DINA TORTOROLI
Nel 1776 i Decurioni di Como erano 37, venivano convocati almeno una volta al mese e “si occupavano di ciò che attualmente chiameremmo amministrazione comunale”.
Se avessi potuto – come avrei voluto – passare in rassegna tutti i verbali delle adunanze, dagli ultimi quattro mesi del 1776 al 1796 (allorché il Decurionato fu abolito da Napoleone), molto probabilmente avrei capito quale conoscenza “de le umane cose” avesse “sperimentato” il giovanissimo Decurione Carlo Imbonati, e fino a che punto quell’aggiuntiva presa di coscienza avesse rinfocolato il suo “dolor de l’altrui danno”.
Invece, mi dovetti rassegnare all’esplorazione di archivi meno lontani.
La rescissio actorum mi impediva inesorabilmente di conoscere le opere, composte dall’Imbonati mentre percorreva “la via scoscesa”: un’attività letteraria dedita al “sentire” e “meditare” senza mai torcer gli occhi dalla “meta”; ma perché trascurare quelle che poteva aver letto?
Dice bene Marguerite Yourcenar: «Uno dei modi migliori per far rivivere il pensiero d’un uomo: ricostruire la sua biblioteca» (Memorie di Adriano).
Dovevo quindi esplorare la biblioteca appartenuta alla famiglia Imbonati ed ereditata da Giulia Beccaria (pertanto, considerata la biblioteca del Manzoni).
Presso il “Centro Studi manzoniani”, nonostante l’assedio quotidiano degli studiosi di professione, si occupò generosamente delle mie difficoltà l’impareggiabile studiosa e Segretaria, dottoressa Jone Riva.
Mi suggerì di consultare, prima di tutto, il volume VI degli Annali Manzoniani (1981), in cui Cesarina Pestoni elenca tutti «i libri che costituirono la biblioteca personale di Alessandro Manzoni», «custoditi in tre distinte raccolte le quali si trovano rispettivamente: presso la “Sala manzoniana” della Biblioteca nazionale Braidense; nella villa di Brusuglio; nella casa milanese di via Morone».
Dalla fotocopia di quelle 232 pagine non mi sono mai più separata e oggi è logorata dall’uso.
Non è davvero un azzardo sostenere che molti dei libri che vi sono elencati avrebbero dovuto essere citati anche nella pagina che Manzoni, nel mettere in carta Fermo e Lucia, “lascia vuota per un terzo”, dopo aver scritto in cima: «Nota di libri, memorie etc.».
Eppure si trattava di una “certificazione” necessaria! Infatti, parlando di sé, l’«editore» stesso del Fermo confessa: «A dir vero molte cose [narrate da un anonimo scrittore del Seicento] gli parevano tanto strane, ch’egli non sapeva risolversi a crederle realmente avvenute, perlochè si pose a frugar molto nei libri e nelle memorie d’ogni genere che possono dare una idea del costume e della storia pubblica e privata del Milanese nella prima metà del secolo decimosettimo […] Per comodo di chi volesse rifare queste ricerche egli pone qui una scelta di letture opportune a mettere chicchessia in caso di giudicare da sé questo fatto».
È quindi evidente che scopo ancora più importante di quella “Nota” doveva essere quello di rendere i lettori più esigenti nei confronti degli scrittori.
Nell’enciclopedica opera riformatrice, che è Fermo e Lucia, l’attività del letterato è infatti uno dei temi portanti, affrontato in molte occasioni e con un crescendo di passione e di argomentazioni, fino alla requisitoria con cui si conclude il resoconto delle «ricerche su le vicende della opinione intorno a quel fatto delle unzioni e dei supplizj» nonché dei «motivi» che avevano reso obbligatorie quelle ricerche: «A questa maniera di scrivere superficiale, vacillante, incoerente si lasciano talvolta andare anche gli scrittori più giudiziosi, nei tempi in cui i lettori son pochi e quei pochi in gran parte non esercitati a riflettere, né a paragonare, avvezzi a bersi spensieratamente ciò che loro si mesce, non incutono allo scrittore un timore dei loro giudizj che lo forzi a ben maturare ciò ch’egli scrive».
