EVA MAIO
Gli occhi dentro, gli occhi fuori. Gli occhi sulla pelle e tra il costato. Gli occhi che vedono con la memoria. Gli occhi che vedono con l’attesa.
Cosa vedo quando guardo?
E cosa guardo quando penso di vedere?
Vediamo con tutte noi stesse.
Vediamo con il passato e con il respiro del domani che già ci aleggia intorno.
Vediamo con il desiderio.
Vediamo non senza le nostre passioni.
Vediamo magari meno di quel che c’è. Vediamo magari più di quel che c’è.
C’è stato un ruscellare
d’acqua fresca
nei tuoi occhi
e lo stare tra spazi
consueti
s’è fatto inconsueto.
In sguardo che vede
ed è visto
c’è vento c’è luce
un istante
e uno spicchio di ombra
più a lungo.
Poi un chiarore
come tra fronde.
Non con solo pupille
guardo l’attorno che vedo
con fasci di nervi
affetti memorie
inaugurazioni d’attese.
Si fa pupilla
il tatto
l’orecchio
iride attento
che ad incontrare il bello
l’anima sta spingendo
al nocciolo delle cose.
Che le parole vere
passano negli occhi
vive
e lì semplici
non forzate
fanno luce attorno.
A cercare una sedia
mi appresto
per sedermi
in iridi chiare
con venti leggeri
di ciglia
in questa camminata
lungo il viale.
È che gli occhi
a volte sanno perfino
ascoltare
frattali di ombra di luce
in altri occhi
e nel cielo
e nei fili d’erba
in un selvatico prato
in un volo
di libellula
appena acchiappato.
È che ripetuto
nei giorni
il guardare
si fa sfioramento
del vero
che dal dentro
del cosmo
e di noi
d’un tratto
si sveglia.
La pelle nel dormiveglia
sente l’aria
di primo mattino
quella d’infanzia.
E gli occhi
vedono il corpo
dell’aria fluttuare
e quel limpido
girare intorno.
Sanguinano gli occhi
di liquido salato
basta una goccia
che tutto il dolore
spaesato
m’assale.
Che dire
se vedi in un gesto
un piccolo gesto
consueto
ripetuto
l’eco della bambina
che è stata
l’amica che ogni tanto
è lì seduta
e parla.
Un barlume d’infanzia
scorre fin qui
dallo scivolo del tempo
e s’incunea candido
in una mossa
e l’aria attorno
pare giubilare.
Si sono imparentati
i volti alle nuvole
alle chiome
a certe case
con finestre aperte
e porte socchiuse.
Propendono
i miei occhi
alle terre
a umide sabbie
ai muschi
ai diversi cieli
ai chiari tra l’ombra
delle betulle in fila.
Che dire
se i miei occhi
sopra la mascherina
in altri occhi
sopra la mascherina
tastano i luoghi
che poi un giorno
mi passeggeranno
dentro
che già l’hanno fatto
mai uguali.
Semplicissimi e belli
i corpi vivi
senza borie e trucchi
che vanno
per le strade
sempre stranieri
lontani
dal comodo pensare
con il lessico
della libertà del dentro
che trasuda fuori.
E si fa vedere
ad occhi
al silenzio propensi
tesi.
C’è un corteo
di camminate diverse
davanti a me
mentre passeggio
e scarpe diverse.
E dentro le scarpe
dei piedi
e nei piedi dei nervi
dei vasi sottili
o più grevi
e sangue
e ossigeno e storia
su e giù di lì
alla pompa di vita.
È che gli occhi
ogni tanto lo sanno
che lì
poggiano vite.
Sono come in esilio
a volte le palpebre
le ciglia le pupille
in questo mare
di abbandoni
di morti.
È che i dettagli
fanno il cosmo
e talvolta
li tocco
appena con le ciglia.
E subito
si fanno umide.
E tutto è rugiada.
(Acquerello di Zita Giraudo)