CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Quando presento un testo come “Varietà”, la mia raccolta di interviste ai divi del pop italiano, avverto fra il pubblico una curiosità immediata relativa ai personaggi più disparati: divi anni ’60 come Rita Pavone e Gianni Morandi, personaggi della Tv come Mara Venier e Gerry Scotti, attori come Nino Manfredi e Catherine Spaak, intellettuali come Vittorio Sgarbi e Alberto Lattuada, cantautori come Paolo Conte e Ivano Fossati… Tutti costoro sono entrati nell’immaginario collettivo a volte forse anche per motivi fortuiti, ma senz’altro avendo come prerequisito, come minimo comun denominatore, pur nella diversità di ruoli e carismi, la costruzione di una personalità artistica, musicale, culturale in genere, che ha finito con l’assumere, anche in modo contingente, carattere paradigmatico rispetto a un vissuto antropologico che in essi a vario titolo si rispecchia.
Mi chiedo dunque cosa rispetto ai “divi del pop”, che assumono – ripeto – valore di specchio di una chiamata o condizione comune, produca una tale significanza che alla fine trascende senz’altro l’io empirico che li caratterizza individualmente. E giungo alla conclusione che, sia pure con tutti i distinguo che comportano i vari meccanismi di proiezione e investimento soggettivi, essi propongono la costruzione di una personalità – la propria – intesa come sintesi e armonia finanche di opposti, che appare in grado di ricostituire una sorta di equilibrio ermeneutico in un mondo spesso percepito come caotico e alienante, come se diffondessero iconicamente una luce avvolgente e ammaliante, che riscatta entro il proprio alone incerto e mutante le contraddizioni e asperità della vita in una apparizione di splendore ontologico.
Naturalmente siamo qui a parlare di sintesi che avvengono grazie al privilegiamento di mezzi diversi, dalla parola alla musica, dalla danza alle arti visive, dalla recitazione al canto, ma il cui effetto è il medesimo: quello di rendere paradigmatico un modello umano. La questione, come evidenzia il documentatissimo saggio di Geoff King, “La nuova Hollywood” (Einaudi, 2004), è assai complessa, e riguarda il ruolo di catalizzatore che la star riveste, in particolare nel mondo occidentale, di valori e istanze “culturali”, fornendone una splendida “incarnazione” che compensa i sentimenti di inadeguatezza psicologica e incoerenza dei “comuni mortali”. Pensiamo, per esempio, a Marilyn Monroe: essa sapeva far convivere nel medesimo carattere elementi di ingenuità quasi fanciullesca e di seduzione o trasgressione che, associati, ne hanno decretato fama, successo e rappresentatività epocale (la sua icona, reiterata dalla pop art di Andy Warhol e non solo, è ormai nota quanto la Monna Lisa di Leonardo o la Venere di Milo). E secondo Richard Deyer, teorico dello star system hollywoodiano, l’attrattiva delle star consisterebbe proprio nell’“offrire una magica riconciliazione di opposti”, conciliando in sé prerogative che potrebbero sembrare incompatibili, nella luce di una smagliante coerenza. La star, insomma, finisce con l’esprimere, dalla propria angolazione antropologica, il meglio di tutti i mondi che le sono possibili.
A scanso di equivoci, vorrei brevemente accennare a tre casi di grande popolarità iconica che, nella loro palese diversità, renderanno più stimolante individuare eventuali elementi antropologici comuni. E penso alla simpatica drag queen Platinette, alla principessa Diana e a Madre Teresa di Calcutta. Siamo di fronte a tre personaggi che hanno goduto, nei rispettivi ambiti, di grande visibilità mediatica, popolarità e successo, pur rappresentando modalità antropologiche molto differenziate fra loro. Eppure, il tratto comune che è possibile rintracciare nelle loro parabole esistenziali è la costruzione di un’essenza, e della sua pubblica apparizione, in grado di esprimere una sintesi efficace e affascinante di elementi contrastanti e talvolta antitetici.
Platinette ottiene il successo televisivo quando, nato Maurizio Coruzzi, decide di esprimere il proprio lato femminile attraverso la maschera della drag queen con la quale peraltro il pubblico finisce con l’identificarlo, regalandogli un successo che mai avrebbe probabilmente ottenuto restando nei panni di conduttore, scrittore e opinionista radiofonico. È evidente in tal caso l’abile equilibrismo che il personaggio sa mantenere fra la propria identità anagrafica (mai rinnegata) e l’interpretazione che, veicolata da ruoli ed ambiti dell’intrattenimento, egli ne dà, mostrandone la complessità ed il carattere ibrido, grazie a una costruzione che riesce a saldare maschile e femminile, fantasia e realtà, mente e corpo in una maschera coerente in grado di conciliare gli opposti.
