DINA TORTOROLI
L’esperimento di “chimica fisiologica”, tentato a Parigi, non andò a buon fine.
La pubblicazione dei Versi in morte di Carlo Imbonati non produsse la desiderata “reazione”: la “trasformazione” dell’atteggiamento degli Idéologues nei confronti di Alessandro Manzoni Beccaria.
L’“universo” idéologique – “sistema isolato” – non ammetteva “legami o scambi” con un’entità “inerte”.
Non restava che pianificare al meglio il rientro in patria.
Sarebbe stato preceduto da una nuova pubblicazione dei Versi per Imbonati, a Milano, a cura di Giovan Battista Pagani.
L’amico, però, andò oltre le consegne.
Nel primo volume delle Opere inedite o rare di Alessandro Manzoni, Ruggero Bonghi fornisce una dettagliata ricostruzione della vicenda:
«Il Manzoni come appare dalla sua lettera al Pagani del 12 Marzo 1806, desiderò che il Carme si ristampasse; e il Pagani lo contentò. Ma al libretto, stampato in Milano nello stesso anno 1806 prepose di suo capo la seguente dedica: A VINCENZO MONTI – ISTORIOGRAFO DEL REGNO D’ITALIA – MEMBRO DELLA LEGION D’ONORE E DELL’ISTITUTO – PROFESSORE EMERITO DI PAVIA – ED ELETTORE NEL COLLEGIO DE’ DOTTI / “Al principe de’ poeti moderni è certamente convenevole il sacrare un lavoro poetico di giovane ingegno, che già manda gran luce e riempie gli animi bramosi dei letterati di una ferma speranza che nella nostra Italia non verrà interrotta la solita successione dei buoni cultori delle muse. Nè posso credere che questi versi sieno per riuscirvi discari sendocchè Voi stesso, per amor delle lettere, stimolaste più volte l’autore a deporre quella incomoda timidezza che il tratteneva dal pubblicare alcuna delle sue molte belle rime, studiandovi con magnifiche e vere lodi renderlo più giusto conoscitore di sè medesimo. Io li presento al pubblico con nuova edizione, giacchè le poche copie della prima fatta in Parigi non hanno bastato alle molte inchieste di coloro, che il plauso universale facea vogliosi di possederli. Questi voti e questi encomi pare che vestano d’un novello lume di verità il vostro vaticinio; che il Manzoni, il volendo, terrà uno de’ più eminenti seggi del Parnaso italiano. / Accettate con animo cortese quest’omaggio che l’editore ed il poeta vi offeriscono con fiducia, e continuate loro la vostra benevolenza. / Il vostro ossequioso e devoto amico / GIAMBATTISTA PAGANI Bresciano”.
Si osservi che il Pagani che non aveva secondato il Manzoni nel congiungere al suo cognome quello di Beccaria, com’egli ne l’aveva richiesto nella lettera citata [«Facendo l’edizione, di cui ti ho parlato, vorrei che tu aggiungessi al mio nome un titolo di cui mi glorio, e che mettessi sul frontespizio: Alessandro Manzoni Beccaria»], s’era poi preso l’arbitrio di scegliere lui la persona a cui dedicare il Carme, e non aveva ben chiarito nella dedica, chi fosse l’autore di questa. L’una cosa e l’altra dispiacque al Manzoni, come appare dall’altra sua lettera al Pagani stesso del 18 Aprile 1806 [«Mi sento un bisogno continuo di parlarti sempre dell’affare che tanto mi preme. Più mi sforzo a rileggere quella dedica, e più cresce la nostra meraviglia. E non solamente noi due, ma tutti quelli che la vedono ne sono stranamente sorpresi…»]. E mandò un articolo, perché il pubblico non rimanessse in dubbio su ciò; ma poi rinunciò, per rispetto al Pagani, a ch’egli lo pubblicasse. E giova qui riprodurre le sue parole affettuose dalla sua lettera del 30 Maggio: “Del comune dispiacere non si parli più. Veggo che il rimedio sarebbe peggiore per te di quello che il male sia stato per me. Piacemi che tu conosca che non a torto io ebbi disgusto del fatto. Né già mi piace per amore della mia opinione o per vana pretensione non compatibile coll’amicizia, ma perché questo mi conferma la rettitudine della tua mente. Vivi dunque sicuro che in nessuna occasione non ne farò mai parola in stampa”. E tenne la parola.
