Storie di Settignano

Autunno a Settignano Foto. C. Carlucci

Autunno a Settignano. Foto. C. Carlucci

CARLO CARLUCCI

…un misterioso influsso di nomi
che si cercano e si legano fra loro,
magnetiche forze ignote;
nomi e luoghi percorsi dai fili
di un invisibile tessuto…
Dolores Prato

La ridente collina di Settignano appare né più né meno come propaggine di Fiesole, città etrusca che dominava la piana nella quale un bel giorno il comandante delle armate romane avrebbe piantato la sua tenda (si dice in piazza della Repubblica…così come recita una stele). Le ciclopiche mura di Fiesole non ressero alla perfetta macchina di guerra dei Romani, la città fu conquistata e romanizzata al punto che, in posizione arretrata rispetto alla esigua vetta, fu eretto il teatro, copia (a Fiesole come altrove) del teatro della Grecia classica.
La collina di Settignano come ancella della maggiore, fu ed è prospera di olivi ben protetti dai venti del nord ma si venne popolando nel tempo da una schiera di scalpellini che lavoravano alle cave di Maiano, congiuntamente ad una più ristretta schiera di scultori – artigiani coi loro studi annessi alle rispettive abitazioni.
Gli scalpellini, nei mesi invernali, dovevano alzarsi col buio per raggiungere le lontane cave, situate nel bel mezzo tra Fiesole e Settignano. Attraversavano il fosso del cimitero e sostavano un attimo alla chiesetta della Madonna della Vannella, patrona del loro lavoro e delle loro esistenze e forse anche genius loci. Chi poteva accendeva una candela, memore che in quel luogo era apparsa la Vergine ad una povera pastorella, Giovannella appunto.
Dalle cave si estraeva una pregiata pietra arenaria (compatta, che non si sfarinava o sfaldava) detta pietra fiesolana o più comunemente pietra serena (l’ultimo cospicuo prelievo avvenne con l’edificazione in epoca fascista della Biblioteca Nazionale Centrale (comica la sequenza ne Il giovane favoloso del regista Martone, nel suo film dedicato al Leopardi, in cui il poeta sta passeggiando sul lungarno e sullo sfondo si intravede la Biblioteca finto rinascimentale).
A ridosso delle cave, sulla cima del monte Ceceri, Leonardo avrebbe fatto effettuare da un suo allievo il primo volo su una sua fantastica macchina con le ali.

Scendendo da Maiano verso la piana del Mensola ci si imbatte in un quadrivio, in realtà un vero e proprio snodo di stradine che si dipartono dal centro, a testimonianza della vitalità e anche della centralità storica del sito. Nel versante nord, sono due le strade che si incrociano con Via Gabriele D’Annunzio: Via Poggio Gherardo, che porta a Maiano e poi a Fiesole e l’altra, sulla sponda sinistra del Mensola porta a ‘I Tatti’ del Berenson, ma prima biforca verso Settignano, Via Oratorio della Vannella, la casa natale di Desiderio, il cimitero… In effetti i nomi che si cercano e si legano fra loro attraverso un invisibile tessuto sono tanti.
La quattrocentesca villa che sovrasta da un’altura Via D’Annunzio e Via Poggio Gherardo pare fosse stata scelta dal Boccaccio come locus ove ambientare il Decamerone durante la peste a Firenze. In quel piccolo agglomerato di case che si incontra sulla sinistra appena la strada verso l’oratorio della Vannella incomincia a inerpicarsi, una lapide sulla facciata di una delle casette (tre o quattro in tutto) narra dei natali di Giovanni Boccaccio.
In una gora del Mensola che scende da Maiano il fabbro di Settignano, Enrico Lecci, nativo di Ponte a Mensola, mi consegnò un suo ricordo (come una foto a colori) di una poveretta suicida nel piccolo specchio d’acqua coi suoi capelli rossi che le fluttuavano intorno al capo. Altra foto ricordo del Lecci me lo mostra ragazzo mentre trovava rifugio nel folto di uno dei secolari cipressi tutt’ora esistenti (in Via della Torre o in Via della Madonna delle Grazie?) perduto avidamente nella lettura di un libro.