I lettori più seri (di tutti i tempi) sono quindi avvertiti: è di vitale importanza verificare l’attendibilità di uno scrittore, anche nei casi in cui le fonti di documentazione sono costituite da libri «difficili a ritrovarsi, e la più parte noiosi a leggersi, e scritti in uno stile tra il goffo e il lezioso, tra il barbaro e il pedantesco» e alcuni sono persino «in latino».
Quanto alle signore, che «appunto son quelle che più si dilettano di leggere storie private», allora, avrebbero fatto bene a riflettere anche su un sistema educativo che «purtroppo» non riteneva opportuno che le donne imparassero il latino (Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, Volume Secondo, Tomo Terzo, Fermo e Lucia, Mondadori, 1959, pp. 6-7 e 741).
Senza dubbio, se la Nota di libri e memorie non fosse rimasta in bianco, fra i libri difficili a ritrovarsi – e di cui è ancora più difficile proseguire la lettura, per il ribrezzo che suscita – vedremmo elencati i verbali dei processi agli untori.
Lo ammette lo stesso autore del Fermo, con la solenne dichiarazione con cui conclude il quarto capitolo del tomo quarto: «I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell’iniquo furore [del popolo contro i presunti untori], lo imitarono e lo sorpassarono con giudizj motivati e ponderati al pari di quei popolari che abbiam riferiti, con carneficine più lente, più studiate più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad un’appendice, che terrà dietro a questo storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero» (Fermo e Lucia, cit., p. 585).
Forse, proprio in relazione a quella documentazione processuale, gli Accademici Trasformati affrontarono il tema delle unzioni venefiche, in una loro riunione, come sappiamo dall’Accademico Trasformato Domenico Balestrieri.
Poiché ricostruisce quel fatto con ricchezza di dati, ricorro a Wikipedia che alla voce Colonna infame (Milano) […] L’abbattimento riferisce:
«Nella sua traduzione in lingua milanese della Gerusalemme Liberata del 1772, Domenico Balestrieri inserì in nota l’indicazione di una veramente compiuta dissertazione sulla colonna infame, letta dall’avvocato fiscale Fogliazzi durante una riunione dell’Accademia dei Trasformati, e riportò l’intera iscrizione della lapide; nel testo citò anche alcuni versi di un’opera di Giuseppe Parini: Quando tra vili case in mezzo a poche / rovine i’ vidi ignobil piazza aprirsi, / Quivi romita una colonna sorge / in fra l’erbe infeconde e i sassi e il lezzo / Ov’uom mai non penetra, però ch’indi / genio propizio all’insubre cittade / ognun rimuove alto gridando: – Lungi, / o buoni cittadin, lungi che ‘l suolo / miserabile infame non v’infetti – / Al piè della colonna una sfacciata / donna sedea, che della base al destro / braccio facea puntello; e croci e rote / e remi e fruste e ceppi erano il seggio, / su cui posava il rilassato fianco. / Ignuda affatto se non che dal collo / Pendeale un laccio, e scritti al petto aveva / obbrobriosi, e in capo strane mitre, / terribile ornamento. Ergeva in alto / la fronte petulante, e quivi sopra / avea stampate con rovente ferro / parole che dicean: Io son l’Infamia! / Io che virtù seguendo odio costei, / anzi gloria immortal co’ versi cerco, / a tal vista fuggìa, quando la donna / amaramente sorridendo disse […] / Così dicea la donna, e il vil dispregio, / e mille turpi Genii intorno a lei / le gien beffando intanto, ed inframmesso / il pollice a le due vicine dita, / ad ambe mani le faceano scorno. Stando a una ricostruzione dello storico milanese Francesco Cusani, il Balestrieri donò copia della propria opera al barone Joseph Sperges, consigliere austriaco per gli affari italiani; nella lettera di ringraziamento il barone si dolse per la citazione della colonna infame, monumento di disonore per il Senato di Milano. Balestrieri in seguito mostrò la lettera al conte Firmian, governatore della Lombardia. Successivamente, sempre secondo il Cusani, il governo cercò di far demolire la colonna, approfittando di una norma che vietava il restauro dei monumenti d’infamia: gli anziani della parrocchia fecero firmare agli abitanti delle case adiacenti una richiesta per l’abbattimento della colonna danneggiata dal tempo, ma il Senato rifiutò più volte quanto richiesto. Nelle notti dell’agosto 1778 gli abitanti sentirono più volte colpire la base della colonna, che cadde nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1778 e “la palla che la sormontava rotolò giù pel vicolo dei Vetraschi”. Alla fine di agosto i resti furono smantellati completamente e il 1° settembre ci fu un sopralluogo ufficiale».