L’edizione di Milano fu annunciata con le seguenti parole nel N. 93 del Giornale Italiano del 3 Aprile 1806: “In morte di Carlo Imbonati versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre”- Milano coi tipi di G. G. Destefanis, 1806. – Di questi versi l’autore non ne aveva pubblicate che cento sole copie; numero, siccome avvien sempre nelle cose belle, appena sufficiente a destare la pubblica curiosità: e dobbiamo esser grati all’amicizia che ha per l’autore l’ottimo giovane Pagani, perché ne ha procurata qui in Milano una seconda edizione, la quale per bellezza tipografica cede di poco a quella prima che ne aveva fatta in Parigi l’illustre Didot. Questa seconda edizione è dedicata a Monti; e ben era ragione che i versi bellissimi fossero offerti a un grandissimo poeta, amico dell’autore, e che più volte lo aveva stimolato a deporre quella incomoda timidezza che il tratteneva dal pubblicare alcuna delle sue molte rime. Per non fare un articolo che sia più lungo degli stessi versi noi ci asteniamo dall’esporre quelle ragioni che a noi ed a tutti coloro che l’han letti li fanno apparir bellissimi. Il lettore ne giudicherà da sè stesso leggendo lo squarcio che trascriviamo. L’autore parla ad Imbonati: (e qui son riportati i versi del carme da… “Or dimmi, e non ti gravi”, fino a “Che plauda al vizio, e la virtù derida”). Questi precetti sono certamente quelli delle poetiche ordinarie, ma noi crediamo e fermamente crediamo che non ve ne siano altri per qualunque agogni a vera, solida, durevole gloria poetica: senza questi precetti non si hanno se non Versus inopes rerum, nugaeque canorae. Darem fine a questo articolo con due riflessioni. La prima che l’autor dei versi dei quali parliamo, è nel fior della sua gioventù; la seconda che l’editore dei medesimi è giovane anch’egli, e mentre ha tutti i più legittimi titoli di pretendere a qualunque fama letteraria, non invidia e favorisce quella dell’amico. La prima riflessione può interessare tutta l’Italia dandole speranza di cose migliori; la seconda interessa moltissimo noi che amiamo veder riunita alla coltura dello spirito la rettitudine del cuore. E siamo tanto fermi in questo nostro modo di pensare che non crediamo né anche possibile aver la prima senza aver la seconda. Il vero, il bello, il retto per noi sono sinonimi”.
Il Giornale Italiano era in quel tempo, e fu sino all’Agosto del 1806, diretto da Vincenzo Cuoco. Il Bionanno, dal quale ho avuto questa notizia, aggiunge la congettura, che l’articolo fosse stato scritto dal Cuoco stesso, inducendolo dai sentimenti espressi nella chiusa; e ancora, che il Manzoni trovasse nel Cuoco la benevolenza che egli gli mostrava, per effetto di quella mostrata da lui verso il Lomonaco. La congettura è certo verosimile. Le parole scritte dal Manzoni al Pagani per rimproverargli la dedica al Monti, le meraviglie fatte su questa da’ suoi amici in Parigi, le relazioni di lui col Lomonaco e quindi col Cuoco, il Trionfo della libertà, parecchi accenni nei Sermoni indicano quali a quei tempi fossero le opinioni politiche e le amicizie del Manzoni. […]. Ugo Foscolo, al v. 280 del suo Carme Dei Sepolcri, stampato nel 1807, cita in nota i versi del Carme da Quel sommo sino a il cielo; ed aggiunge: “Poesia di un giovane ingegno nato alle lettere e caldo d’amor patrio; la trascrivo per tutta lode e per mostrargli quanta memoria serbi di lui il suo lontano amico”. Nelle edizioni delle sue opere, che il Manzoni più o meno immediatamente diresse, il Carme all’Imbonati non fu più ristampato. Quali fossero le sue ragioni di rigettarlo, non è di questo luogo l’esporle» (Opere inedite o rare di Alessandro Manzoni / Pubblicate per cura di Pietro Brambilla / da Ruggero Bonghi, Volume I, Milano, Fratelli Rechiedei Editori, 1883, pp. 106-109).
A me non pare mai fuori luogo sondare “le ragioni” dei fatti.
Pertanto, nel caso della dedica non richiesta, mi chiedo: “è credibile che Pagani – giovane, sagace avvocato – avesse preso un’iniziativa tanto compromettente, senza un serio motivo per farlo?”.
E ho la netta impressione che la sua accorata “dedicatoria”, le cui argomentazioni sono chiaramente desunte dalla lettera che Monti scrisse a Manzoni, dopo aver ricevuto da lui l’idillio Adda (tra le carte di Pagani, il professor Bortolo Martinelli ha rinvenuto sia la trascrizione di quella profetica risposta sia dell’idillio e della lettera con cui Manzoni, nel 1803, offriva quei versi al Maestro), fosse finalizzata a riottenere la benevolenza del “principe dei poeti moderni” nei confronti di Alessandro Manzoni nonché a giustificare se stesso per avere accettato il ruolo di “editore”.