Lady Diana, di cui in questi giorni si è celebrato il ventennale della tragica scomparsa, rappresenta, come è a tutti noto, un caso di popolarità mediatica planetaria, che ha suscitato transfert a piene mani in uomini e donne di tutto l’ecumene. Qui appare ancora più evidente e interessante, date le proporzioni immani del fenomeno, il carattere iconico che essa ha saputo e continua a rappresentare. Di fatto, il ruolo di una principessa reale, madre del futuro erede al trono d’Inghilterra, era sino a lei garantito da stabili cliché cui bastava aderire d’ufficio, assumendo la forma assegnata, e magari declinandola con decoro e sobrietà: anche questa sarebbe stata una interpretazione, sia pure articolata entro i confini di un linguaggio e un genere déjà vu. Lei, forse anche per le note circostanze matrimoniali, forse anche per una innata sensibilità e capacità di interpretazione della situazione, ha scelto di non essere semplicemente convenzionale, ha scelto di esprimere la propria femminilità e autonomia attraverso innumerevoli iniziative benefiche (ma anche pericolosamente borderline, come le campagne per i malati di Aids e contro le mine antiuomo), come anche parlando pubblicamente della propria insoddisfazione per i ruoli e la condizione istituzionale che le si voleva assegnare. Insomma, Lady Diana ha saputo dar voce, con una sintesi complessa, con una costruzione architettonicamente ai limiti ma affascinante, ad una regalità splendida e pressoché unica nella Storia del XX secolo (qualche paragone lo si può fare con Grace Kelly, o con l’attuale regina Rania di Giordania, tuttavia decisamente più integrate nei loro ruoli istituzionali), dove paradossalmente la sintesi è fra il carattere universalmente percepito come paradigmatico di tale regalità ed il rifiuto più o meno latente dell’istituzione a considerarlo tale, tanto da confinare la principessa a una condizione di dolorosa marginalità entro la famiglia reale e l’establishment. Insomma, la sintesi che fa di Lady Diana una sorta di regina di cuori o della gente sta proprio nel rapporto che ella realizza fra istituzionalità e rifiuto, regalità e condizione di ousider, donde il palese fascino che emana da una condizione così ibrida, ma anche libera e originale, strenuamente voluta e realizzata dalla protagonista.
Madre Teresa di Calcutta non aveva le caratteristiche per diventare un personaggio mediatico. La sua pelle consumata e il suo corpo esile e piegato dalle fatiche non corrispondeva a quello che il pubblico televisivo si aspettava a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, che pure videro esplodere la sua popolarità in tutto il mondo. Eppure il suo saio bianco con due righe azzurre, il suo volto entusiasta ma ruvido e stanco, attirarono a sé ragazze di tutto il mondo che chiesero di entrare nelle sue Missionarie della Carità. E lei parlò con principi e potenti, si impegnò per l’assistenza e la promozione degli ultimi, viaggiò per raccogliere fondi e sensibilizzare il pianeta in tutto il mondo. In un’epoca di look e fitness, dove l’immagine obbediva a cliché di innocua gradevolezza e consumo immediati, additò il fascino dello spirito e propose l’ascesi alla comunicazione mediatica, conseguendone un successo e un riconoscimento personali (culminati nel premio Nobel per la Pace del 1979) senza precedenti, che ha visto post mortem un’ulteriore conferma nella canonizzazione, avvenuta il 4 settembre 2016 da parte di Papa Francesco. Madre Teresa, in un’epoca che affermava valori distanti da quelli che ella andava proponendo, incarnando un modello di ascesi in totale controtendenza rispetto ai cliché prevalenti, e facendone – in modo davvero sorprendente – una espressione mediatica attraverso una instancabile attività missionaria e di comunicazione, ha saputo realizzare una costruzione massiccia e imponente, che si è imposta alla pubblica opinione, al sentire comune, ai poteri costituiti stessi, come palese espressione di valori universali e inclusivi. Se a questo aggiungiamo ciò che oggi conosciamo dalle sue stesse testimonianze dirette, e cioè il pervasivo dubbio che attraversò gran parte della sua vita, circa la reale esistenza di Dio, dubbio che mai intaccò la sua fede diretta e vitale, ci rendiamo conto del carattere davvero eroico della sua costruzione esistenziale e antropologica.
Come vediamo, i tre personaggi che abbiamo brevemente preso in esame rappresentano un approccio costruttivista al progetto della propria vita, tanto più apprezzabile quanto più impegnativa appare la sintesi che sono chiamati a realizzare (maschile-femminile; regalità-marginalità; ascesi-mediaticità). Per realizzare tale sintesi essi devono superare la banale logica di bisogno e soddisfazione del bisogno, a favore di una prospettiva che allarga la visuale e la orienta a trascendere il sé empirico a favore della realizzazione del valore, che esige impegno, proiezione, investimento energetico e sacrificio del principio di piacere o sua radicale subordinazione e relativizzazione rispetto a un ordine più alto.
