del corpo” – in un immane sforzo di rimozione del destino di morte che il corpo porta con sé.»

«Ma in caso di malattia tutti i nostri sforzi sono vanificati. Quando ci ammaliamo, il corpo si manifesta in tutta la sua potenza, prende ogni centimetro di spazio, si sdraia in mezzo al nostro mondo. Dichiara la sua esistenza oscurando tutto il resto.
Io per esempio ho un rapporto molto conflittuale col mio corpo, ostaggio, sorvegliato a vista da tempo immemore. Da sempre il nostro dialogo è tutto dispetti e ripicche, grandi incomprensioni, ansie e messaggi in codice da decifrare con sospetto e diffidenza, slanci d’affetto che si esauriscono a ogni piccola imperfezione che si fa più evidente, nonostante lo sforzo, l’esercizio marziale di autocontrollo che non controlla niente, in effetti.»

«La pretesa di controllare tutto è un segno di giovinezza, non ti preoccupare: invecchiando passa… »

«Invecchiare… La vecchiaia che matura giorno dopo giorno è un cambiamento senza ritorno, una costante perdita di sé stessi, che io non riesco ad accettare così a cuor leggero. In pratica moriamo di continuo, nelle infinite trasformazioni a cui andiamo incontro, molto prima di morire davvero. Se guardo le mie foto di ragazza penso di essere morta, cioè quella persona, quel corpo, non esiste più, è altro, anche se perdura una certa unità, un filo rosso che tiene insieme ogni stagione e cambiamento. »

«Lo stesso dicevano i filosofi antichi: “L’uomo di ieri muore nell’uomo di oggi, l’uomo di oggi muore nell’uomo di domani”. Ma constatavano anche che il nostro corpo in realtà non appartiene a noi, bensì alla Natura che ce l’ha dato per così dire in prestito – quindi non possiamo controllarlo più di tanto, possiamo solo sperare nel suo “silenzio” e imparare a tollerare i suoi “capricci” e ad accettare le sue “metamorfosi” senza averne paura, perché sono naturali, inscritte nel fatto di essere nati… Vivere non è solo un continuo morire, ma anche un prepararsi a morire, un imparare a morire… cioè a perdere il controllo del nostro corpo, che è quello che muore.»

«Non riesco proprio a concepire l’idea che il nostro corpo sia in prestito! Ho un corpo e sono il mio corpo, ma non penso di averlo ereditato da niente e da nessuno, è solo la forma che ha assunto la mia anima, mi appartiene, sebbene si configuri spesso come limitazione, prigione. Ma certo, anche soglia.»

«Eppure, il nostro corpo ci viene da nostra madre, è dentro di lei che si è formato dall’unione di due gameti che grazie al suo sangue, alla sua placenta, sono diventati prima un embrione, poi un feto, infine un neonato… È attraverso la donna che la Natura genera nuovi individui della specie Homo sapiens sapiens, cioè corpi sempre nuovi per continuare la nostra specie.
Il corpo come prigione dell’anima è una concezione platonica ereditata poi dal Cristianesimo; è una bella immagine, ma non so se ci aiuta a vivere meglio, con meno angosce e paure – che è poi l’unica cosa che conta…»

«Hai ragione, ma come si fa? Di recente – in seguito a un intervento chirurgico – ho attraversato una delle mie paure più radicali, l’idea di questa totalità conchiusa fatta a pezzi, aperta e svuotata, in parte, segnata irreversibilmente. Il terrore di non essere più “come prima”, l’angoscia di accettare le trasformazioni di cui il corpo si fa portavoce, che incarna nonostante tutta la fatica di renderlo fedele a un’immagine ideale statica e senza ammaccature, senza segni, come se non gli fosse passata addosso tutta una vita. Non sono più “come prima”, a partire dal cuore delle viscere, approdando alla pelle segnata da quelle che a breve saranno cicatrici. Non è un discorso di estetica, di apparenza, di forma. È qualcosa di molto più profondo, che mi atterrisce e di cui ancora non so scrivere.
Pensavo al dolore delle ferite che si rimarginano, alla carne viva che prova a rigenerare sé stessa e a farsi di nuovo pellicola protettiva. Da un lato provo sgomento per questa vita che si perpetua a prescindere da me, dall’altro una certa tenerezza. Non so come si faccia, però, ad amare il proprio corpo, e questa incapacità è un rebus che non so risolvere, a volte sento proprio di smarrirmi alla ricerca di un modo in cui volere bene a qualcosa che non mi sembra me, che mi ostacola, mi limita.
Pensavo anche al corpo fatto oggetto, abbandonato nelle mani di estranei, privo di coscienza e consapevolezza, durante l’anestesia. Non mi ricordo niente di niente. Il tempo ha subito un taglio, un minuto prima sentivo la voce dell’infermiere mentre mi preparava per l’intervento, un minuto dopo la stessa voce mi diceva è finito, si svegli. Prima di addormentarmi ho detto tra me e me: questo è l’inferno, se esiste deve essere così, deve avere i connotati di questa consapevolezza d’essere assolutamente in balia degli eventi e degli altri, un oggetto appunto.»

«Anch’io ho già subito due interventi chirurgici in anestesia totale, ma non ho considerato il fatto che dopo non sarei più stata “come prima”, né ho vissuto l’anestesia come un “taglio”, un furto del mio tempo. Io benedico la medicina moderna che, grazie ai progressi della ricerca scientifica e tecnologica, riesce a curare tantissime malattie, anche se riduce il corpo a oggetto. E, quando sono stata operata, mi sono “fidata”, mi sono affidata tranquillamente a medici e infermieri… e ho cercato di ritornare quanto prima possibile al lavoro, alla solita vita.»

«Certo, anch’io. Però non sono più “come prima”, mi sento come se anche le emozioni si fossero anestetizzate, come se la testa si fosse svuotata, e se provo qualcosa è una paura pervasiva che non ha origine, e che è potenziata dal clima in cui siamo immersi tutte e tutti da un anno esatto. Vorrei dimenticarmi del mio corpo, non sentire di ospedali salute medici, vorrei immergermi nella vita e smettere da qualche parte questo spavento, non è paura di morire, è terrore di vivere, di lasciarsi attraversare dalla vita, segnare, ammaccare, è quello che respiro da un anno a questa parte, un’anestesia generale in cui non ritrovo più i miei sogni, e la mia identità si sfalda, uno strato alla volta. Non sono più “come prima”, forse nessuna e nessuno di noi lo è più. Ma che cosa sono? Chi siamo diventati? Come si fa ad abitare di nuovo questo nostro corpo senza averne così tanta paura?»

(foto di Bruna Bonino)