Il partigiano Piero Cosa – Prima puntata

Piero Cosa

Piero Cosa

GIUSEPPE PRIALE

Tra le figure di comandanti partigiani che hanno organizzato e condotto la Resistenza sulle montagne delle Alpi Marittime, quella del capitano Piero Cosa mi ha colpito più d’ogni altra e affascinato, soprattutto per la sua vicenda umana prima ancora di quella resistenziale, iniziata con la creazione della Banda della Val Pesio, poi delle Brigate Valle Pesio, Ellero e Maudagna, infine delle Formazioni “R” (Rinnovamento), considerate più autonome politicamente delle Autonome (di Ferruccio Parri) a cui appartenevano, presso le quali godeva di grande prestigio, dopo aver dato prova di elevate doti strategiche e tattiche specie nella cosiddetta Battaglia di Pasqua condotta nell’Alta Val Pesio fra il 7 e il 9 aprile del ’44.

Piero Cosa nacque a Cussanio di Fossano il 1° agosto 1908, settimo di undici figli di Carlo e Maddalena Audino di ascendenze chiusane. Di questi, due morirono in giovane età, alcuni diventarono missionari della Consolata e due si fecero partigiani all’ombra della Certosa di Pesio: Piero e Ottavia. La sorella fu cuoca e vivandiera, ma anche audace patriota insieme all’amica Francesca Gerbotto di San Bartolomeo di Chiusa, diventata in seguito moglie di Piero.

Possiamo dire, però, che si aprì alla vita a Mondovì, dove frequentò per cinque anni la scuola per geometri all’Istituto Baruffi. In seguito prestò servizio militare nel glorioso 1° Reggimento Alpini con il grado di sottotenente di complemento. C’è da pensare, quindi, che abbia guidato il suo plotone, per addestramento alla marcia, attraverso le valli e le montagne del Monregalese, la cui conoscenza gli tornerà molto utile durante la Resistenza. Terminato il servizio militare, dal 1931 al 1940 ricoprì il ruolo di segretario dell’Ingegnere Capo Ercole De Stefanis dell’Ufficio del Genio Civile di Cuneo. Interruppe l’impiego nel 1936 per alcuni mesi, perché richiamato in servizio presso il suo Reggimento in occasione della conquista dell’Impero d’Etiopia, quando l’Inghilterra e la Francia avevano minacciato di intervenire militarmente in difesa del negus neghesti Hailé Selassié, la cui corona imperiale era passata sulla testa dell’inetto Vittorio Emanuele III non all’altezza (nessun riferimento alla sua statura) della difficile situazione italiana del 1922, senza però provocare conseguenze internazionali, né gravi danni economici all’Italia con l’embargo, neppure quando al nostro Re misero in capo nel 1939 anche la corona dell’Albania. (C’è da pensare che il peso di tutte quelle corone gli abbiano fatto venire un gran mal di testa, lui che la testa la usava bene solo a fare il numismatico). Scoppiato il Secondo Conflitto Mondiale, dovette nuovamente lasciare il suo impiego (il più confacente al suo titolo di studio), perché fu richiamato nuovamente in servizio, questa volta, all’8° Reggimento Alpini della Divisione Julia con il grado di tenente e poi di capitano.

Il caso volle che vent’anni dopo anch’io prestassi servizio militare nello stesso Reggimento di stanza a Tolmezzo, ma con il grado di “nullatenente” (soldato semplice), però incarognito per quindici mesi per non averlo fatto da ufficiale di complemento (non ammesso al Corso), come invece era riuscito a fare un mio compagno di collegio (stesso reggimento, per fortuna non la stessa compagnia), davanti al quale alcune volte, con eroica umiltà, mi dovetti  mettere pure sull’attenti battendo forte i tacchi e portando con indicibile sforzo la mano alla visiera del cappello da burba, neanche fossi stato davanti al Colonnello Comandante del Reggimento. Il continuo esercizio d’umiltà non servì, però, a farmi diventare emulo del Poverello d’Assisi, perché ero troppo attaccato alla misera paga del soldato, equivalente al costo di una pizza e una birra, che potevo concedermi ogni dieci giorni, se la decade non se n’era già andata in fumo con le sigarette, quelle più economiche, ma più patriottiche: le gloriose Nazionali. Il mio ex-compagno di collegio, invece, fumava Malboro e al sabato andava a cena nel miglior ristorante di Tolmezzo in piacevole compagnia, mentre io non potevo fare altrettanto “per colpa” di mio padre, che nel 1944 era stato condannato al “palo”, per cui io non ero stato ammesso al Corso per Allievi Ufficiali di Complemento (A.U.C). Questo mi fu laconicamente comunicato dal Maresciallo dei Carabinieri di Villanova Mondovì, senza precisare per quale motivo, come se essere messo al “palo” fosse già di per sé un reato. C’è solo da pensare, quindi, che mettersi dalla parte della Resistenza fosse considerato un atto eversivo, un grave e palese atto di opposizione al nuovo regime della Repubblica di Salò, perciò un reato che andava punito in quel modo, affinché servisse da pubblico ammonimento. Infatti, mio padre aggiustava le scarpe dei “ribelli”, ai quali lasciava sentire anche Radio Londra all’apparecchio di casa, requisito insieme al maiale, il più neutrale di tutti. Evidentemente ancora nel 1961 certe “colpe” dei padri venivano pagate anche dai figli, qualora l’informativa dei Carabinieri di allora (registrata comunque in modo incompleto, forse per opportunità) non fosse stata positiva.

