CLAUDIO PAGELLI
Solo qualche sconosciuto
che mi butta terra in faccia,
l’ultima carezza del mondo
che si sfalda sul mio corpo…
Domà on quei cognussuu de nessun
ch’el me trà terra sora la faccia,
l’ultima carezza del mond
che la se sfreguja in sul mè còrp…
*
Nemmeno una fotografia
nemmeno una, dico io, in bianco e nero
soltanto il bianco della croce
che incendia gli occhi nel sole…
Nanca ona fotografia
nanca vuna, disi mì, in bianch e negher
domà el bianch de la cros
che la da foeugh ai oeucc in del sô…
*
È trascorsa la mia vita
come un’ombra, un riflesso
allo specchio, una parentesi di vetro
tra terra e cielo. Nulla più, nulla meno…
L’è passada via la mè vita
’mè on’ombria, on rifless
in del specc, ona parentesis de veder
intra la terra e el ciel. Nient de pù, nient de men…
*
Nemmeno da qui
si vede bene il futuro
solo il passato, meno oscuro.
Tolti i chiodi dei rimorsi
ritorna d’aria il cuore, senza paura
nel vento dei cipressi…
Nanca da chì
se ved ben el doman
domà el passaa, men scur.
Des’ciodaa i ciòd dei rimòrs
torna d’aria el coeur, senza paura
in del vent dei cipress…
*
Tu che passi e guardi
queste croci bianche,
questi cuori sepolti, sappi che ai morti
basta poco a essere felici –
un pensiero sottovoce, il più umile
dei fiori fra le sillabe dei nomi…
Tì che te passet e te vardet
sti cros bianch,
sti coeur seppellii, sappiet che ai mòrt
ghe basta pòcch per vess content –
on penser sòttvos, el pussee umil
di fior intra i sillab di nòmm..
Claudio Pagelli, Campo 87, prefazione di Manuel Cohen, traduzione in dialetto milanese di Giovanna Sommariva, Puntoacapo, 2021
Prefazione di Manuel Cohen
Si chiama Campo 87, l’area del Cimitero Maggiore di Milano che la giunta meneghina ha dedicato alle 128 vittime per Covid 19. È il luogo in cui vengono ordinatamente accolte le salme non reclamate da alcun parente. Si tratta di persone anziane, migranti o comunque sia, di persone senza famiglia, o i cui familiari sono stati, a loro volta, colpiti dalla pandemia. A questo luogo elettivo è dedicato, partendo dalla stringente attualità e approdando ad uno stadio di eccellenza d’arte, di letteratura e di Ethos, il nuovo libro di poesia di Claudio Pagelli, mirabilmente e, viene da dire, senza riserve, sapientemente tradotto in milanese dall’autrice dialettale Giovanna Sommariva. Si tratta di un libro che tocca le corde di chi legge, che impone una riflessione, personale e sociale, sui destini dei singoli, sul destino stesso della poesia, così intimamente e irredimibilmente legato alle sorti umane, di quella condizione contemporanea che il grande Mario Luzi ebbe a indicare come “sopravvivente umanità dell’uomo”.
La poesia, ragione estrema, sociale e interiore, si conferma per quello che è: lo strumento più congruo a registrare, sedimentare, testimoniare l’umano. Sembra ovvio, sembra poco, eppure è tutto, o quasi, quel che è concesso alla memoria emotiva, al nostro umanesimo sensibile: il gesto naturale di cogliere “l’ultima carezza del mondo” come recita il verso centrale della prima quartina del libro.
Sono 36 i microtesti di Campo 87, che partono dal distico ancillare in rima baciata silenzio/assenzio, passando per le quartine e i quinari, fino alle sestine, con predominanza di testi di 6 versi (più raramente quelli di 7), oscillanti tutti tra le 8 e le 9 sillabe, quasi mai eccedenti l’endecasillabo. Si tratta di piccole strutture strofiche, brani, lacerti, schegge lirico-narrative che tanto assomigliano a piccoli sedimenti tra polvere e zolla, nuclei germinali di narrazioni o plot, e a epitaffi tombali, in cui a dire, a raccontarsi, è la voce stessa delle vittime: chi legge non potrà che essere colpito da quelle voci che riaffiorano dalla terra e si stagliano nell’aria o nella nebbia, come, ad esempio, nella poesia in cui Gina, la sarta, si racconta.
