Verso l’Est o nel solco del tempo, per imparare a morire

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GABRIELLA MONGARDI
«Nel solco del tempo
conta ogni gesto
nulla è lasciato al caso
poiché non è così facile morire
Chi accetterà di ficcare la testa nel fango del tempo?»

No, non è facile morire, e nella silloge di Denis Emorine Vers l’Est ou dans l’ornière du temps (trad.it. di Giuliano Ladolfi, Verso l’Est o nel solco del tempo, Ladolfi editore 2020), la poesia sembra prendere su di sé l’immane compito di essere una sorta di “propedeutica”, di “educazione” al morire. Come “svolge” il poeta questo compito? Direi utilizzando la tecnica musicale delle “variazioni sul tema”, ossia accumulando ossessivamente immagini, oggetti, luoghi che diventano emblemi di morte, quasi volesse “ipnotizzare” il lettore e obbligarlo a vedere la morte ovunque volga lo sguardo.

La raccolta è suddivisa in due sezioni, Divagazioni e Insonnie. Non inganni il titolo “leggero” della prima: i detours non sono che ingannevoli tentativi di deviare il viaggio, di “vagare altrove” per sfuggire all’ineluttabile meta, collocata in un paradossale Est, il punto cardinale del sorgere, non del tramontare… Ma il viaggio verso Est, annunciato fin dal titolo e ripreso più volte nelle liriche, qui è di fatto un viaggio agli inferi, perché i “paesaggi attraversati” dell’Est sono carichi di segni di lutto, sia naturali che storici: dalle “foreste gelate” al “filo spinato”, dal “grigio del cielo” alle “fosse comuni” ai “campi di sterminio”.
Il poeta è consapevole di aver ereditato insieme, dalla madre, “la morte e l’amore” e la figura della madre, “la giovane donna bruna dagli occhi azzurri” costituisce per così dire la filigrana della carta su cui è stampata la poesia. L’amore sembra essere l’unico possibile antidoto contro la morte, ma la sua efficacia in realtà è limitata, si riduce all’oblio.

Il mio amore
possiede il nome che a lei ho donato
quando un giorno son rimasto folgorato
il nome che mi fa alzare il capo
e che mi fa scordare la morte

La cruda verità è enunciata con le potentissime immagini kafkiane della “fossa spalancata” e dell’ “uomo in uniforme nera”, un personaggio che compare più volte nella seconda sezione della raccolta, in cui l’atmosfera è ancora più cupa.

La fossa era spalancata
avevi paura di cadere
eppure era necessario
l’uomo in uniforme nera era impaziente
non si può fermare la macchina
prima di aver terminato il lavoro

Il poeta, che ha nascosto il suo dolore «nella cassaforte della memoria» scrive «sull’orlo / proprio sull’orlo dell’abisso», «immobile sotto la luna striata di sangue / di fronte al precipizio», ma la scrittura è una “lama che scarnifica le unghie”, le parole sono “arrugginite”, aspre, non consolanti. Una poesia è dedicata alla grande poetessa russa Marina Cvetaeva, la cui “rabbia” impregna anche il sangue e le parole di Emorine (che ha ascendenti russi).
La traduzione, aderentissima all’originale, ne rispetta la sonorità scabra, il rifiuto della punteggitura, il ritmo franto che mira a riprodurre la desolazione della condizione umana, senza un lamento.

Nel passato
correvo qua e là
per catturare farfalle bianche
sulla trama del tempo
le offrivo alla giovane donna bruna dagli occhi azzurri
tutto mi sembrava possibile
quando mi guardava
poi
le
farfalle
sono
morte

Non c’è altro da aggiungere.