GABRIELLA MONGARDI
Ivo Bruschi, pur essendo nato a Pistoia (nel 1943), ha sempre vissuto in Piemonte e ha sempre disegnato e dipinto, benché per mestiere facesse altro. Questo gli ha permesso di dedicarsi alla pittura come a una vocazione da coltivare in assoluta libertà, al di fuori di scuole, mode, correnti o… mercati. Nella sua ricerca di una vita appartata, quasi nascosta, da circa trent’anni si è stabilito a Clavesana (CN) in frazione Ghigliani – una manciata di case intorno a una chiesa, alte sulle colline delle Langhe a dominare il corso del Tanaro, la sconfinata pianura, il ventaglio delle Alpi – un paesaggio di inesauribile bellezza, in continuo mutamento, di cui un pittore non poteva non innamorarsi.
I suoi quadri sono la testimonianza di quest’amore, e insieme della ricchezza e profondità di uno sguardo d’artista, a cui il paesaggio dà emozioni sempre nuove, in ogni ora del giorno, in ogni stagione dell’anno. E se l’artista è un pittore, allora non sarà mai stanco di fissare sulla tela quel paesaggio, quei fiumi, quelle colline – come Cézanne il Mont St.Victoire – nella variabilità della luce, dei colori, delle linee, nei suoi palpiti, nelle sue infinite sfumature.
Che dipinga su tela o masonite o sui coperchi delle cassette di legno portabottiglie, il soggetto di Bruschi è uno solo: il paesaggio di Langa, contemplato insaziabilmente e “catalogato” con estrema precisione. Ogni opera infatti è accompagnata non da un titolo, ma da una vera e propria didascalia, che indica il luogo riprodotto e la stagione, oltre all’anno del dipinto. In questo modo l’insieme dei quadri di Bruschi viene sì a costituire una sorta di “diario” della sua attività, ma ancor di più una “mappa poetica” di quelle colline racchiuse tra Tanaro e Belbo – soprattutto, rappresenta il tributo di un uomo alla toccante bellezza di un paesaggio indubbiamente modellato dall’uomo agricoltore, ma da cui il pittore preferisce espungere i segni più “ingombranti” della sua presenza, quali case, paesi, chiese, cappelle, castelli, che pure nelle Langhe abbondano, ma evidentemente lo lasciano freddo, perché è più interessato al non-umano, al rapporto tra io e non-io.
Non è il réportage di un “viaggio in Langa” né un documentario antropologico quello che lui vuole realizzare: è la natura, per quanto antropizzata, a sedurlo – le geometrie infuocate delle vigne d’autunno, i contrasti di neve e ombra che segnano le colline in veste invernale, l’esplosione dei colori dei campi a primavera, i giochi della luce estiva tra i calanchi che si specchiano nel Tanaro o i suoi brividi nel cuore dell’inverno, lungo il Belbo a San Benedetto.
Le sue “vedute” di Langa sono in un certo senso analoghe a quelle del vedutismo settecentesco: come Canaletto ritraeva scorci veneziani con assoluta aderenza alla realtà lagunare, così il paesaggio di Langa è qui riprodotto nella maniera più fedele possibile, e al pennello viene richiesto di definire nettamente i contorni, i volumi, le masse che l’occhio del pittore contempla con devozione intensa ma distaccata, da una posizione esterna e “rispettosa”, mettendo a tacere la propria soggettività.
Bruschi non è un artista sperimentale, irrequieto, in perenne ricerca di soluzioni, materiali e strumenti espressivi nuovi: la sua “monotonia” nei temi e nelle tecniche (usa prevalentemente colori a olio e matite) rimanda al privilegio che G. C. Argan attribuisce a un classico, ossia un «sicuro e sereno possesso di una visione unitaria del mondo» – perlomeno, per l’unità di tempo e luogo e azione in cui si è collocato, per il genere classico della “pittura di paesaggio” in cui le sue opere inevitabilmente rientrano. Ma al di sotto del realismo quasi “fotografico” della raffigurazione, si avverte la tensione tra mutamento e immutabilità, permanenza e impermanenza: le vistose mutazioni stagionali del paesaggio intorno a noi, nella loro ciclicità, non scalfiscono per noi la sostanziale “stabilità” dei referenti naturali – montagne, colline, fiumi, perché «sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star» (G. Leopardi, La ginestra, vv.292-294); ma alla permanenza della natura si oppone inevitabilmente l’impermanenza dell’uomo, come singolo e come specie, e a questo si ribella l’arte, che è sempre «una rivolta al reale in ciò che esso ha di fuggevole e di incompiuto», è sempre un tentativo di fermare il tempo.
Molti dei suoi quadri raffigurano una strada campestre che si perde tra le colline o serpeggia lungo il Tanaro in una luce radente – impossibile non farne un simbolo, non scorgervi un invito ad andare oltre la semplice, affascinante nitidezza del quadro “naturalistico”, verso una meditazione filosofica sulla vita e il senso del nostro essere al mondo. Questo ci insegnano i quadri di Langa di Ivo Bruschi.
(da PORTI DI MAGNIN, maggio 2022)