ESTER LANZARDO
Che serata, quella in cui ’J Amis d’ la Madlana vennero nell’ambito della rassegna musicale estiva. Entusiasti loro, per un pubblico silenzioso e attento, cui non erano abituati: le feste di paese sono tutt’altra cosa. Contenti noi, che cantammo tutta la sera a voci spiegate. Era estate, il gruppo a semicerchio intorno alle tre fisarmoniche, sotto il glicine di Antonella; una notte serena, illuminata dalla luna. E poi quanti ringraziamenti ufficiali “a Pino e Ester”, da Emanuele, Presidente della Pro Loco, da Giangiorgio, coordinatore degli Amis; ero felice per te, sapevo che i riconoscimenti ti procuravano piacere, specie resi davanti ad un così vasto pubblico. Ma il piacere per te più grande fu quello di ospitarli, a fine concerto, a mangiare; avevamo trasformato casa mia, in modo che potesse ospitare trenta persone: ’J Amis, le consorti, qualche amico nostro. Un po’ si mangiava, un po’ si cantava, in un rincorrersi di titoli e canzoni, quasi una sfida a chi ne sapeva di più.
’J Amis sono tornati, su mia richiesta, per dedicarti un canto, la domenica della tua morte. Vietati gli assembramenti, lo avevo detto a pochi vicini di casa, che si erano portati nel tuo cortile con la mascherina, mantenendo la prescritta distanza. Io rimasi sul tuo terrazzino, a fare da tramite tra te e tutti loro. Giangiorgio, come sempre, introduceva i brani, stavolta rivolgendosi, anziché ad un pubblico, a me sul terrazzino, a me che, nonostante la commozione che mi stringeva la gola, riuscivo a rispondere. Una piccola cosa delicata toccante perfetta, senza applausi, solo un devoto tributo alla tua persona, alla tua passione per il canto popolare e per le ribote, alla tua voce che sapeva sempre proporre, sapientemente dominare, e guidare il canto dei cori spontanei. Ho sempre pensato che, se avessi avuto l’opportunità di curarla, saresti diventato qualcuno; era piena, tonda, senza ombre o increspature; a tratti poteva diventare tonante come il rombo di cannone in quell’aria di Rossini “La calunnia/è un venticello…”, in cui di tanto in tanto ti esibivi, ma poteva anche essere, pur nella sua fermezza, delicata. Con te non capitava mai che il canto si arenasse, per mancanza di voce o di parole: ricordavi per intero i testi, e non sbagliavi mai l’intonazione. Al tuo vastissimo repertorio, avevamo aggiunto dalla Traviata “Di Provenza il mare e il suol”; non è un duetto, è un pezzo da baritono, ma ci piaceva cantarlo insieme. Sentire le nostre voci fuse in una melodia allargava in me una placida onda pura e benefica.
(…)
Eri solito dire: “Ci son due feste nell’anno, e non sono Natale e Pasqua: sono il 19 marzo, San Giuseppe, e il 30 agosto, mio compleanno”. Festeggiarli era cosa inderogabile; non si poteva neppure posticipare o anticipare, giusto per sfruttare il fine settimana: no, il giorno doveva essere quello. E tu preparavi un pasto luculliano, dagli antipasti al dessert, invitando gli amici e, di sicuro, un fisarmonicista; i convitati avevano due compiti: mangiare di buon gusto e, venuto il momento, cantare; guai a distrarsi in chiacchiere: richiamavi il malcapitato con occhiatacce e rimbrotti. Quando ad agosto hai detto di voler invitare gli amici, ero incredula, ma ti ho seguito; ho diramato gli inviti per una maranda sinoira sotto il faggio; ti ho dirottato su preparazioni che potessero essere disposte su vassoi, da cui ciascuno si potesse servire nel rispetto delle norme igieniche previste a causa del Covid; hai lavorato tre giorni, in cui ti ho aiutato quanto mi hai permesso, sempre dubitando che tu ce la potessi fare; nel primo pomeriggio del 30 agosto, ho capito che ci saresti riuscito; ho confidato nel bel tempo e nell’aiuto dell’insostituibile Antonella; all’ultimo momento, ho indossato una t-shirt con una vecchia gonna e sono uscita in cortile: tu eri già lì e, vedendoti, ho pensato: “Quanto sei malato, amore mio…”. Tu mi davi disposizioni, come sempre ti stava a cuore che la gente mangiasse. Io andavo e venivo, dentro e fuori casa, ma non sentivo la stanchezza, mi sembrava di essere un uccello in volo. Il tempo faceva le capriole: sole, nuvoloni, vento dispettoso, pioggia, persino l’arcobaleno, ma sempre all’intorno, per cui nessuno è stato costretto a scappare.
Prima il momento di ilarità generale, quando ho servito per errore come champagne una grappa di Moet & Chandon; c’è chi ha ingollato fiducioso, e per poco non gli uscivano gli occhi dalle orbite. Poi Enrico ha imbracciato la fisarmonica e ha iniziato a suonare con delicatezza, sottovoce e lentamente. E tu, che da giorni avevi la voce incrinata dalla malattia, hai iniziato a cantare; abbiamo cantato per un’ora almeno: ogni tanto ti fermavi, e dirigevi il coro, mentre riprendevi fiato. Mentre cantavi “canta il cuor, non posso andar più via perché, Venezia mia, mi hai fatto innamorar”, mi hai rivolto uno sguardo che era una dedica: mi sono venute le lacrime, mi sono rifugiata in cucina, ma ho subito capito che non aveva senso sottrarsi; attraversando ancora una volta di corsa il cortile, ti sono tornata accanto, ammettendo di essermi commossa; a te sono venuti gli occhi lucidi; Marinella ha sdrammatizzato pronta: “E lo credo bene: con una tale dichiarazione d’amore!”; tu mi hai indicato il tuo amico Ciccio e mi hai chiesto: “Pensa un po’ se hai mai visto Ciccio piangere così”; Antonella è scivolata alle tue spalle per non farti vedere che aveva gli occhi rossi; Gianmario trangugiava con il nodo in gola. Insomma, dall’ilarità all’affetto alla commozione, le emozioni erano palpabili.