Ecco perché questo rende – almeno virtualmente – Platinette, Lady Diana e Madre Teresa delle personalità ermeneuticamente significative. Ci potremmo ora chiedere, al fine di cogliere input in qualche modo capaci di mordere la vita di chi legge e magari di provocare ad un superamento: che cosa differenzia queste ontologie personali da quella dell’uomo comune, posto che tale differenza sussista? Ovvia e doverosa la precisazione che segue da parte di chi scrive: nessuno di noi si arroga il diritto di parlare della ontologia sostanziale di soggetti concreti, che ci sfugge nella sua intima essenza, ma piuttosto di ciò che essi rappresentano nella loro iconicità pubblica e manifesta, potremmo dire storica. In concreto, e per intenderci, ciò che noi diciamo di Lady Diana potrebbe essere pertinente a un soggetto esistenzialmente diverso da lei, e magari meno a lei stessa come soggetto etico, esattamente come Ulisse rappresenta il coraggio ma esistenzialmente può essere che altri siano stati molto più coraggiosi di lui o, al limite, che egli non sia affatto stato così coraggioso. Noi qui ci atteniamo alle figure, ai significati, ai ruoli giocati e alla memoria storica, anche se presumiamo che questi non siano del tutto disomogenei rispetto alle ontologie di riferimento, ma in qualche modo rivelative (un albero si riconosce dai suoi frutti, recita un passo evangelico). Quindi, analogamente, parlando di uomo medio o uomo comune ci riferiamo a una tipologia che è in qualche modo un’astrazione e non pretende di esaurire la realtà di tale tipologia di riferimento, ma solo evocarne una sorta di prototipo o modalità, che ciascuno è ovviamente in grado di disattendere più o meno, per avvicinarsi magari al concetto o alla categoria di iconicità sopra descritta, esattamente come la star potrebbe in realtà incarnare un vissuto di adeguamento al cliché e allo standard (specie di questi tempi) che ne definisce l’esperienza come quella di un uomo medio o comune appunto.
E tuttavia, nella evidente impossibilità di trascendere il dato nella condizione storico-esistenziale in cui ci troviamo, non possiamo che procedere ad una semplificazione concettuale ed espressiva, per cui immagineremo, con qualche probabilità di efficacia ermeneutica, una certa ontologia dietro il concetto di divo o di star o di icona e una certa ontologia dietro il concetto di uomo medio o uomo comune ma, per restare il più possibile fedeli a un’ispirazione che ci guida, potremmo ulteriormente sintetizzare dicendo che, in realtà, si tratta di due polarità, due concetti-limite, entro cui ciascuno può trovare la propria collocazione o oscillare. E in tal modo capiremo meglio le osservazioni che seguono e la loro finalità, che è poi quella di orientarci al compimento, di fronte al quale siamo tutti star della vita, cioè autentiche star.
Dunque, quali le caratteristiche di tale supposto uomo medio? Potremmo dire, in primis, che costui tende a non superare la soglia della assunzione e soddisfazione dei bisogni, poco importa se economico-alimentari (guadagnare e cibarsi) o estetico-culturali (come andare al parco o al museo), e in quest’ottica, di solito, non riesce a trascendere una sorta di conformismo indotto, una sorta di appiattamento sul si fa e si dice (Heidegger insegna), sul ruolo attribuitogli dal contesto socio-economico di riferimento e da lui acriticamente assunto, insomma, egli vive comme il faut e mai elabora una qualche personale digressione sul tema.
è interessante osservare che, se esiste una versione virtualmente naturalistica di tale approccio, che fa leva sui bisogni primari in forma immediata e naïf, è altrettanto vero che, nei contesti di società evolute e complesse come la nostra, il condizionamento e quindi il bisogno indotto anche artificialmente prevalgono o, meglio, conferiscono una precisa direzione o deviazione a quelli primari e naturali, eventualmente dirottandoli dalla meta e distorcendoli in direzioni strumentali al funzionamento dell’ingranaggio.