Erano altri tempi, i tempi post Rivoluzione Francese, tempi che destinavano un ragazzo geniale di umili origini a rimanere tale. Altra immagine conservata nel cuore è quella di un Enrico adulto, lavorante nella bottega del fabbro di Settignano, mentre scende per Via D’Annunzio con una carriola contenente un grosso vaso con una pianta carica di limoni e qualcuno che gli grida: …attento tu li fai dondolare troppo…! La pianta in realtà era in ferro battuto e successivamente dipinta da quell’umile e grande fabbro artista.
Sempre in Via D’Annunzio, forse la più lunga di Firenze, abitava Palazzeschi (nei pressi del paese) e poco discosto da Ponte a Mensola, abitavano due sorelle sarte e ricamatrici, in una stradina confluente, personaggi eternati dal poeta nel romanzo Le sorelle Materassi. E la cronaca degli accadimenti col nipote spendaccione e viveur, punto per punto, rispecchiava quello che era passato come reale ma enucleato e quindi in qualche modo eternato dalla penna dello scrittore.

Per alcuni anni scendevo dal filobus con Cesare Scheggi, mio vicino di casa (si lavorava entrambi a La Fondiaria in piazza della Libertà) e Cesare fu fonte per me di fatti ed eventi legati a persone che avevano in qualche modo, dato vita ai luoghi.
Risalendo via D’Annunzio, dopo la curva che ospita il castelletto apocrifo di Mezzaratta, un improbabile neogotico del 1921, si entra in Via Buontalenti che immette in Via della Capponcina, all’altezza di Villa Michelangelo, così chiamata perché lì il Buonarroti fu dato a balia. Ma ecco, come lo racconta Michelangelo in una lettera: … venni dato a balia alla moglie di uno scalpellino di Settignano. Pare una crudeltà affidare un bambino così piccino nelle braccia di un’altra donna, ma quella era l’usanza dei signori… il mi babbo ci teneva a far finta d’essere più signore di quello che era. Maledette apparenze mi privarono dell’affetto materno vita natural durante. La mamma morì presto e con lei ci stetti davvero pochissimo, avevo sei anni quando passò a miglior vita. Da grande dicevo che l´arte mia l’avevo succhiata assieme al latte. Ma ero stato allattato e svezzato fra martelli e scalpelli. Il sempre vostro Michelangelo Buonarroti.
Asciutta, quanto dolente rievocazione che ci fornisce la chiave di lettura per la Madonna, in San Pietro, con in grembo il Cristo morto, realizzata quando l’artista aveva solo ventitré anni. Ci appare una Madre affranta e struggente, col sembiante assai più giovane dello stesso figlio reclinato nel suo grembo. E tale indelebilmente la conservava nel ricordo Michelangelo.

Continuando per Via della Cappoccina, a destra verso la piana, troviamo un poco appartata e triste, la stessa aria allora come ora, La Porziuncola, dimora della Duse. Poco più avanti ecco La Capponcina, dove dimorò D’Annununzio per più di dieci anni, collezionando magnifiche prede femminili che regolarmente depredava.

Nel 1903 Leo Stein, un giovane americano, elegante, barbuto, aspirante pittore, si reca in visita ai ‘I Tatti’ da Berenson. Già si conoscevano; Berenson era un ebreo di origini russe, emigrato negli Usa verso la fine dell’Ottocento, divenuto poi grandissimo cultore del Rinascimento italiano, ma attento pure a quanto si stava elaborando a Parigi dopo la grande stagione dell’impressionismo. Berenson era perfettamente consapevole di come e quanto fosse conveniente investire nel mercato dell’arte. Ovviamente né lui né il giovane Stein erano destinati ad essere dei mercanti. La dimora rinascimentale de I Tatti creata quasi di sana pianta dal Berenson e poi lasciata alla Harwad University ospita anno dietro anno il fior fiore degli studiosi del Rinascimento.
Palese che i due, Leo Stein e Berenson, non fecero fatica a intendersi; Parigi era il luogo deputato per il giovane e geniale Leo.
A Parigi lo Stein prende dimora stabile al 27, rue de Fleurus, dove lo raggiunge la sorella Geltrude e di qui i primi contatti con Ambroise Vollard (su probabile suggerimento di Berenson), il grande gallerista parigino, piuttosto diffidente con coi nuovi venuti, americani per l’appunto. L’anno dopo i due Stein sono raggiunti dal fratello Mike e famiglia, che si installa nella contigua rue Madame.
I primissimi e determinanti acquisti di Leo Stein da Vollard erano dovuti al prezzo relativamente contenuto delle opere. Le disponibilità finanziarie degli Stein nascevano dalle loro rendite immobiliari più che sufficienti per il loro mantenimento a Parigi ma non certo per qualificarli tra i grandi collezionisti d’arte moderna.

