EVA MAIO
Preferisco dire amare piuttosto che chiudere tutto in un nome aulico perfetto.
Pertanto alla parola amore preferisco il verbo.
Il verbo all’infinito ci dà tempo: da claudicanti ci camminiamo dentro, da apprendisti artigiani lo prendiamo in mano.
E magari alla fine qualcosa impariamo senza che il cuore sia schiavo di quel nome aulico e perfetto.
Senza il bisogno di nominarlo. Di corrergli dietro. Di farne un trofeo.
Ogni verbo all’infinito accoglie il nostro fare parziale.
Ogni verbo all’infinito è paziente.
Ci attende.
Vivere
nei verbi all’infinito
con cura
redimere i pensieri
cancellare l’aura
d’onnipotenza
ovunque s’insinui.
Viverli
i verbi in un’infinità
di slarghi quotidiani
al confluire preciso
d’ ogni fragile vero
che incontriamo
in cose o sguardi.
Che i verbi all’infinito
sono aperti
pazienti come un vecchio
seduto in attesa
del suo amico
per dirsi ciao
stai bene.
Che i verbi all’infinito
sono gravidi
hanno inseminate
cellule vive pronte
a crescere trasformarsi
venire alla luce
ora o domani.
Che forse
alcuni verbi all’infinito
ci adottano
ci tengono per mano
s’installano silenziosi
in sangue carne occhi
ci fanno nomadi
e di finitudine in finitudine
ci fanno tessitori
del possibile
senza pretese
di tutto sapere
per fare ogni cosa
stupiti.
Con levità
camminare dentro
il fare e rifare
ci fa veri
che il fare e rifare
ci ammaestra
a inaugurare
la trasformazione dei mondi
a tendere ogni gesto
alla delizia
di un tutto appena intravisto.
E che il tutto
sia solo intravisto
poco importa.
Destati a protezione
del vivo che c’è
in quello spazio-tempo
che ci è dato
ci svegliamo il mattino
pronti a toccare
in ogni diverso fare
la consistente grazia
della cura
da imperfetti che siamo
fino all’infinito
ci proviamo.
Se pure l’infinito
è un sogno.
(Disegno di Zita Giraudo)