Quelle vite marginali e non illustri, trovano fissità di voce, centralità di ascolto, possibilità di memoria; quelle esistenze ridotte al silenzio qui si riscattano nella accensione metaforica in cui dominano aria, zolla, polvere e vento, ovvero gli elementi dell’ubi consistam, del consistere impermanente, della fugacità o della intangibilità delle cose e delle persone: ‘scheggia d’ombra’, ‘nodo d’aria’, ‘bava d’aria’, ‘finestra della memoria, ‘schiaffo di lucÈ, ‘croce di luna’, ‘schiocco di vento’, ‘faccia del buio accanto’, ‘fiammifero della dimenticanza’.
La dimensione del reale qui coabita con la dimensione postuma: il pensiero che va oltre, che naviga random tra un presente, un prima e un dopo immateriale e indicibile, spesso registrato in clausole fulminanti, come la seguente: ‘Nemmeno da qui / si vede bene il futuro/ solo il passato, meno oscuro’.
Davvero la poesia, quando è tale, non ha bisogno d’altro che della sua verità di chiarità, della sua buona dose di understatement, del suo tono naturale, confidente, amicale: ‘Tu che passi e guardi/ queste croci bianche,/ questi cuori sepolti, sappi che ai morti/ basta poco a essere felici –/ un pensiero sottovoce, il più umile/ dei fiori fra le sillabe dei nomi…’
Occorre una notevole capacità di sguardo e di ascolto per avere la forza di scrivere questi versi, tanto chiari, luminosi e parimenti raffinati, in cui Claudio Pagelli si rivela per quello che è: una voce notevole, perspicace e duttile, in grado di generare pensiero e immagini, significato e interrogativi. La particolare sensibilità che lo avvicina alla testimonianza degli ultimi, quelli che un tempo si indicavano come gli ‘umili’ dello strato sociale, nasce dal testimoniare questa testimonianza, come in questo mirabile incipit endecasillabico: ‘Un ricordo è fatto, lo sai, di carta’. La fede nella parola scritta, avremmo detto in altri tempi, la fede testimoniale del poeta-scriba Franco Fortini che sa liberarsi dal giogo della soggettività e assume su di sé il senso destinale dell’umanità: ‘Nulla è sicuro, ma scrivi’, un monito, quasi, e un invito, quello del nostro grande poeta del Novecento, di cui Pagelli sembra ereditare il testimone epocale, quasi una Stimmung, per poter ‘ritrovare uno sguardo nitido/ nella bufera dello smarrimento’.
La scelta di tradurre in milanese il libro, si configura allora, come una assunzione di responsabilità ulteriore e come una acquisizione di consapevolezza: unire alla voce degli ultimi, dei dimenticati dalla storia, dei travolti dal destino, la lingua in via di sparizione, o comunque, la lingua degli ultimi, la parlata locale. E l’opera acquista valore aggiunto, si impreziosisce oltremodo attraverso l’esperimento di una diglossia o di un testo a fronte che marca ulteriori confini, echi di voci o di phonè, arricchendo di sonorità e di musicalità, grazie al lavoro ottimo della traduttrice, la poetessa Sommariva: è quel che accade, ad esempio, nella traduzione della poesia con cui chiudiamo questa nota e con cui invitiamo il lettore ad avvicinarsi a Campo 87, dove la grazia particolare del milanese aggiunge canto e musicalità, tra assonanza e rima, al canto dimesso di Pagelli:‘Finita una fatica/ come coda di lucertola/ un’altra ne spuntava –/ così la mia vita operaia/ nelle fabbriche di periferia/ (ora è di pianura l’aria che si respira/ di terra umida, di sosta infinita)’ – ‘Finida ona fadiga ’mè cova de luserta on’altra ne casciava – inscì la mè vita operaria in di lavoreri de periferia (adess l’è de pianura l’aria che se fiada de terra umida, de sòsta infinida)’.