Leo, definito dal fondatore del MOMA di New York, il più geniale interprete della pittura del ‘900, sapeva sempre esprimersi col tocco della genialità: … Cezanne era riuscito a rendere i volumi con tale vitale intensità ineguagliata nella storia della pittura…
…vi è sempre questa intensità senza rimorsi, questo afferrarsi alla forma, lo sforzo incessante di rivelare la sua assoluta, autoesistente qualità di volume…Ogni sua tela è un campo di battaglia vittorioso…
Rapidamente il salotto dei fratelli Stein divenne il punto di riferimento per tutta una generazione di giovani artisti come Derain, Juan Gris, Picabia, Valloton, e, in definitiva e senza volerlo, di battistrada come Picasso e Matisse se non l’incubatore della pittura del ‘900.
Gertrude per conto suo coltivava la scrittura poi sfociata nella pubblicazione della sua opera prima Three lives nel 1909 (apparsa in Italia nel 1940 nella traduzione di Cesare Pavese).

Intanto si appalesavano i sintomi della fine di quella, fino allora, decisiva relazione fraterna. Leo si stava legando ad una modella, Nina Augias troppo libera e disinibita per i gusti di Gertrude, che nel frattempo aveva accolto nella casa di rue de Fleurus quella che sarebbe stata la compagna della vita: Alice Toklas. Tra il 1913 e 1914 si consuma la rottura definitiva che porterà i due fratelli a dividersi i quadri. Leo e Nina ritornano a Firenze e si installano in una villa poco sopra Settignano. Lo scoppio della prima guerra mondiale costringe Leo a ritornare negli Usa per seguire gli immobili e le linee di tram possedute dalla famiglia. Si ricongiungerà con Nina alla fine del conflitto e non rivedrà più la sorella.

I miei anni settignanesi, risalgono alla seconda metà degli anni Sessanta, quando Settignano era ancora antropologicamente e psicologicamente il borgo collinare quale si era tramandato secolo dopo secolo, mancando solo gli scalpellini, essendo cessata da un secolo e forse più l’attività estrattiva alle cave.
Quasi dirimpettaia della villa dove risiedevo al 254, dall’altro lato di Via D’Annunzio, stava la famiglia Scheggi Merlini: tre figli, il maggiore, Paolo, pittore a Milano. Il padre Cesare, amico dello Stein, per me è stato una miniera di preziose informazioni sulla realtà settignanese. Lina, la moglie, era pittrice miniaturista e discendeva da una famiglia di scultori il cui studio era incorporato nell’abitazione. Fu naturale per lei assecondare l’estro artistico del maggiore, così altrettanto naturaliter, che da ragazzo usciva col cavalletto a ritrarre scene campestri lungo Via della Capponcina.

L’apprendistato nello splendore naturalistico della collina, irripetibile nella sua perfezione, al vaglio quotidiano di una madre artista, quanto dolce e trepida nel seguire i progressi del figlio, le ascendenze dei padri scultori che in qualche modo, sotterraneamente, premevano, agivano prepotentemente su Paolo. Così, quando avvenne il suo trasferimento a Milano, nel pieno fervore della ricerca sperimentale, il giovane artista vi si buttò con tutto il vigore dei vent’anni. Nei dieci anni e nemmeno che gli restavano da vivere – Paolo scomparve a trentun anni – incredibili tutti i suoi percorsi.
Nel ritornare dai suoi, col cuore che oramai stava cedendo, separatosi dalla moglie, ecco il breve e lacerante ritorno al figurativo con gli Incappucciati della Misericordia e i loro lunghi ceri nelle ombre della notte. Le scene da lui dipinte poco innanzi si doppiarono in occasione del suo funerale.
Cesare, il padre, volle far erigere sulla tomba di famiglia Il trono, ovvero una suggestiva piramide in marmo nero con uno spigolo smussato fino a simulare un sedile; un trono appunto nella sua cornice dei cipressi secolari.[1]