Non a caso, la Scuola di Francoforte, specie con Adorno e Marcuse, ha sottolineato il carattere opprimente del tardo capitalismo occidentale, oggi sempre più mediatico e planetario, sino a configurarlo come un grande totalitarismo occulto, in grado di esercitare un potere omologante e generare comportamenti conformisti e funzionali al sistema. Tale sistema avrebbe una capacità di penetrazione delle coscienze (ad esempio, attraverso condizionamenti subliminali veicolati da pubblicità, informazione e intrattenimento mediatici), da far impallidire i metodi grossolani utilizzati dai fascismi tradizionali. Potremmo dire con linguaggio disinvolto che se Mussolini doveva convocare pubbliche adunate per convincere le masse, oggi è nei soggiorni, nelle cucine di casa, ma più spesso nel circoscritto spazio di tablet, smartphone e pc, che si consuma una plasmazione delle sinapsi cerebrali di fanciulli e giovani, che il sistema non deve più trasformare o convincere, limitandosi a creare coscienze sinergiche al sistema stesso e ad esso perfettamente obbedienti in quanto sue docili espressioni, quasi quanto gli ingranaggi di una macchina non possono che funzionare in sinergia con essa.
Quali sviluppi, quali speranze risultano allora possibili entro uno scenario così intristito e cupo? Sappiamo tutti, perché la fenomenologia della vita è lì a dimostrarcelo, che spesso grandi cose, rinascite e nuovi inizi, o semplicemente occhi nuovi, hanno luogo a partire da esperienze piccole – piccoli gesti, un osare che costa ma del tutto alla portata, una scommessa che si decide di giocare, un levarsi di fronte alle amarezze della vita o del mondo –, mediante le quali ci ricongiungiamo con il fondo del nostro essere per riappropriarcene e dargli fiato, speranza, proiezione… “Si vive di affetti, di emozioni, di energia, di sentimenti… più che di medicina…”, ha voluto sottolineare Gualtiero Bassetti, Presidente della Cei, in merito al caso del piccolo Charlie, il bambino inglese affetto da una malattia ritenuta incurabile, che contrapponeva la famiglia ai medici dell’ospedale che lo avevano in cura e volevano staccare i macchinari che lo tenevano in vita. E qualcun altro aveva detto: “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” (W. Shakespeare, La Tempesta, Atto IV). Siamo fatti, insomma, dell’Invisibile, e la nostra vera forma sono i valori che incarniamo e viviamo, sono la verità, il bene e la bellezza da cui ci lasciamo attraversare e generare… E allora, come nel concetto orientale di karma, possiamo affermare che ogni nostro atto scolpisce la nostra essenza a livello profondo, lasciandovi tracce che, analogamente ai cerchi concentrici che segnano il tronco degli alberi identificandoli come un’impronta digitale, giorno dopo giorno, costruiscono il nostro destino. Come scrisse il grande filosofo Jacques Maritain nella sua analisi dell’Aldilà in Approches sans entraves, in un ipotetico Aldilà la nostra vera essenza sarebbe verosimilmente totalmente visibile, trasparente, fulgida, così da far coincidere, nel nostro aspetto o immagine, estetica ed etica, al di là di ogni dualismo, rendendo finalmente giustizia del nostro più autentico ed intimo vissuto. Saremo cioè, per usare un linguaggio kantiano, nella condizione noumenica ove virtù e felicità vivranno in perfetta proporzione e, per dirla con linguaggio cristiano, nella condizione ontologica della Grazia, cioè della piena partecipazione alla vita divina, che trasfigurerà ogni cosa nel segno della verità, della bellezza e del bene profondo.
Ma per cercare di renderci degni di tale prospettiva, allora, più che essere attenti ai segni della carne, o della terra, cioè della materia inerte, occorrerà prestare attenzione all’energia, agli affetti, ai sentimenti, alle emozioni, alla sostanza di cui sono fatti i sogni, per realizzare, giorno dopo giorno, armonia e pace come in una inedita Cerimonia del the, antico rito giapponese di ispirazione zen, suscitatore di ordine ed equilibrio: “E mi ostino a cercare/ lo sforzo che ripaghi/ di musica briosa/ e femminili archetipi./ Nello sbadiglio represso come/ nella cravatta annodata/ attendo la mia ricompensa./ La cerimonia del the/ deve essere impeccabile/ e solo allora svelerà/ i suoi segreti”. (C. Sottocornola, Cerimonia del the, in “Giovinezza… addio. Diario di fine ‘900 in versi”, Velar, 2008).
Che lo si chiami tao, logos, dharma, o agape/caritas poco importa: l’invito è il medesimo, a trascendere l’ordine della fattualità per addivenire all’ordine della libertà. Dove ci attende la trasfigurazione della gloria, di cui le star di questo mondo sono il fenomenico apparire e i santi il noumenico annuncio. Nel nostro rapporto con il Fondamento sta allora il gioco della vita, un palcoscenico dove i più grandi protagonisti, i migliori attori, non sono necessariamente quelli che interpretano i ruoli più importanti, perché la buona recitazione non dipende dal ruolo ma dalla bravura dell’attore, in cui risplende una intenzione del tutto trasparente a se stessa.
(da Claudio Sottocornola, Occhio di bue, Marna 2021, pp.176-182)