Infatti, l’ “ossequioso e devoto amico” usa espressioni che spingono a indagare il retroscena, e l’affermazione «nè posso credere che questi versi sieno per riuscirvi discari» mi fa presupporre una sfuriata di Vincenzo Monti, inascoltato come maestro, plagiato come autore, tradito come amico.
Non è difficile convincersi che Pagani, venutosi a trovare tra l’incudine e il martello, avesse ritenuto opportuno esprimere solennemente (sommessamente associando a sé anche l’intrattabile autore) ferma “fiducia” nel perdono, sapendo che la generosità d’animo del Maestro aveva sempre la meglio sulla sua irascibilità. (In una lettera, del 18 luglio 1806, a Melchiorre Cesarotti, Vincenzo Monti stesso lo attesta: «Ho un cuore facilmente aperto allo sdegno, ma chiuso affatto ai sentimenti dell’odio. Ringrazio la natura di avermi fatto iracondo, perché l’ira mi preserva dalla viltà; ma quando mi si stende la mano dell’amicizia, io pongo su quella il mio cuore, e le tempeste dell’animo si placano in un momento»).
Vincenzo Cuoco, da parte sua, con le benevole “riflessioni”, sollecitava nei lettori l’ammirazione per la “rettitudine del cuore” dell’ottimo giovane Pagani, disposto a esporsi a livello personale, pur di “favorire” l’amico Manzoni.
Alessandro e Giulia avrebbero dunque dovuto “essere grati” a Pagani almeno quanto Cuoco; invece si stavano comportando come due “pazzerelli”, due “sacripanti”.
Così li definisce in una lettera, solo parzialmente “scherzosa”, l’amico Arese: «Caro Pagani, / Ti annuncio con piacere che Borghi e Trecchi hanno scritto fortemente ai due pazzerelli sulla ritrattazione. Vedremo con qual esito. Borghi però gode molto l’opinione della madre. Trecchi pensa con noi che l’offeso amor proprio della madre, pel timore di dividere con altri la proprietà di que’ versi abbia acceso questo gran fuoco: egli ha enunciato spontaneamente questa opinione senza sapere che fosse la nostra; non ho creduto conveniente aggiungere le altre nostre riflessioni. Mi lusingo che starà cheto, e lo desidero più per lui che per te, ch’egli finalmente n’avrà le beffe. […] Non ho ancora avuto risposta da Parigi. […] Poco m’importa dell’esito; ma se m’avvedessi che alfine il cattivo fosse derivato dall’indolenza di Frate Alessandro, sarei tentato a provare le mie forze con un saggio filosofico sull’egoismo. Scherzo. […] Scrivimi che vita hai fatto con quei due sacripanti. Il tuo Arese».
Quando, infine, madre e figlio capirono che quel “dispiacere”, deteriorando il clima di operosa amicizia dell’ambiente milanese, avrebbe nuociuto alla “carriera” di Alessandro, Giulia volle esprimere anche i propri sentimenti, in calce alla lettera del 30 maggio 1806 con cui suo figlio si riconciliava con l’ “amato” Pagani:
«Caro Pagani accettate una righa (sic) anche da me vorrei potervi persuadervi (sic) che non posso ne stimare ne apprezzare persona più di voi. Non iscrivo leggermente ne per modo di dire. Accettate dunque questi miei sentimenti. La nostra prolungata lontananza dall’Italia cambia molte circostanze: ma io amerò sempre sempre il primo e vero amico del mio Alessandro e mi dispongo a consacrare la mia vita a quella che sarà la compagna del mio Alessandro e la madre dei suoi figli. Addio ottimo giovane buon amico vi scriveremo dalla Svizzera. Se mai andate a Milano quando Zinammi sarà di ritorno vogliate visitare quella tomba sacra. Un vostro puro vale sarà aggradito da Lui, sarà accolto nel mio povero cuore. Non crediate che facci ad altri questa preghiera» (Giulia Beccaria, Col core sulla penna / Lettere 1791-1841, a c. di GRAZIA MARIA GRIFFINI ROSNATI / Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano, 2001, p. 212).
L’affermazione fulminea “Mi dispongo a consacrare la mia vita a quella che sarà la compagna di Alessandro e la madre dei suoi figli” rivela fino a che punto la smania della “felicità” del figlio impedisse a Giulia di valutare la pericolosità della propria tendenza a prevaricare.