I trenta versi dell’ode pariniana immediatamente mi riportano al Fermo, in cui è sufficiente la citazione dei primi nove, perché ne erompa una dolorosa, lunghissima querela, che prenderò a lungo in considerazione, ma soltanto dopo aver detto cosa mi accadde di inimmaginabile, allorché volli esaminare i manoscritti processuali, presenti nella biblioteca degli Imbonati.
Nella “Raccolta di Brera”, all’interno del voluminoso Processo degli untori. 1630. (Sala Manzoniana, segnatura “Manz. XII. A. 36, pp. 499; ms. del secolo XVIII), trovai infatti due lettere e gli involucri in cui erano state racchiuse, con sigillo in lacca in cui è impresso lo stemma (Croce coronata) di Milano e l’indicazione del destinatario: l’Illustrissimo Signor Segretario Grassini.
Le ho già fatte conoscere, pubblicandole molti anni fa, nel volumetto Immaginare la realtà, ma ben più baldanzosamente le posso proporre all’attenzione dei frequentatori di Margutte, ora che so quali altre “prove” si conservano in archivi inaccessibili alla furia devastatrice dello sventurato Manzoni:
– «Il Vicario di Provvisione della Città di Milano nell’atto che fa i Suoi complimenti allo Stimat.mo Sig. Segret.o Grassini gli espone il desiderio che ha di dare un occhiata al Processo fatto nel Secolo Passato all’occorrenza della errez.e della Colonna cosi detta infame, perciò si fa a pregarlo darsi la pena di comunicarglielo per solo tempo che abbisogna per esaminarlo; nella fiducia di vedersi favorito con pienis.a stima si replica / Milano, 13. Giugno 1778».
– «Nell’atto che il Vicario di Provvis.ne ritorna allo Stimabilissimo Sig. Segretario Grassini la Pezza, che gentilmente gli ha comunicata, si chiama sensibilissimo per la graziosa deferenza con cui l’ha favorito; e desidera l’incontro onde rimostrargli coll’opere la vera gratitudine. Se una piccola indisposizione non l’avesse impedito non avrebbe ritardata fino ad oggi la restituzione, e senza più rinnovando allo Stim.mo Sig. Segr.o i più distinti complimenti si riprotesta Obblig.mo / Milano, 20. Giugno 1778».
Il Vicario di Provvisione, nel 1778, era il conte Niccolò Visconti, di cui Carlo Imbonati, due anni addietro, aveva seguito le lezioni di Diritto Pubblico, e mi pare evidente che avesse assecondato il desiderio del suo ex allievo di mettere a confronto i documenti in suo possesso con la copia ufficiale del processo, conservata nell’Ufficio di Sanità, di cui Grassini era Segretario.
La mia esultanza, allorché lessi quelle due missive fu pari a quella provata a Roma, di fronte ai documenti arcadici, che restituiscono a Carlo Imbonati la fisionomia di intellettuale militante. Per la seconda volta, vedevo avvalorate le mie “eretiche” congetture, avendo fra le mani la prova che l’Imbonati, fin dalla giovinezza, studiò coscienziosamente la documentazione processuale. Faceva orrore, ma chi aveva a cuore l’avventura umana delle persone meccaniche e di piccolo affare poteva provare “una specie di conforto”, nel pensiero che avrebbe almeno potuto restituire loro la memoria di cui erano state defraudate.