A onor del vero devo precisare che, durante la Repubblica di Salò, molte stazioni dei Carabinieri erano sotto il controllo della Guardia Nazionale, che poco alla volta avrebbe dovuto sostituire tutti i corpi di polizia. Se questo probabilmente era già avvenuto alla Stazione dei Carabinieri di Villanova, non sicuramente era avvenuto a quella di Chiusa Pesio, che fin da subito, e neanche troppo nascostamente, si schierò dalla parte della Resistenza, tanto che il benemerito Comandante Aristide Pelissero scrisse nelle sue memorie: “Il 26 giugno una ventina di militi della Guardia Nazionale, armati di mitragliatrici e di bombe a mano, circondavano la caserma dei Carabinieri per arrestarli e fucilarli. Essi, però, approfittando di un momento di distrazione degli assedianti, indossavano abiti civili e riuscivano a fuggire alle catture e a passare nelle file dei Volontari della Libertà”.

Quindi, per i Carabinieri di Villanova del ’61 la condanna al “palo” era ancora di per sé una pena che anch’io dovevo pagare, a prescindere dalle motivazioni, che oggi non sarebbero sicuramente più valide. C’è da pensare, allora, che il veto dei Carabinieri rimase tale anche per la Commissione che mi escluse dal Corso. Nonostante la “macchia” paterna, risultai però “abile e arruolato” per fare il soldato semplice con la poco invidiabile qualifica di “assaltatore”. Per fortuna mi salvò la pace. Assaltai solo, ogni tanto, una pizza e una birra.

Riprendendo in mano il curriculum di Piero Cosa, veniamo a sapere che partecipò con il grado di capitano alla Campagna d’Albania, durante la quale meritò elogi dai superiori e grande stima dai subalterni, come si evince da un rapporto informativo del 15-17 gennaio 1943, stilato dal gen. Cesare Del Ponte. Poco dopo, però, quando la guerra per l’Italia diventò catastrofica su tutti i fronti, il nostro elogiato e stimato Capitano un giorno si permise di opporsi alle rigide regole della gerarchia militare. Si meritò immediatamente un deferimento al tribunale competente per insubordinazione: aveva autorizzato la distribuzione alla sua Compagnia, ridotta alla fame da alcuni giorni, delle Razioni K, da distribuirsi solo in caso estrema necessità, previa autorizzazione dei superiori, interpellati peraltro già più volte. Solo l’8 settembre ’43, con lo sfacelo dell’esercito italiano, con l’Italia divisa in due e dilaniata dalla guerra civile, poté salvare il capitano Cosa dal tribunale militare e magari dal “soggiorno” in quel di Gaeta, senza escludere eventuali ripercussioni negative sul suo futuro. (Quando si finisce su certi registri, vi si rimane per sempre, se non vengono distrutti). Infatti, non ho capito perché, finita la Resistenza, non rientrò al Genio Civile di Cuneo. Non ho capito perché fu bocciata la sua candidatura (caldeggiata dagli emigrati italiani) a console in Colombia, dove anche lui era emigrato per le “delusioni tremende del dopoguerra”, come scriveva nella lettera ad un amico.

Oggi pochi ricordano chi era Piero Cosa o conoscono la sua vicenda umana, il suo passato militare e resistenziale. A quanto mi risulta, solo San Bartolomeo di Chiusa Pesio lo ricorda con una piazzetta a lui intitolata. Mi auspico che anche Prea e Miroglio, già sedi delle sue formazioni, facciano altrettanto, anche se Cosa meriterebbe un monumento, che onori la memoria di un uomo che non volle mai essere personaggio per ambizione, che non pretese mai cariche prestigiose, che respinse due onorificenze per coerenza ai principi secondo cui concepì la Resistenza. Voleva che non solo le sue formazioni fossero indipendenti dalla politica, ma che tutte le formazioni partigiane mirassero prima di tutto a sconfiggere il Nazifascismo e a far rinascere l’Italia sotto l’ideale bandiera di Giustizia e Libertà, necessarie e indispensabili per rifondare il nostro Paese su basi democratiche. Su questi due sacrosanti principi era in perfetta sintonia con Ferruccio Parri, ma non con il suo Partito d’Azione, che avrebbe dovuto stare fuori dalla Resistenza armata, come tutti gli altri, fino alla vittoria finale.

