VINCENZO MONTI (1754-1828).
Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co’ remi il seno a Teti,
su l’alta poppa intrepido
col fior del sangue acheo
vide la Grecia ascendere
il giovinetto Orfeo.
Stendea le dita eburnee
su la materna lira;
e al tracio suon chetavasi
de’ venti il fischio e l’ira.
Meravigliando accorsero
di Doride le figlie;
Nettuno ai verdi alipedi
lasciò cader le briglie.
Cantava il Vate odrisio
d’Argo la gloria intanto,
e dolce errar sentivasi
su l’alme greche il canto.
O della Senna, ascoltami,
novello Tifi invitto:
vinse i portenti argolici
l’aereo tuo tragitto.
Tentar del mare i vortici
forse è sì gran pensiero,
come occupar de’ fulmini
l’invïolato impero?
Deh! perchè al nostro secolo
non diè propizio il Fato
d’un altro Orfeo la cetera,
se Montgolfier n’ha dato?
Maggior del prode Esonide
surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
al volator naviglio.
Non mai Natura, all’ordine
delle sue leggi intesa,
dalla potenza chimica
soffrì più bella offesa.
Mirabil arte, ond’alzasi
di Sthallio e Black la fama,
pèra lo stolto cinico
che frenesia ti chiama.
De’ corpi entro le viscere
tu l’acre sguardo avventi,
e invan celarsi tentano
gl’indocili elementi.
Dalle tenaci tenebre
la verità traesti,
e delle rauche ipotesi
tregua al furor ponesti.
Brillò Sofia più fulgida
del tuo splendor vestita,
e le sorgenti apparvero,
onde il creato ha vita.
L’igneo terribil aere,
che dentro il suol profondo
pasce i tremuoti, e i cardini
fa vacillar del mondo,
reso innocente or vedilo
da’ marzii corpi uscire,
e già domato ed utile
al domator servire.
Per lui del pondo immemore,
mirabil cosa! in alto
va la materia, e insolito
porta alle nubi assalto.
Il gran prodigio immobili
i riguardanti lassa,
e di terrore un palpito
in ogni cor trapassa.
Tace la terra, e suonano
del ciel le vie deserte:
stan mille volti pallidi,
e mille bocche aperte.
Sorge il diletto e l’estasi
in mezzo allo spavento,
e i piè mal fermi agognano
ir dietro al guardo attento.
Pace e silenzio, o turbini:
deh! non vi prenda sdegno
se umane salme varcano
delle tempeste il regno.
Rattien la neve, o Borea,
che giù dal crin ti cola:
l’etra sereno e libero
cedi a Robert che vola.
Non egli vien d’Orizia
a insidïar le voglie:
costa rimorsi e lacrime
tentar d’un dio la moglie.
Mise Tesèo nei talami
dell’atro Dite il piede:
punillo il Fato, e in Erebo
fra ceppi eterni or siede.
Ma già di Francia il Dedalo
nel mar dell’aure è lunge:
lieve lo porta zeffiro,
e l’occhio appena il giunge.
Fosco di là profondasi
il suol fuggente ai lumi,
e come larve appaiono
città, foreste e fiumi.
Certo la vista orribile
l’alme agghiacciar dovría;
ma di Robert nell’anima
chiusa è al terror la via.
E già l’audace esempio
i più ritrosi acquista;
già cento globi ascendono
del cielo alla conquista.
Umano ardir, pacifica
filosofia sicura,
qual forza mai, qual limite
il tuo poter misura?
Rapisti al ciel le folgori,
che debellate innante
con tronche ali ti caddero,
e ti lambîr le piante.
Frenò guidato il calcolo
dal tuo pensiero ardito
degli astri il moto e l’orbite,
l’Olimpo e l’infinito.
Svelaro il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressar le timide
lor vergini fiammelle.
Del sole i rai dividere,
pesar quest’aria osasti:
la terra, il foco, il pelago,
le fere e l’uom domasti.
Oggi a calcar le nuvole
giunse la tua virtute,
e di natura stettero
le leggi inerti e mute.
Che più ti resta? Infrangere
anche alla morte il telo,
e della vita il nettare
libar con Giove in cielo.
(L’ode, composta nel febbraio 1784, prese spunto dal secondo volo aerostatico della storia, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783.)