MADDALENA POLEGGI
Era maggio e a Grasse si festeggiano le rose.
Mi aggiravo fra petali vellutati, circondata da una profusione di colori e di composizioni anche improbabili, appagata da tanta grazia e profumi. La linfa sa estrarre dalle viscere della terra tesori di essenze minerali, sublimarli respirando luce, protendersi precisa e caparbia lungo rami, steli e pistilli, per poi dispiegarsi nell’aria celeste e mutarli in colore. Un numero di ordinaria magia terrena dove l’energia trascende la materia, carezzando i nostri sensi in modo lieve e misterioso.
Deambulavo contenta e svagata fra uomini e fiori quando mi sono imbattuta in un pifferaio magico. Un giocoliere del colore. Un pittore.
Prima di tutto ho notato i suoi quadri. Ci sono entrata dentro letteralmente. Se voglio capire qualcosa non ho bisogno di pensarci, la guardo. La mente immobile. A volte un talento sincero risveglia intime epifanie e smuove le acque sotterranee. Si attivano vibrazioni profonde che risalgono in superficie.
Dieci minuti dentro la prima tela, da vicino, da lontano, esplorando ogni centimetro attentamente. La libertà del gesto, una certa spavalderia, certamente frutto di una padronanza acquisita nel tempo, ma soprattutto una poesia sottesa, un gusto armonico, un desiderio inarrestabile di bellezza.
Cammino lentamente, lo sguardo fisso su questi grandi acquarelli che ritraggono fiori in libertà: iris, orchidee e rose, naturalmente. Sono ciliegie dolci e carnose, da gustare piano.
Colori luminosi accostati con sapienza, freschezza, fluidità, ma soprattutto ritmo, essenza, succo di vita in punta di pennello. Un’apparente spontaneità, ma chi ha tentato l’esperienza sa bene che l’acquarello inganna con la sua falsa semplicità. Trarne l’effetto ricercato richiede ore di studio e pazienza, coraggio, costanza e disciplina. La foga creativa, la visione d’insieme e il momento estatico arrivano, se arrivano, dopo lacrime e sudore. Quando il pennello comincia a muoversi da solo, prolungamento ideale dell’emisfero destro, fremente di piacere davanti allo spettacolo della natura. Allora il gesto imprime senso al movimento e dà forma e concretezza ai moti dell’animo.
L’acquarello è un genere particolare, molti lo utilizzano con minuzia e precisione, rispettano pazienti un protocollo saggio e un po’ stantio. Il risultato, come una bella carta da parati, si guarda volentieri. Altra cosa è quando l’acqua scorre viva, trasportando il colore ora con forza ora delicatamente, in un’alternanza di controllo e di abbandono, simile al palpitare della vita. La mente si lascia rapire, muta anche il respiro.
Cerco il segreto di questa felice alchimia. S’intuisce che l’arte della calligrafia, con la sua umile e meditata ripetizione d’ideogrammi complessi, ha forgiato un virtuosismo un po’ istrionico ma fedele all’essenziale. Guardo i colori che s’incontrano, si fondono e si separano. Le pennellate rapide raccontano storie di materia e di luce sfrondando i dettagli, per stemperarsi appagate in sfondi sfumati dove lo sguardo può riposare.
Davvero esiste qualcuno che vede il mondo così, capace di renderne conto con tale esuberante maestria? Cerco di decifrare la firma nera in basso a destra… si direbbe cinese.
Alzo lo sguardo sulla sala, c’è un giovanotto slanciato di chiare origini orientali. Sta parlando con un’ammiratrice e gesticola, le sue mani nell’aria fra lei e lui descrivono qualcosa. Un piccolo capannello di visitatori aspetta paziente. Guardo discreta i suoi movimenti, i gesti e le espressioni. Ascolta attento e poi risponde animatamente. Sorridente e cordiale, ma con un certo riserbo, alla maniera orientale.
Mi avvicino piano, continuando a studiare con la massima attenzione i suoi quadri. Sono intrigata da quella scoperta, carica di curiosità. Non posso lasciarmi scappare quest’occasione. È la prima volta che vedo un’artista vivente usare l’acquarello con tanta disinvoltura e libertà.
Ogni tratto, ogni singola goccia di colore compone una tessitura di emozioni pure, condensa in un gesto rapido un’interpretazione del mondo. Il pennello racconta, ma soprattutto canta e balla. E tiene il ritmo. Cuore e tecnica. La sua melodia ha momenti forti da primattore che emergono su una trama equilibrata e armonica, dove i colori pesano il giusto, ognuno con la sua vibrazione e personalità. Squillanti e generosi, brillano come ottoni nell’orchestra, ma si piegano umili e indispensabili alla sinfonia dell’insieme. Una musica ballabile che lascia il sorriso sulle labbra.
Finalmente mi apro un varco e stringo la mano all’artista. Si chiama David, è cinese d’origine e francese di adozione. Non nascondo il mio entusiasmo, quando si tratta di emozioni artistiche non sono pudica, mi spoglio volentieri degli abiti del quotidiano decoro. David non dipinge solo fiori, ma la natura e i paesaggi sono le sue grandi muse. Parliamo dell’ispirazione, dello scambio vivificante fra la cultura orientale e quella occidentale, pur con i suoi numerosi fraintendimenti. Di come cogliere l’essenziale, del lavoro ostinato e della disciplina, compagni forse un po’ grami dell’artista, ma inevitabili per trovare la propria libertà d’espressione.
Ha una galleria ed espone nella regione, dà corsi di acquarello, però è in partenza per un salone a Tarragona. Due giorni dedicati all’incontro col pubblico e a dipingere, tempo permettendo.
Sta passando un treno carico di opportunità, come un bimbo davanti alla vetrina della cioccolata fremo, devo fare qualcosa. Subito. Un po’ sfacciata, mi propongo come allieva-accompagnatrice. Sento che ho molto da imparare ed è il momento giusto, ho liberato spazio nella mia vita per poterlo fare. David esita, perplesso e un po’ spiazzato. Lo capisco, sorrido rassicurante.
Scambiamo i numeri di telefono, sento che si può fare.
In macchina, diretti a Tarragona guidiamo piano e parliamo molto. Due estranei hanno tanto da dirsi. La vita di David è stata movimentata, la sua famiglia ha conosciuto diversi rovesci di fortuna, soprattutto con l’avvento della rivoluzione culturale cinese. Ne parla con discrezione, indovino il peggio, ma lui preferisce parlare delle sue prime emozioni artistiche. L’arte è stata il suo rifugio nei momenti più duri. Suo padre gli aveva permesso di iniziarsi alle arti plastiche da ragazzino, quando la vita sembrava scorrere senza drammi. L’esilio a Hong Kong, la grande opportunità di viaggiare grazie ai suoi ottimi risultati scolastici. Gli studi a Nizza e i primi onori, un successo di pubblico che perdura.
Mi chiede quali sono i miei artisti preferiti. Gli dico che trascorro ore a studiare i disegni di Prud’hon e le tele di Ingres. In quel periodo sono soggiogata dalla perfezione dei loro nudi, le morbide curve, il perfetto equilibrio fra il racconto e il non detto. La mia risposta lo sorprende, soprattutto il campione del neoclassicismo gli fa inarcare le sopracciglia e annuire pensoso. Per rimescolare quel silenzio, cito altri artisti rivoluzionari e meravigliosi: Kandinsky, Klimt, Monet… campioni di libertà e inventori di linguaggi nuovi, maestri del colore.
I suoi occhi brillano, certamente ripercorrono tele note e ammirate per ore nei grandi musei europei. Lo vedo sulla panchina di quelle sale immense, studente espatriato, fuggito da una patria matrigna, accolto fra le braccia morbide della Maya desnuda, le carni voluttuose di Danaë, i primi acquarelli astratti, le ballerine di Parigi.