Della difficoltà di alzarti e riguadagnare casa a fine festa, quando anche l’ultimo ospite se n’era andato, sappiamo solo tu ed io. Il giorno dopo hanno chiamato tutti, per ringraziare di una festa indimenticabile.
Prefazione di Yvonne Fracassetti Brondino
“L’altro giorno ho perso un mondo” esordisce Ester con i versi della poetessa Emily Dickinson e questo mondo era “la mia casa” aggiunge con le parole di Josè Saramago.
Il suo è il racconto del mondo che ha perso con la scomparsa di Pino, il suo compagno di vita; è un racconto che scorre come il fiume dove lui la portava, un racconto dalle acque chiare per la freschezza dei sentimenti e delle emozioni, un racconto che si fa torrente quando denuncia i disservizi del Sistema Sanitario che non l’ha aiutata a lenire la sofferenza, un racconto limpido come le pozze d’acqua trasparenti del Tanaro, tranquillo e cangiante come le sue anse, dove si intrecciano le sfumature della vita: la felicità, il dolore, la poesia.
È un racconto giovane anche se i protagonisti sono over cinquantenni, perché scoprono insieme, con la spontaneità di due adolescenti, cosa vuol dire essere felici; è un racconto maturo perché distilla la felicità, ne fa tesoro e la condivide. Non c’è soluzione di continuità fra i tre momenti della vita che ci vengono narrati: un passato che ancora non lo è, e che forse non lo sarà mai; l’addio di Pino alla vita, tra sofferenza e folgorante voglia di vivere; il presente con un vuoto che ancora non lo è, perché intriso della dolcezza del passato. Tre movimenti che si intrecciano come una melodia, senza successione temporale, sull’onda dei moti dell’animo, con i ricordi luminosi che si sovrappongono alle lacerazioni e che si mischiano alle paure, arginando il senso dell’assenza. Una melodia elegante, raffinata, che non lascia un gusto amaro, perché a vincere è sempre l’amore.
Ecco cosa sei riuscita a fare, Ester, tu che non avresti mai pensato di cimentarti un giorno con la scrittura, anche perché Pino non si fidava dei libri (tranne se scritti da te: aveva intuito!). Sei riuscita a soddisfare le tre esigenze che ti hanno spinta a scrivere e che si sentono crescere nel tuo racconto fino a diventare un impulso, un’urgenza: essere e rimanere la sentinella del vostro amore, denunciare il fallimento delle istituzioni nel garantirvi la dignità del fine vita – “il mondo deve sapere” affermi più volte – e infine, scrivere di voi, dire al mondo quanto è stato bello trovare la felicità nella pacatezza delle cose semplici.
Lasciamo al lettore la gioia di scoprire nel racconto, che si legge tutto d’un fiato e trasporta con la stessa energia dei valzer che descrive, di cosa era fatto questo mondo perduto, diventato “casa” cioè luogo dell’anima. Non sveliamo i segreti dell’armonia che vi avvolgeva: chi leggerà ne farà tesoro, se riuscirà a liberarsi dei mille filtri che ci offuscano la vista e i sensi, e si stupirà di averla a portata di mano la felicità magica delle piccole cose, dei gesti quotidiani, dei colori dell’autunno, dei profumi e dei suoni del bosco, dei sapori genuini e dell’arte di esaltarli, del canto delle vostre voci fuse in una melodia che in te “allargava una placida onda pura e benefica”.
Ma la poesia che innerva tutto il racconto, la possiamo dire: è la linfa che alimenta un sentire nuovo, esperienze sensoriali e affettive che mai si pensa di poter ancora afferrare in età matura, un vissuto intimamente legato ad un territorio amato, i dusatt, le colline della valle Tanaro, la cui bellezza appartiene anche all’animo che le guarda. Ed è questa poesia piana, delicata, sobria a legare il tempo e lo spazio, a creare un “mondo”, a farlo sentire “casa”.
Per questo, passato presente e futuro non sono scindibili; per questo Ester, hai voluto iniziare la terza parte della tua vita, quella da sola, con i gesti senza tempo della vostra poesia: fare il pane con i movimenti delicati del rispetto per la materia che lavori, tenere pulito il vostro prato, e infine, col cuore in gola, accendere un falò davanti a casa, un fuoco “catartico” nel quale non butterai né i ricordi né i primi fogli carichi di scrittura, perché hai deciso di “esserne la fedele guardiana” usando, come prima arma, una lingua coinvolgente, che scava lo smarrimento e la gioia, le emozioni e le riflessioni con la misura della saggezza e la precisione dello scalpello.
Non aspettare il “canarino canterino” che Pino ha addomesticato per te, come nella canzone di Gian Maria Testa: è già in te il suo “frullare di ali”, è in ogni tua mossa, e hai saputo, in queste tue pagine, farcene sentire il canto.
Il libro è stato presentato giovedì 10 febbraio 2022 nell’ambito della rassegna “Coltiviamo letture”. L’autrice ha dialogato con Silvia Pio, redattrice della rivista Margutte. La registrazione della presentazione si può vedere qui: