Quando si fa notte

Locri

Locri

CLAUDIO SOTTOCORNOLA

Mi risveglio, mi rivitalizzo e rallegro quando si fa notte. Incomincio a sentirmi sveglio, vigile, recettivo: di solito lavoro ai miei libri, scrivo articoli, programmo gli impegni, ascolto buona musica o leggo, ma soprattutto distillo quel che resta del giorno, come volessi emettere il famoso acuto finale a termine esecuzione. Da sempre ho anche amato uscire, quando si fa buio, per le vie del quartiere di Bergamo dove abito, e percorrere le strade che lo qualificano come naturale confine, terra di transizione, cerniera indeterminata e misterica fra città e campagna, terra dell’uomo e terra di nessuno. E respirare la notte che incombe, le strade deserte e perciò la vita che vi appare come residuo coscienziale di un vissuto amato, odiato, ripudiato e infine assimilato come mythos fondativo, il luogo o ambito, come voleva Raimon Panikkar, del sogno o del desiderio originario, dell’infanzia e del suo risvegliarsi alla vita introiettandone tutta la simbologia possibile, indelebile, arcaica, eterna come la definirebbe il filosofo Emanuele Severino, ma anche il Fellini de “La voce della luna”. Certo, il vecchio calzolaio, la coppia di anziani fruttivendoli o la lattaia operosa e stanca non ci sono più, mentre qualche immigrato è andato ad abitare cortili ormai riadattati alla contemporaneità. E la contemporaneità, per queste aree dismesse fra città e campagna, è desertica e quasi spettrale: nessuno attraversa più le vie o le piazze, se qualcosa risuona è l’eco di un programma mediaset da una vecchia finestra, o un odore di minestra sudamericana che attesta le nuove antropologie esistenti. Gli autoctoni diffidano, si chiudono, incarogniscono e abbandonano il territorio. In questi giorni ha chiuso l’ultimo giornalaio del quartiere, e una simpatica ditta di maghrebini ha aperto un negozio di alimentari. Divago, perché avrei voluto parlare della notte – il tema di queste fotografie che ho scattato in anni abbastanza recenti con un vecchio cellulare Nokia – sviscerandone tutto il fascino, tutta l’ebbrezza, tutta l’attesa che essa evoca e provoca in me, ma credo che dovrò senz’altro rinviare questa pretesa per mancanza di forze. Sto ultimando in questi giorni la chiusura di un impaginato consistente da inviare a stampa, in modo che un libro sul pop cui lavoro da anni possa uscire prima di Natale. E oggi è il 2 dicembre e ho fatto parecchio le ore piccole, in queste ultime settimane, per condurre il progetto in porto. Ma anche – non so perché – mi sono fissato con l’idea di fare uscire anche questa plaquette con delle foto che ho voluto salvare con tutte le mie forze dalla distruzione, visto che non risultavano più estraibili dal vecchissimo cellulare che mi ostino a non cambiare, riuscendovi infine solo grazie a un amico, tecnico del computer, che mi ha fatto utilizzare un costoso programma di invio mail per averne i file sul pc, ovviamente, quali sono, a bassissima definizione. Non potete immaginare la mia gioia nel vedere queste immagini sgranate, e per me sublimi, io che mi rifiuto di indossare gli occhiali al cinema per poter godere così di un’immagine meno nitida, io che odio l’alta definizione e l’iperrealismo di tanta arte contemporanea, e che qui, in queste foto, ho ritrovato davvero il mio mythos, la notte sì, con tutta la sua incertezza, indeterminatezza, vaghezza e vacuità declinata in tre distinguibili percorsi.

Il primo è Colognola, quartiere periferico di Bergamo, dove abito da sempre, Comune a sé dalle solide radici rurali fino agli anni venti del ‘900, ora parte di Bergamo con nuove aree residenziali colonizzate da nuovi abitanti, che vi abitano ma non vivono più il quartiere. La strada fotografata è all’estremo limite dell’area vecchia, cosparsa di villette anni ’60 e nuovi condomini. Ormai abitualmente deserta a quelle ore in cui le foto sono scattate, nel corso di una passeggiata quasi notturna, per me è carica di ricordi giovanili e d’infanzia: la scuola media, le passeggiate con mia sorella e col nostro cane, le processioni, l’osservazione adolescenziale dell’orizzonte, dei treni in transito e… perché no, dei possibili Ufo in avvistamento. Nella mia poesia “Anni ‘60”, parlo proprio di questa periferia come di un luogo mitico, di una “attesa totale”, un’area a margine e di confine da cui guardare il mondo, e forse il grande impero americano che ci faceva sognare. Il fatto di viverci da adulto, di non “essere andato via” – ora che il luogo si è umanamente desertificato – a me ricorda la categoria della “restanza” che Vito Teti, sociologo di Locri, evoca a proposito dei paesini calabri ormai abbandonati e popolati dai nuovi migranti, come condizione di un partenza più radicale, di un viaggio più ontologicamente irreversibile e in totale perdita, verso la propria appartenenza originaria, e che qui, a differenza che nel Sud, orgoglioso delle proprie radici, fa i conti con una indifferenza e un incarognimento diffusi.