Continuo come un fiume in piena: “Però non posso negare lo struggimento per le atmosfere rarefatte dei preraffaelliti, le tempeste di Turner, i magici pastelli di Degas. Come si fa a scegliere, David? Posso trovare ispirazione in tutti i periodi e in tutte le correnti, perché limitarsi quando la natura umana ha saputo produrre tanta inesauribile commovente bellezza?” Sorride, non mi contraddice. Guardo le sue dita sul volante. Dita asciutte, flessibili come giunchi, si accordano con il viso aperto, mobile e sorridente. Yin e Yang in buon equilibrio. Voglio osservare quelle dita in movimento mentre crea. Sono una spugna, voglio dipingere e ho trovato un maestro.
Guardiamo la strada davanti a noi, che taglia come un nastro il folto paesaggio verdeggiante del sud della Francia. Il maestro e l’allieva. In questo viaggio ho portato pennelli e colori, ma soprattutto ho portato me stessa.
L’obiettivo della nostra escursione è chiaro, non c’è ambiguità. Tuttavia quando propone di prendere una sola camera d’albergo per risparmiare ho un’esitazione. Dico va bene, l’impaccio è appena percepibile. Letti separati, chiaro, ma l’albergatore non ha capito. Entrando in camera quel grande letto ci fa ammutolire poi sorridere. Tocca puntualizzare, David si occupa di chiamare la reception. La situazione si presta a equivoci, come in quelle commedie americane anni ’60 dove lui stende un lenzuolo fra i due giacigli e poi nessuno dorme e ci si rigira nel letto tutta la notte sospirando.
Aspettando il sonno rifletto. Solo pochi giorni prima stavo in ufficio, in un altro paese, mi occupavo incidentalmente di finanza e mi domandavo cosa fare di quell’inquietudine. Ora eccomi qui. È stato sufficiente provare a seguire l’istinto, un passo alla volta, disinnescare il pilota automatico e non pretendere di sapere come andrà a finire. Abita nel singolo un coraggio che chiede a gran voce di potersi esprimere, senza eroismi, solo la voglia di non abbruttirsi, di non sprecare questa mano di poker.
Ci occupiamo dell’allestimento dello stand, sono un’assistente motivata, esuberante e insolitamente ciarliera. Voglio gustare ogni attimo di quella vita d’artista presa in prestito per 48 ore. Il salone è popolare, l’affluenza è mista, molti curiosi e qualche conoscitore. I commenti degli avventori mi divertono, molti fanno complimenti rapiti, qualcuno è più esigente. Un signore di mezza età mi chiede spiegazioni un po’ sarcastico: “Non le sembra un po’ troppo quella macchia giallo canarino?” Guardo quella montagna, una versione molto personale ispirata ai classici paesaggi della pittura cinese. L’uso del colore è giudicato eccessivo. “La pittura ha le sue regole e c’è un limite all’esternazione!” Davvero? Scuoto la testa piano. Sto guardando una poesia e un artista che si esprime. Ma voglio dialogare con lui, chiedo se ha dubbi sulla sincerità artistica. “Forse lei pensa sia sbruffonaggine o è proprio la singolarità, l’uscire dai canoni che la disturbano?” L’uso del bilancino, parlando di arte, m’indispone. Soppesare, misurare, tracciare limiti di decoro e decenza?
Ma soprattutto, dobbiamo vergognarci dell’entusiasmo, della gioia di vivere? Dobbiamo rassegnarci a essere regolari, controllati, conformi? Misurati designer della nostra vita, magari anche cinici raffinati?
I cinici mi mettono a disagio. Sembrano irritati dalla manifestazione dell’altrui emotività. La sensibilità è cosa privata, non si esprime. La spontaneità li disturba, preferiscono stare col piede sul freno. Ridurre il pathos ai minimi livelli e magari metterci sopra una pietra tombale, ancora più soddisfatti se l’epigrafe è arguta e definitiva. Quel risparmio però, quel rifiuto di esporsi e di condividere ha certamente un prezzo… e anche un sentore di morte.
Guardando la tela insieme al visitatore m’improvviso guida alpina di paesaggi immaginari. “Non vede? le cime sono appena suggerite eppure si respira aria tersa e rarefatta di montagna.” Fra vallate vertiginose e riflessi dorati, mi soffermo su quei raggi luminosi che fendono il cielo, uno squarcio che inonda la montagna. “Non le piacciono quei raggi? Eppure invitano ad alzare lo sguardo.”