Ma conclusivamente ricollochiamoci negli anni dell’immediato dopoguerra. Silvio Betti, il barbiere, è appena tornato dalla guerra e dalla prigionia degli inglesi, riapre bottega nell’unica strada che dalla piazza Tommaseo portava in collina, mirabilmente dipinta dal grande macchiaiolo Telemaco Signorini.[2]
Una certa mattina Silvio entra nel caffè di piazza e deve sorbirsi le lamentele di una signora straniera… ah les italiens… les italiens di qui… les italiens di là… Silvio ha un improvviso scatto (riporto pari pari quanto lui mi ha narrato) e  sbotta… oh signora, se l’Italia non le sta bene a mano non fa che prendere il treno e se ritorna da dove è venuta… L’indomani nella sua bottega entra la signora da lui duramente apostrofata il giorno prima, e si sprofonda in scuse. È Nina, la moglie di Leo Stein. Ne nasce un’amicizia.

Carlo con Silvio Betti. Foto C. Carlucci

Carlo con Silvio Betti. Foto C. Carlucci

Di lì a poco Nina propone a Silvio di accompagnarla a visitare qualche museo, ma Silvio si schermisce, ha fatto solo la quinta elementare, non ha cultura. Nina è dolce, ma irremovibile e concordano la prima visita al museo di San Marco, nella piazza omonima. All’uscita, allora come ora, con l’aggravio del traffico soffocante che sta riprendendo lena, vi è uno sbattimento di palpebre dovuto alla variazione tonale dei colori ovvero l’oro e gli azzurri dell’Angelico a contrasto con il grigio terreo della piazza asfaltata. Nina che chiede al Betti: “Allora Silvio che cosa gliene è parso? – O signora glielo ho detto che sono una persona ignorante…” “Ognuno Silvio, non importa la sua cultura, ha il diritto di esprimersi con le parole che ha a disposizione…” “Beh, in effetti è come se il mondo fosse diventato… più bello… “Lo vede Silvio? Vede che avevo ragione …?”
E qui, trascrivendo quanto puntualmente mi raccontò Silvio, so di rendere un tributo a lui e a Nina. Poi a Leo scoprono un cancro, quindi i ricoveri a Careggi e Silvio si presta a fare la spola. Nel 1947 Leo Stein viene a mancare e Nina, rimasta sola nella villa isolata, cade nella depressione. Quella villa, per tanti anni aveva fatto da cornice e da sfondo ai ripensamenti di una vita, sorta di bilancio o valutazione dei multiformi interessi dello Stein, aveva visto sul termine di un’esistenza votata alla ricerca e in definitiva alla meditazione estetica del bello, la stesura di una sorta di summa nel libro: Appreciation: Poetry Prose and Painting.

Per Alfred Barr il primo direttore del Moma di New York, come si è detto Leo Stein rimane il conoscitore più acuto della pittura del XX secolo. Una figura vera, intensa, vagamente tragica, riluttante sempre a dare scopo o magari volto a quanto l’aveva appassionato. Da Cesare Scheggi ebbi in prestito il libro che gli aveva donato Leo. Mi rimase quella sensazione di sospensione assoluta che non era incompiutezza. Un misurare e misurarsi con la perfezione del paesaggio, certamente il più bello del mondo, e questa bellezza era continuamente il vaglio, pagina per pagina, del libro come si veniva costruendo lievemente, quasi inavvertitamente.
Una sera di pioggia uggiosa, Nina telefona all’amico Silvio chiedendo se per favore poteva passare per un’incombenza. “Buona sera Silvio, ho pensato di farle un regalo. Lei è stato tanto caro con noi, con Leo… da come sempre guarda i pochi quadri che sono rimasti…, ne prenda due adesso, se li porti via…”
Silvio, pur immaginando il valore dei quadri rimasti… Gauguin?… Cezanne? declina l’offerta quasi implorante di Nina.