Luigi Arese, riferendo a Pagani il contenuto della lunga lettera, cui abbiamo già accennato (riguardo al “fogn” che Giulia era disposta a fare ad Alessandro, mentre si trovava dal libraio, pur di favorire il suo caro amico milanese, desideroso di un impiego a Parigi) ci permette di cogliere strategia e tattiche con cui la Beccaria riuscì nel suo nuovo intento:
«Alessandro poi si diffonde nel provarmi quanto mi aveva accennato sul buon costume di Parigi. I suoi argomenti sono l’amor coniugale e la tenerezza dei genitori per i figliuoli. Egli conchiude così questo pezzo eloquente: “I giovani più libertini rispettano la compagna d’un altro come farebbe un filosofo di sessant’anni, stanno in compagnia della donna la più bella, la più giovane, senza pensare che essi possano avere un piacere dalla degradazione di lei”.
O coecas hominum mentes!
La madre vuol rinforzare il bel quadro del figlio con una sentenza di Rousseau. “L’amour, l’amitié, la vertu règnent-ils donc plus à Paris qu’ailleurs? Non sans doute, mais il règne le sens exquis qui transporte à leur image et nous les fait chérir dans les autres”. Il fino giudizio di Pagani mi avvertirà se questa ingegnosa frase non è in contradizione col sentimento di Manzoni. Vedo che la buona donna è molto divota di Rousseau. Per buona ventura quel povero diavolo che certo non ebbe motivo di esser contento della Gran Nazione mi somministra certe pennellate che, se fossero credute, quei due disertori correrebbero domandando perdono sotto le loro antiche bandiere. Se avrò pazienza raccoglierò tutti questi passi di Rousseau che fanno al mio caso, e fattane una filza, gliela getterò loro al viso; diverranno almeno un po’ mansueti…».
Mi astengo dal trascrivere gli ultimi ridicoli “tratti” della lettera di Alessandro e Giulia, riferiti da Arese, perché non voglio infierire contro Manzoni.
Il mio scopo è uno solo: verificare l’attendibilità dell’ipotesi di una situazione traumatica di perdita della personalità che dopo una decennale latenza sarebbe sfociata nella spaventosa rabbia con cui Manzoni avrebbe soppresso ogni traccia dell’esistenza di Imbonati, umiliando Giulia e procurandole il più tremendo dolore sia come madre sia come donna, devota alla memoria di Carlo.
Un indizio del bisogno di ritrovare se stesso è senza dubbio il fatto che dal 1809 Alessandro abbia smesso di firmare col doppio cognome Manzoni Beccaria, mentre l’anno prima si mostrava ancora succubo della madre, come sappiamo dalla lettera – datata 12 Februar 1808 – con cui Gaspare Orelli informa i propri genitori dell’esperienza vissuta a Milano:
«Del mio viaggio nuziale a Milano io so dirvi poco di notevole. […] Il matrimonio della giovane coppia fu fatto un sabato sera [6 febbraio] alle sette molto quietamente e senza rumore. Poiché la madre dello sposo, la marchesa Beccaria, era malata ed il figlio di lei quasi non si allontanava dal suo letto, se non per visitare qualche istante la sua sposa, così non ebbi agio di discorrer con lui che una mezz’ora. È timido, quale son io, e senza alcuna pretesa, ma interessante; io credo che, se fosse a Bergamo, potrebbe divenire mio amico, se pure non è falso come i più degli italiani – Non vi fu alcun banchetto. Mi hanno dato due paia di calze di seta, un gilet di seta e un paio di calzoni di seta. La marchesa Beccaria deve essere una donna molto sensibile: suo figlio le dichiarò una volta ch’egli non voleva mai sposarsi. Allora essa si fece leggere da lui un idillio di Gessner in cui è descritta vivacemente la felicità di un padre di famiglia, e che era accompagnato da un’incisione. Questa lettura commosse il giovane Manzoni che intuì l’intenzione di sua madre. Una delle sue lagrime cadde sull’incisione, e la madre la fece poi incorniciare con un cerchio d’oro. Questo è spingere molto lontano la sensibilità, ma un tratto più bello è il seguente: Dopo la morte del suo amico Imbonati del quale porta ancora il lutto, si rivolse molto seriamente al signor pastore riformato di Parigi Mestrezat, per divenire per mezzo suo, nel resto della sua vita, infermiera dell’ospedale di Ginevra» ( Carteggio Manzoniano, I, 1803-1810, p. 139, Nota 1, Traduzione).
A mio parere, persino la miniatura fatta eseguire in occasione delle nozze assume una notevole importanza come prova della pervicacia di Giulia nell’indurre Alessandro ad assumere sembianze altrui e dirò perché.
Io non possiedo le competenze dei critici d’arte, ma, in adesione al mònito cabanisiano: Vojons ce qu’il y a, non rinuncerò a servirmi dei miei occhi e quindi a riferire ciò che essi suggeriscono alla mia mente, senza peraltro sottovalutare il fatto che
Vediamo non senza le nostre passioni.
Vediamo magari meno di quel che c’è.Vediamo magari più di quel che c’è.
(Eva Maio, Gli occhi dentro gli occhi fuori).