Nella cultura cinese l’uomo ritrova senso, salute e consapevolezza allineandosi fra cielo e terra. L’energia è dentro e fuori di noi, ci pervade e ci trascende in un’unità cosmica che tutto comprende. Difendo a spada tratta la libertà artistica e la necessità di quella macchia gialla per l’equilibrio del tutto. Il tipo parte pensoso, non del tutto convinto. Mi giro e incrocio lo sguardo di David che, occupato altrove, ammicca divertito…
Il momento culminante è dipingere sullo stand insieme a lui. Un mazzo d’iris viola e magenta troneggia davanti a noi. Nel mezzo del via vai di curiosi, osservo il maestro intingere il pennello e lavorare tranquillo. Guardo i fiori con gli occhi socchiusi, come da manuale, respiro piano, prendo un foglio di carta pesante formato grande e tuffo la punta del mio pennello cinese nel bicchierino d’acqua limpida. C’è qualcosa di denso in questo momento, sono concentrata, libera, sola con il mio sentire. Non penso a niente. Dipingo. Appoggio il pennello carico sul bianco intonso, respiro l’odore familiare del colore sulla carta granulosa e per una buona mezz’ora non mi accorgo più di niente. Curiosamente essere presenti a se stessi può coincidere con il dimenticarsi. Perdersi in un flusso lento e coinvolgente, quasi immobile, dove non manca niente.
Si è creato un capannello, alla gente piace guardare il momento della creazione. Normale, chi non l’ha fatto? C’è qualcosa d’intimo, come leggere un diario personale, e allo stesso tempo un’attesa carica di aspettative, la voglia di vedere come va a finire. Come guardare un funambolo sospeso nel vuoto, impegnato in un esercizio periglioso, tra bellezza e conquista. Ma lo schianto è in agguato, il gesto sbadato o eccessivo, la goffa perdita di equilibrio, la gravità che ti riacciuffa inesorabile.
Quello che osservi curioso non è un gioco da poco… In quello scarto fra la realtà davanti ai nostri occhi e il disegno che prende forma, sta la singolare unicità di un’altra coscienza, la sua impronta di uomo sulla terra.
Conservo ancora quel mazzo d’iris, il mio primo acquarello pubblico. Lo guardo con tenerezza, canovaccio leggero e ingenuo ma sincero, che ha la fragile armonia di un fiore.
Da quel giorno ci sono stati altri momenti di pittura insieme, come quella volta seduti sul selciato, nella piazzetta della città vecchia di Grasse, quando il suo pennello scorreva veloce all’ombra di un platano ed io ascoltavo il fresco gocciolare della fontanella cercando l’ispirazione in un assolato pomeriggio estivo. Tutto si mescola ora, i dettagli, ma non le sensazioni di vera vita, quando fai quello per cui senti di essere nato. Poco importa il risultato. Il risultato sei tu, la tua anima gonfia di gioia.
Per qualche tempo ci sono stati corsi privati e di gruppo. Molte conversazioni sull’arte. Trepidante ho mostrato i miei carnet di schizzi, le prove, i tentativi di trovare una via personale, di sganciarmi dalle tante influenze dei maestri, vivi e defunti. Annuiva, m’incoraggiava, ma una volta si è spazientito, mi ha detto che non lavoravo abbastanza tenacemente, che ci voleva metodo e costanza. Adesso lo so, aveva proprio ragione, ma si può andare contro la propria natura? La farfalla travestita da formica è felice? Forse in fondo la formica non cerca la felicità, ma un modo onesto per guadagnarsi pane e sicurezza, piccola e fragile com’è.
Stavo divagando, intanto lui cercava di trovare la pazienza per spiegarmi… bisognava osservare e replicare mille volte lo stesso oggetto in varie condizioni di luce per capirlo davvero e poterlo rappresentare. “Prendi un uovo e disegnalo mille volte cambiando l’orientamento della lampada, dopo ne riparliamo”. Molto cinese pensai, consapevole della mia cattiva coscienza.
Ho incorniciato le prime cinque uova disegnate a matita, sono appese sopra il divano in soggiorno. Sono state, lo confesso, anche le ultime.