DINA TORTOROLI
Nell’ Introduzione del volume Lettere d’amore, Ida Ferrero – attingendo le notizie dalla biografia Mirabeau di Louis Barthou – ci informa che Maria Teresa Sofia Richard di Ruffei e Gabriele Onorato Riqueti conte di Mirabeau s’incontrarono per la prima volta il 25 giugno 1775 in occasione delle feste per l’ascesa al trono di Luigi XVI a Pontarlier (piccola città della Francia orientale, nelle cui vicinanze sorge il Fort de Joux, in cui nel 1775 era stato trasferito Mirabeau, dal château d’If, dove era stato rinchiuso nel 1774 in seguito a una lettre de cachet del padre).
Lei aveva ventun anni e a diciassette aveva sposato il settantacinquenne marchese di Monnier; lui aveva ventisei anni, era sposato dal 1772, ma anche il suo era “un matrimonio malassortito”.
Il prigioniero Mirabeau, che riusciva sempre a conquistare con la propria “eloquenza suggestiva” coloro che erano preposti alla sua guardia, aveva ottenuto dal governatore del castello di Joux il permesso di risiedere in una casa di Pontarlier, e nel 1776 lui e Sofia divennero amanti e decisero di fuggire per sottrarsi alle minacce dei familiari.
Dopo un breve soggiorno in Svizzera, trovarono rifugio in Olanda, ma il 14 maggio 1777 furono arrestati dall’ispettore di polizia Brugnières, ad Amsterdam, dove vivevano sotto falso nome dal settembre dell’anno precedente.
Lei era accusata di adulterio, lui di rapimento e seduzione.
La loro estradizione era stata ottenuta dal padre di Gabriel, accordatosi con i Ruffei.
Arrivati a Parigi, i due amanti furono ospitati nella casa dello stesso Brugnières, che, “commosso fino alle lacrime dall’amore dei due giovani e dalla loro disperazione”, scriveva al luogotenente generale della polizia, signor Lenoir, che assumeva su di sé la responsabilità di non condurre la marchesa de Monnier a Santa Pelagia – casa di espiazione delle prostitute – come avrebbe dovuto, e che attendeva nuovi ordini.
Prosegue Ida Ferrero: «Mirabeau fu imprigionato nella torre del castello di Vincennes [poco a est di Parigi], mentre Sophie, le cui condizioni [di donna gravida] e la cui rassegnata dolcezza avevano commosso il signor Lenoir, fu ospitata in una casa di correzione tenuta dalla signorina Douay, in via Charenne [a Parigi], di dove, pochi mesi dopo la nascita della sua bimba, passerà nel convento di Santa Chiara, a Gien.
Per fortuna la causa così disperata dei due amanti trovò complici inaspettati nel signor Lenoir e nel suo agente Boucher che, framassone e letterato come Mirabeau, subiva ancor più facilmente il fascino del suo strano prigioniero. Nei primi tempi il principale alleato dei due amanti fu proprio quell’ispettore di polizia, Brugnières, che li aveva arrestati, il quale li visitò e s’incaricò di recapitare le lettere che i due giovani si scambiavano per dirsi il loro amore e la loro angoscia; poi il signor Lenoir volle essere ancor più generoso e, sul finire del 1777, l’Uragano [soprannome attribuito a Gabriel da suo padre] e Sophie furono autorizzati a corrispondere […] per il tramite del luogotenente, che leggeva o faceva leggere dal suo agente Boucher le lettere, per cancellarne le espressioni che avrebbero potuto nuocere ai due infelici e poi le faceva pervenire a destinazione, di dove, però, dopo essere state lette e meditate, dovevano tornare all’ufficio del luogotenente. Si venne così svolgendo tra il convento e la torre di Vincennes una corrispondenza attiva, appassionata, eloquente, in cui ritornava spesso il nome del signor Lenoir accompagnato da benedizioni, e quello di Boucher, designato di solito col nome di Buon Angelo, la cui bontà aveva conquistato la riconoscenza e l’amicizia dei suoi infelici protetti.
Questa corrispondenza non era affatto destinata alla pubblicazione; infatti Mirabeau ancora rinchiuso a Vicennes e ignaro di quando sarebbe stato libero, avendo avuto il sospetto che qualcuno, forse la sorella, marchesa di Cabris, ormai diventata sua implacabile nemica, avesse intenzione di pubblicarle, scriveva all’altra sorella, la signora di Saillant: “Sono minacciato e ricattato ancora: esseri infami che infestano le strade di Parigi, mentre tanti galantuomini gemono a Bicêtre [carcere, situato nei sobborghi meridionali di Parigi] o sulle galere, si vantano apertamente di far stampare la mia corrispondenza con l’infelice vittima del mio amore! È un colpo tremendo e, se potrò sopravvivere, sarà soltanto per farne le vendette anche a costo della vita!”.
