GIANCARLO BARONI
Il 1 marzo del 1922, un secolo fa, nasceva Beppe Fenoglio. Considero Una questione privata un capolavoro, uno dei migliori romanzi che io abbia letto. Su di lui scrissi anni fa questo affettuoso articolo che mi sembra ancora attuale e che perciò ripropongo.
Fenoglio occupa un posto d’onore nella letteratura italiana. Per comprenderne importanza e valore, si legga la pagina che Italo Calvino gli dedica nella prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno: «E fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava… e arrivò a scriverlo e nemmeno finirlo (Una questione privata), e morì prima di vederlo pubblicato, nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è…».
È stata un’esistenza travagliata, la sua: muore nel ’63 per un cancro ai polmoni, quando il successo letterario sta definitivamente per arrivare. Di condizioni familiari modeste – dell’asprezza del mondo contadino parla drammaticamente nel romanzo La malora – è dotato di un’intelligenza vivace che gli permette di frequentare il liceo classico di Alba e successivamente la facoltà di Lettere a Torino.
Fenoglio approfondisce continuamente lingua, cultura e letteratura inglesi che costituiscono un’autentica passione e uno dei temi più importanti della sua attività di scrittore, come testimonia il romanzo postumo Il partigiano Johnny. L’argomento principale della sua opera riguarda la sua esperienza di partigiano nelle Langhe, argomento che non cesserà mai di raccontare, approfondire, arricchire e modulare. Da tale vicenda storica e autobiografica, ricava spunti, fatti, personaggi, destini e significati, che inserisce dentro una dimensione parzialmente epica e filosofica.
A guerra terminata, Fenoglio inizia a lavorare in un’azienda vinicola di Alba, suo paese natale. È un impiego di responsabilità ma non particolarmente gravoso, che gli consente di dedicarsi alla narrativa. Riempie pagine di quaderni e taccuini, abbandona un racconto per iniziarne un altro che poi magari lascia inconcluso, traduce, annota, crea, progetta, compone, rielabora e lima. Il suo è uno sforzo incessante che il fumo delle sigarette accompagna e sostiene, proprio come gli innumerevoli caffè sostenevano a suo tempo i pressanti impegni letterari di Balzac.
A Fenoglio non basta scrivere, vuole farlo nel modo migliore, cura, corregge, affina e perfeziona le proprie pagine. Eloquenti, a questo proposito, la dichiarazione di poetica e la confessione contenute in un’intervista del 1960: «Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti».
Appartato, schivo ed estraneo ad ambienti e premi letterari, Fenoglio vive ai margini, distante dai centri che contano. Apprezzato da Calvino e Bertolucci, ha invece un rapporto contraddittorio e conflittuale con Vittorini. Nella prestigiosa collana einaudiana che dirige, quest’ultimo gli pubblica due libri, ma presenta il secondo di essi – La malora – con una nota critica colma di riserve e dubbi anziché di incoraggiamenti e lodi.
Fenoglio ci ha lasciato in dono una quantità considerevole di testi inediti, di cui esistono versioni, redazioni e stesure differenti. La lacunosità, l’incompiutezza e l’ambiguità che contraddistinguono inevitabilmente l’opera fenogliana pongono complicate questioni filologiche e danno origine a una molteplicità di interpretazioni. Si discute per esempio ancora attorno alla sorte toccata a Milton, il protagonista del capolavoro Una questione privata. La sua corsa estenuante, interminabile e disperata verso il bosco – episodio con cui si conclude il romanzo – mette in disaccordo critici e lettori: per alcuni quella corsa conduce l’eroe al riparo e alla salvezza, per altri alla morte da cui è impossibile fuggire.
Al magmatico corpus creativo e letterario di Fenoglio, per buona parte postumo e raccolto nei cinque densi volumi dell’edizione critica diretta da Maria Corti, continuarono fortunatamente ad aggiungersi brani ritrovati e scovati. È il caso degli Appunti partigiani, giovanile racconto resistenziale, stampato nel ‘94, vergato a penna e matita da Fenoglio su quattro taccuini di carta ordinaria.
A ottant’anni dalla nascita del loro estensore, uscirono le Lettere (1940-1962). È un epistolario formato di 91 missive– troppe purtroppo quelle andate perdute – che Luca Bufano ha riunito e commentato. Numerosi i messaggi spediti a Livio Garzanti e agli allora redattori e consulenti della casa editrice milanese Pietro Citati e Attilio Bertolucci. Più di un terzo del carteggio è tuttavia indirizzato ad Italo Calvino che di Fenoglio fu editor, estimatore ed amico.
Diverse anche le lettere, dall’intonazione scherzosa e confidenziale, rivolte agli amici d’infanzia e liceo. Struggente infine, nel suo assoluto pudore, il biglietto gonfio di tenerezza che Fenoglio ormai morente lascia alla piccola figlia Margherita:
«Ciao per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma e talvolta rileggi queste righe del tuo papà che ti ha amato tanto e sa di continuare a essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata e non devi pensare che ti abbia lasciata».
(L’immagine è una elaborazione dell’autore)