Il secondo percorso riguarda il lungomare di Locri, nella Calabria jonica, dove  trascorro in genere le mie vacanze estive. Anche qui, vuoi per ragioni geografiche, vuoi per ragioni sociali e ambientali (il paese vanta un’aura di occulta nobiltà: pensate che negli anni ’60 c’era un treno Locri-Parigi!), oggi si vive un lento, inesorabile e pervasivo declino con strade dissestate e il chiudersi o esaurirsi delle principali attività ricreative, commerciali e balneari in genere, ma una popolazione magno-greca che resiste nei suoi epigoni, e dunque giovani e ragazze palesemente ai margini ma proprio perciò vogliosi di affermazione e riscatto, fra ingenui esibizionismi e speranze più o meno indeterminate di un futuro a venire. A me Locri ricorda l’infanzia, gli anni ’60, il calore della gente di quel decennio, che lì, in una sorta di viaggio à rebours riesco miracolosamente a ritrovare. Ma proprio grazie alla scabra semplicità dei luoghi, alla ruvidezza del suo assetto urbano, all’aura di declino nobile e meraviglioso che non cerca l’escamotage della tendenza o dell’autocitazione. Anche qui tutto è in perdita… e come tale tutto è gratuito, pura esistenza, sublimazione assoluta.

Infine, la sezione “Dalla finestra” riguarda alcuni scatti tardo-serali o prenotturni, dopo una qualche partita di calcio vinta dalla nazionale (quale non so), col conseguente dilagare di auto festanti per la strada parallela a casa mia (una provinciale, e dunque molto trafficata). Io, dalla finestra del mio studio, col solito cellulare, ho scattato le foto di auto e fari in movimento e, vedendole, le ho poi trovate evocative di quel divenire che più sembra contrapporsi alla ieratica immobilità urbanistica di Colognola e Locri delle due serie precedenti, ma in realtà sono l’altra faccia della stessa medaglia: rappresentano involontariamente (o forse no?) il samsara (per le religioni dell’India, la giostra del divenire che cela la vera realtà), a fronte del dato che tale giostra di clacson e carosello di auto lascerà del tutto inalterata la condizione di immobilità delle esistenze che torneranno il mattino seguente alla loro quotidianità, alla medesima routine di sempre. Proprio per la dimensione metafisica di questa percezione, alcune immagini di questa serie sono presentate in modo realistico, e cioè per  lo più in verticale, mentre altre, dato che mi interessava sottolineare di più il gioco, l’atmosfera turbinosa del carosello di luci e di clacson immaginati, sono presentate in orizzontale, a significare il tourbillon di una vita che smemorandosi in realtà si afferma, dunque si presentano più come composizione astratta, di cui potrebbe ricostruirsi – ma non è necessario – il contenuto realistico. Qui il mio è un po’ il guardare e il partecipare da una condizione quasi privilegiata, di straniamento o distanziamento, ma anche occultamento, che consente di vivere il brulicare della vita, senza restarne impigliati, e dunque, ancora una volta, assumendo il privilegio del margine, o del confine, del limitare, come condizione salvifica, rigenerante, direi di travalicamento virtuale verso un ulteriore.

Tutto il percorso ha dunque a che fare con quello che nell’eventuale sottotitolo alla serie declinerei come: notte, abbandono, periferia, evasioni, margini. Sappiamo che da Heidegger alla mistica di svariate tradizioni spirituali la notte, come luogo dell’assenza, è anche il luogo in cui si fa esperienza di una trascendenza del desiderio che, in ultimo, dovrebbe condurre all’esperienza del sublime, come smisurata grandezza del senso o significato rispetto a quel tutto   che ci sovrasta, ma che noi riusciamo a relativizzare – specie nell’assenza o povertà dei segni – e, dunque, a trascendere come libertà. Questa differenza che Kant formalizza fra sentimento del bello (armonizzante, immanente) e sentimento del sublime (distorcente, inquietante, che prima allontana  e poi attrae, ma alla fine introduce più radicalmente nell’ambito noumenico o della libertà) mi vede decisamente assimilato alla seconda opzione anche in ambito estetico. Preferisco il dissonante, l’asperità, la non evidenza, e dunque la notte, alla levigata evidenza della forma compiuta e riconoscibile dall’universo mondo o mainstream diurno.

Notte, abbandono, periferia, evasioni, margini… Il luogo del possibile come luogo della libertà…

(da Claudio Sottocornola, Mythos, CLD 2021)

Colognola

Colognola