Sentiero che porta all'oratorio della Vannella

Sentiero che porta all’oratorio della Vannella

L’indomani aprendo bottega apprende che quella stessa notte la sua amica si era suicidata.[3]
Silvio Betti, per trent’anni presidente della Confraternita della Vannella, fece provvedere ai lavori di ripristino della Cappella degli Scalpellini e dietro il quadro d’altare di una Madonna tardo cinquecentesca fu scoperta una sinopia attribuita a un giovane Botticelli, probabilmente quindicenne.
Poco discosto dal Mensola, da dove si dipartono le sei o sette viuzze, quasi come gangli vitali, vi è una lapide in marmo bianco che ricorda i nomi dei visitatori illustri fine Ottocento, primo Novecento, e fra questi nomi un posto d’onore spetterebbe a Mark Twain, forse il più incredibilmente vocato e dotato a dire o a narrare di quanti nel corso dei secoli si sono avvicendati in questo indicibile paesaggio collinare. Io mi ci sono forse malamente provato ma, spinto da esperienze personali, ho sentito viva la necessità di mescolare i cosiddetti umili, i senza storia, come il fabbro, il barbiere, l’indimenticabile Nina (Stein), Cesare e, dietro di loro, un piccolo popolo collinare che nel corso ininterrotto dei secoli… umile popolo, assieme alle presenze illustri… che non sapevano quanto era impossibile e quindi l’hanno fatto.[4] Per l’appunto un pensiero o intuizione che si attanaglia benissimo. L’autore? Mark Twain, per l’appunto.

E peccato che gli interessi culturali e pittorici di Leo ruotassero intorno a Parigi. Nei trent’anni in cui si dilettò nel ritrarre quel paesaggio collinare non potette ammirare le incomparabili vedute di Settignano dell’ultimo, più geniale e versatile dei macchiaioli: Telemaco Signorini.

Et hoc meminisse iuvabit.

(Le foto sono dell’autore)


[1] Paolo Scheggi è nato nel 1940; dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti a Firenze e alcuni corsi di formazione artistica a Londra, nel 1961 si trasferisce a Milano e diventa collaboratore di Germana Maruccelli, zia della madre, creando per la sua sartoria tessuti e gioielli. In seguito si dedica alla composizione di opere monocrome, caratterizzate da tre tele sovrapposte e ospitanti aperture ellittiche o circolari definite Intersuperfici. Considerato il successore di Lucio Fontana è scomparso nel 1971.

[2] Telemaco Signorini abitava in via Ciro Menotti 10 e col filobus poteva comodamente raggiungere Settignano e la campagna circostante, mete favorite dei suoi en plein air degli ultimi anni.

[3] Dopo la scomparsa di Gertrude nel 1946 e di Leo e Nina nel 1947, la loro mitica collezione, che conteneva dei capolavori assoluti, per la mancanza di discendenti, è andata dispersa nei musei di mezzo mondo.

[4] A dimostrazione di quanti artisti e letterati abbiano trascorso parte della loro vita in questo piccolo lembo di territorio basta leggere i nomi di quanti riposano nel cimitero di Settignano (è considerato il cimitero periferico di Firenze più ricco di opere d’arte), da Niccolò Tommaseo ad Aldo Palazzeschi e Paolo Scheggi. Bernard Berenson, scomparso nel 1959, riposa invece accanto alla moglie Mary Persall Smith nella cappella de I Tatti, la stessa nella quale si erano sposati nel 1900. La sua villa rappresentò per gli studiosi di passaggio una tappa obbligata per ammirare la ricchissima collezione d’arte e la straordinaria biblioteca.

Finora nessun biografo conosceva il luogo dov’erano sepolti Leo e Nina e nemmeno la data di nascita di quest’ultima. Un evento per me molto doloroso ha voluto che colmassi questa lacuna: il loro loculo è accanto a quello di Vieri, il mio amatissimo figlio.

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Ringrazio Adriana Miceu per aver controllato le bozze, inserito le note e la parte iconografica.