La Resistenza per Piero Cosa non fu solo un evento armato, fu prima di tutto la risposta ad un imperativo etico, alimentato da una profonda fede in Colui che si serve degli uomini per fare la storia, sia nel bene che nel male, secondo un suo progetto indecifrabile, tenuto nascosto anche agli angeli del cielo. Così, quando l’ora di fare il bene suonò, il Capitano, già deferito al tribunale militare per insubordinazione (in verità proprio per il bene dei suoi soldati) rispose prontamente.

Finita la disastrosa Campagna d’Albania; persa in mare, durante la ritirata, metà della sua compagnia distribuita su due navi, di cui una silurata dagli Anglo-Americani e ritornato a casa in modo rocambolesco, già il 19 settembre ’43 decideva di entrare nella Resistenza armata, quando nel primo pomeriggio di quella domenica vide sollevarsi nel cielo della Bisalta una densa colonna di fumo. Non era una scapita di foglie secche o un fienile che bruciava: era Boves data alle fiamme dai tedeschi per rappresaglia. Era capitato, infatti, che alcuni partigiani, appartenenti alla Banda appena costituita da Ignazio Vian, scesi in paese per far rifornimento di viveri, avevano fatto prigionieri due tedeschi, che stavano armeggiando attorno ad una camionetta rimasta in panne sulla piazza. Nonostante che i prigionieri dopo due giorni fossero stati liberati grazie ai buoni uffici dell’anziano parroco don Giuseppe Bernardi, onde evitare la minacciata rappresaglia, che però arrivò lo stesso e spietata. Furono incendiate trecentocinquanta case. Il parroco, cosparso di benzina, fu bruciato vivo. Furono fucilate venticinque persone, tra cui il giovane viceparroco (23 anni) don Mario Ghibaudo, mentre portava in salvo sotto la tunica il Santissimo Sacramento e, con il carretto, alcune persone anziane. Don Mario, prima di essere fucilato, fu seviziato e, dopo morte, pugnalato in diverse parti del corpo da assatanati luterani agli ordini del maggiore Joachin Peiper.

Nel 1948 un compagno di seminario e di gite in montagna, per ricordare il martirio di don Mario, scrisse un libro intitolato Veste insanguinata, pubblicato anonimo (non più ristampato), forse perché nell’immediato dopoguerra alcune verità e certi giudizi sulla Resistenza potevano dare fastidio ad una certa parte politicamente molto agguerrita e dare delle noie a chi le aveva scritte. Dopo aver letto quel libro al tempo delle scuole medie, non volli più leggere e sentir parlare della Guerra Partigiana, perché ormai avevo preso pienamente coscienza dell’alto prezzo pagato dalla mia famiglia, prima con il Fascismo, poi con la Resistenza. Solo in questi ultimi anni, dopo che le ferite del cuore sono state anestetizzate dal tempo, mi sono riconciliato con essa mediante la lettura, all’inizio anche un po’ distratta, degli Atti del Convegno di Studi nel Centenario della nascita di Piero Cosa. Convegno tenutosi a Chiusa Pesio il 2 agosto 2008 per ricordare e celebrare la figura di un grande comandante partigiano e di un grande uomo, rimasto quasi dimenticato durante gli anni del suo volontario esilio in Colombia. Ritornato in patria dopo ventiquattro anni, richiamato da vecchi amici e dalla nostalgia delle sue montagne, trascorse nell’ombra e nel più dignitoso silenzio il resto della vita. Mi auguro che un giorno qualche scrittore e storico di vaglia, erede di Gian Paolo Pansa, gli sappia dare il posto che si merita nel quadro policromo della Resistenza italiana e sappia mettere in luce la sua vicenda umana, vissuta in pace e in guerra sempre con grande rispetto per Il Sangue dei Vinti e soprattutto per la verità, continuamente minacciata dai seguaci del Menzognero. Mi auguro che sappia magari cogliere anche quei tratti che lo avvicinano, sotto certi aspetti, al Partigiano Johnny, un romanzo veritiero e autobiografico che Beppe Fenoglio ha lasciato incompiuto nel cassetto, forse in attesa che le acque, ancora torbide del dopoguerra, si schiarissero per permettere alla verità sulla Resistenza di venire tutta intera alla luce, ma forse anche in attesa che si dissolvesse quell’aura epica che in passato ha rischiato di far svanire la Resistenza nelle nebbie del mito, l’antenato spurio della storia, genitrice di figli smemorati e maestra  sempre di cattivi allievi.