Le lettere però non furono pubblicate allora, ma soltanto nel 1792, l’anno dopo la morte di Mirabeau: il procuratore del Governo di Parigi [nel 1791], Pierre-Louis Manuel, le ritrovò nell’archivio della Bastiglia, rimasto salvo per miracolo dalla furia distruggitrice del 14 luglio 1789 e le pubblicò non si sa se per desiderio di lucro, speculando sul tragico amore dei due amanti o per fornire all’esame dei critici materiale per lo studio della complessa personalità del morto tribuno» (Mirabeau / Lettere d’amore a c. di Clara e Ida Ferrero, Torino, UTET, 1954, pp. 17-19).
Si tratta di un materiale esorbitante, perché Mirabeau è ossessivamente intento ad analizzare se stesso e la propria situazione, e poter avere scambi epistolari – lo ripete con enfasi – gli «permette di vincere la disperazione».
È indotto, quindi, ad apprezzare ogni giorno di più le rare qualità d’animo del benefattore Lenoir, e ripetutamente egli invita Sophie a riflettere anche sulla lotta interiore che il rigoroso magistrato deve ingaggiare con se stesso, se vuole essere umano: «Ahimè, ahimè! che almeno coloro cui dobbiamo tutto, non rimpiangano i moti di pietà che li hanno spinti ad agire in nostro favore».
«L’ho visto quell’uomo che amo e che bisogna che tu pure ami […]. È persino curioso osservare la lotta tra la discrezione che il suo ufficio esige e la franchezza della sua anima piccarda, che vorrebbe espandersi per rispondere alle effusioni di un infelice. O voi che la natura ha creato buoni, perchè vi vergognate di essere umani? Perché frenate i moti dell’animo?».
«Vidi il signor Lenoir il 25 maggio e, come puoi pensare, anche il signor Boucher. Il signor Lenoir mi è parso più amabile che mai, voglio dire che non avevo ancora mai visto la sua fisionomia così serena, né sentito da lui nulla di più affettuoso. Andava a Nogent, da sua figlia ed ebbe la bontà di dirmi che non era venuto a vedermi in qualità di magistrato. Ah! Qualsiasi titolo egli prenda, è e sarà sempre il mio benefattore e questo titolo è il primo di tutti» (Lettere d’amore, pp. 265, 278, 299).
Le accorate considerazioni di Mirabeau restano impresse.
Nonostante io le avessi lette molti anni prima del “rintracciamento” della commedia La Bastiglia, ascoltando lo sfogo «a parte» del Governatore della prigione («Quanto trafitto io son! Giammai pentirmi / Potrò d’aver usato con entrambi / Dell’indulgenza a rischio di me stesso. / Il Governo mi vuol crudo e severo. / L’esser clemente fia dunque delitto?») ebbi immediatamente la sensazione del déjà-vu, del déjà vecu: un fenomeno che, però, non durò soltanto pochi istanti né derivava da un’erronea sensazione.
Al contrario, il “forte senso di familiarità” con la vicenda di Mirabeau persiste a mano a mano che l’azione teatrale progredisce: il Governatore della Bastiglia si dimostra sensibile quanto il Signor Lenoir, proponendo a Roberto il privilegio di scrivere all’amata («Non temere, Roberto. È già vicino / Un cambiamento fra i Ministri, e allora / Nulla intralascierò per la tua pace, / Per la tua libertà. Se mai potessi / Ottenere, che scrivere tu possa / All’Amante, e saper, se è ancor la stessa? / Avremmo vinto assai, non disperare»); e proprio come Lenoir egli è doppiamente ammirevole, perché non rinuncia al dovere della solidarietà, che la sua retta coscienza gli detta, ma si dimostra altresì devoto alla legge.
A Enrichetta, la nipote di Riccardo, che chiede la grazia di poter abbracciare lo zio, risponde, infatti: «Madamigella, / Scusatemi, non posso…». E poiché il medico De La Raison interviene, facendo appello all’amicizia che li lega, il Governatore aggiunge: «Voi potete dispor di me e di tutto. / Ma servirvi non posso, Amici, in questo / Senza mancar al mio dovere, e forse / Arrischiar sin la vita. Egli fa d’uopo / Ottenere tal grazia dal Governo. / Questo facil vi fia. Se tal licenza / Io m’arrogassi, guai se si sapesse…».
A Enrichetta e a suo padre sfugge la nobiltà del discorso ed entrambi si impegnano a non parlare, pertanto il Governatore deve ribadire il principio che gli sta a cuore: «Voi sapete / Meglio di me dell’onestà le leggi. / Tal cosa m’è vietata espressamente / Dal Re, dal Ministero. Altro non posso, / Che procurarvi l’Ordine, e introddurvi / Presso il Ministro».
