GABRIELLA MONGARDI
Esiste un doppio fil rouge, tematico e stilistico, che collega le raccolte poetiche di Guglielmo Aprile: L’assedio di Famagosta (2015), Il talento dell’equilibrista (2018), Farsi amica la notte (Ladolfi editore 2020).
Sul piano stilistico, anche nel libro più recente i testi di Aprile sembrano testi prosastici, argomentativi, tecnici, semplicemente “messi in versi” di varia lunghezza, non rimati (un solo esempio: Non sempre è così salda / la presa del cameraman (a volte / la mano gli trema) sull’obiettivo: un settenario seguito da due endecasillabi), ma l’accostamento di quei termini, di quelle frasi diventa densamente metaforico, costruisce un discorso allegorico in senso lato, attraverso il ricorso costante – e direi “spontaneo”, naturale – alla tecnica del “correlativo oggettivo”, per cui i personaggi e gli oggetti nominati rimandano a immediatamente “altro”, diventano potenti e suggestivi emblemi.
Sul piano tematico, basta leggere in successione i titoli delle tre sillogi perché si delinei già un nitido percorso esistenziale, il cui punto di partenza è la consapevolezza dell’assedio senza possibilità di scampo di cui siamo prigionieri, come lo erano i Veneziani in Famagosta circondata dall’esercito turco, alla fine del 1500. Di fronte a questa situazione ci vuole “il talento dell’equilibrista” per convivere con l’assurdo: in mancanza, se non si hanno doti di acrobata, non resta che imparare a “farsi amica la notte” per riappacificarsi con la vita e con la morte.
È quanto cerca di imparare (e insegnare) il poeta nell’ultimo suo lavoro così intitolato, in cui ancora una volta cerca di esorcizzare con le parole il caos, il nonsenso, il negativo del mondo: l’ “oscena ruggine” delle “cose che maneggiamo ogni giorno con familiarità”, la “rabbia dei veicoli in corsa”, “il braccio della piovra che stringe nel suo nodo / uomini e cieli, e che io solo vedo”.
Con inesauribile foga visionaria e accesa sensibilità Aprile accumula infinite “variazioni sul tema”, trova parole sempre nuove e immagini sempre più icastiche per gridare la mancanza di certezze, il disorientamento, il vuoto che tutto corrode:
«Il macchinista deve aver bevuto,
il treno corre a caso,
senza una direzione, non farà
tappa in questa né in qualunque altra città,
non è diretto da nessuna parte»;
«la nebbia è così spessa
che ha poco senso chiedersi
verso che nord procedere, o a quanti
giorni sia l’oasi più vicina»;
«alle spalle dei nostri raffinati
esercizi di solfeggio comincia
il gigantesco paese
che non si può nominare».
Partendo da questi presupposti, “sola saggezza è nell’issare un muro / tra noi e la smorfia oscena delle strade”, ma si può anche ricorrere a un Placebo (“Se non noti la falla / nella carena, essa cicatrizza”), o sperare in “un armistizio tra la nostra pelle / e il picco delle tempeste solari”, o arrivare ad “assuefarti / al rumore di lamiera tritata / dalle ganasce del compattatore”: certo è che “bisogna bendarsi / per vivere, per non precipitare” perché “danza sul filo e grazia da funamboli, / arte di istrioni, trucco da pagliaccio / e paradosso da sofisti è vivere”…
Lo stesso si potrebbe dire della poesia, quel paradosso che – come la musica, l’arte, l’amore – sa per vie misteriose donare risarcimento e giustificazione del vivere.