“Il Partigiano Johnny”, pubblicato postumo da Lorenzo Mondo nel 1968 presso Einaudi, è considerato dai critici il più originale e antiretorico romanzo scritto sulla Resistenza, vissuta in prima persona dall’Autore. Johnny, fin dall’inizio della sua avventura partigiana, trova difficoltà ad inserirsi nella prima formazione che trova, quella dei fazzoletti rossi al collo (di sinistra), che ben presto lascerà, perché i comandanti, invece di far scuola di guerriglia a giovani renitenti alla leva e a soldati sbandati dell’esercito italiano, invece di preparare piani strategici con le formazioni di altri colori, fanno scuola di marxismo in sintonia con quei partigiani titini che miravano non solo a cacciare i Nazifascisti, ma anche a unire il Friuli e la Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista di Tito. Così capitò che partigiani di sinistra della Divisione Garibaldi-Natisone sparassero a quelli di destra (fazzoletti azzurri), li infoibassero e tendessero loro imboscate, come quella tesa con l’inganno alla Brigata Osoppo al Porzus, dove vennero trucidati diciassette partigiani di destra, tra cui il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido. Per fortuna da noi non si arrivò a tanto, ma Beppe Fenoglio nel suo romanzo riporta un episodio in cui alcuni azzurri di destra (appartenenti a formazioni autonome a cui Johnny era passato) erano stati disarmati, ma per fortuna senza spargimento di sangue, dai rossi di sinistra, che cercavano, con i commissari politici, di usare la Resistenza per instaurare un regime comunista al posto di quello fascista. Così, saremmo caduti dalla padella nera nella brace rossa insieme alla bandiera di Giustizia e Libertà. Alla fine però, anche se la mitica bandiera non finì nella brace, si afflosciò sul suo ideale pennone, non appena cessò il vento forte della Resistenza.

Sicuramente il Johnny del romanzo si sarebbe trovato in sintonia con il comandante Cosa delle Formazioni “R”, più autonome di quelle Autonome di Ferruccio Parri, operanti nelle Langhe e comandate dal maggiore Enrico Martini (alias Mauri). Il partigiano Johnny, dopo aver cambiato il colore del fazzoletto, non sembra, però, aver trovato ancora la formazione e il comandante giusti. Peccato che il destino non abbia fatto incontrare questi due partigiani, molto simili nel concepire la la Resistenza. Uno combattente sulle colline ai piedi delle quali affondano le radici di entrambi i genitori; l’altro sulle montagne ai piedi delle quali affondano le radici della madre e del suo spirito missionario (in abiti civili e militari), rafforzatosi all’ombra dell’antica Certosa, dove nacque la sua prima formazione partigiana, la Banda della Val Pesio. Entrambi furono colti dall’8 settembre con la divisa di ufficiali di complemento. Ritornati a casa non vissero, però, come topi nelle cantine o alla macchia. Entrambi risposero prontamente all’imperativo del dovere morale, civile e patriottico, convinti che bisognasse non solo liberare l’Italia dal Nazifascismo, ma anche risvegliare il popolo italiano dallo stato comatoso in cui era caduto con vent’anni di dittatura. Beppe Fenoglio e Piero Cosa (alias Bastiàn nella Resistenza), sono molto simili nel concepire il loro partigianato, a volte assai dissenziente con quello concepito da altri. Già il nome di battaglia di Beppe Fenoglio, il largo uso dell’inglese, i numerosi piemontesismi, le frequenti neoformazioni lessicali, morfologiche e sintattiche usati in questo romanzo, danno l’immagine di uno scrittore di “rottura”, totalmente libero nelle forme espressive e nei giudizi, ben diverso da altri oramai fascistizzati, anche nella lingua, in nome del nazionalismo. Rompendo le regole della tradizione linguistica e di regime, Fenoglio sembra voler rendere un esplicito omaggio agli Anglo-Americani liberatori, senza i quali l’Italia e l’Europa non si sarebbero liberate da sole dal Nazifascismo. Piero Cosa sembra quasi essere stato risparmiato dai siluri degli Alleati per poter continuare con essi la guerra di Liberazione. Ben presto, con altri, istituisce il Servizio X, un servizio segreto che per prendere contatti con gli Anglo-Americani, allo scopo di ottenere armi, munizioni e viveri per i suoi partigiani, che non disponevano neppure delle famose Razioni K per sopravvivere, costretti a volte ad “arrangiarsi” come potevano. Grazie a lui si ebbero i primi aviolanci nel Cuneese, di cui io serbo ancora un vivo ricordo visivo di uno, quello fatto sul Pian della Tura in un pomeriggio pieno di sole, ma freddo, di dicembre, mentre noi bambini, usciti dall’asilo sul sagrato della chiesa, ammiravamo estasiati gli enormi “bucaneve” che scendevano lentamente dondolando nel cielo color cobalto.

(Continua)

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