Insomma, non è un azzardo affermare che anche alla personalità morale del “Governatore” si attagliano i versi celebrativi che Mirabeau, in una sua lettera, chiede all’amante di trascrivere sotto un ritratto a stampa del signor Lenoir: «Son âme est bienfaisante et son coeur est sensible; / Son ésprit vaste, actif, sa justice inflexible. / Magistrat révéré dans des temps orageux, / Lenoir sut allier la prudence au courage, / Un devoir trop sévère et des soins généreux, / Les talents d’un ministre et les vertus d’un sage. […] Il suo animo è benevolo, il suo cuore è sensibile, viva la mente e aperta, la sua giustizia inflessibile. Magistrato onorato in tempi burrascosi, Lenoir seppe unire la prudenza al coraggio, il suo austero dovere a impulsi generosi, le doti di un ministro alle virtù del saggio» (Lettere d’amore, p. 203).
È quindi evidente che le incessanti “citazioni” dell’Imbonati non equivalgono a reminiscenze erudite.
Si tratta di una questione di “obiettivi”: nella commedia La Bastiglia ogni rimando vuole realizzare una messa a contatto con il mondo reale.
Tanto è vero che anche le due coppie di protagonisti Eugenia/Roberto e Sophie/Gabriel hanno i medesimi comportamenti e rivelano caratteri omologhi.
Come Sophie, Eugenia è «forte, energica, risoluta», ma anche «dolce e indulgente» e disposta al sacrificio.
Ida Ferrero riferisce gli appelli disperati di Sophie a Gabriel: «… se non scrivi, se non ricevo più lettere tue, non rispondo di nulla… te l’ho detto mille volte, non sopravvivrò né a te né al tuo amore… Non riceverò dunque mai il segnale della partenza?».
Quando finalmente lui la sollecita a raggiungerlo, una notte, «vestita da uomo, Sophie scavalca il muro del giardino della sua casa, fugge attraverso la montagna scortata da due suoi fidi e raggiunge Verrières l’amato» (pp. 13-14).
Ebbene, sollecitata da Roberto a svelare il proprio stupefacente operato, l’angosciata Eugenia rievoca la notte precedente la data in cui avrebbe dovuto arrendersi alle “brame” del fratello, di concederla a un suo “compagno di traffico”, e dice: «Col fido servo perigliosa fuga / Io presi, e venni disperatamente / Sino a Parigi di te solo in traccia. / Sono tre giorni, che qui son, Roberto. / Incostante credea di ritrovarti, / Ma invece seppi, ch’eri sventurato. / Tutto azzardai per liberarti. Oh Dio! / Ma tu non sai cosa mi costi».
E all’amante che le chiede di intercedere presso il Ministro Rosbak, per ottenere la libertà anche di Riccardo, risponde: «Sì: voglio adempiere / Alle tue brame tutte. Esser non voglio / A te ritrosa; ma saprà la morte… (con fermezza) […] Compiacerti / Io vuò, Roberto; Ma tu ben non sai / Qual sacrifizio esiga dall’Amante/ la tua virtù, la tua riconoscenza» […] «Roberto, tu già sai, ch’io son disposta / Ad obbedir ad ogni tuo Comando».
Infine, non può passare inosservato il fatto che entrambe le eroine delle due storie parallele siano in confidenza col veleno e abbiano disposizione al suicidio.
Scrive Sophie: «Si tu veux que je retourne chez M.r de Monnier, je le ferai, mais empoisonnée, afin d’y arriver morte ou mourante» (Se tu vuoi che io ritorni presso il Signor de Monnier, lo farò, ma avvelenata, per arrivarvi morta o morente).
Ed Eugenia, prima di bere il veleno che teneva in tasca, in una boccetta, esclama: «Si finisca una volta di penare… / L’esistere così m’è tanto odioso… / Che assai più volentier scelgo la morte».
Quanto ai protagonisti maschili, di Roberto si sa fin dalle prime battute che ha l’anima “lacerata” dall’amore e dalla gelosia: «Mi basta sol sapere, / Se Eugenia m’ama: s’ella vive ancora. […] Sì, questa sola è la maggior mia pena. / Sa il Ciel, s’ella ancor m’ama, o s’ella forse / A me più pensa, o se il crudel Fratello / L’abbia forzata a dar la destra a un altro. / E chi mai fia quel felice mortale, / Che della sì indicibile bellezza / Goda d’Eugenia? Ah questo sol riflesso / Accresce più la mia disperazione. […] Eugenia oh Dio! Pensi tu forse a me? / Siccome a te io penso». Proprio come Gabriel Mirabeau, che scrive a Sophie: «Credo che tu possa e debba perdonarmi i sospetti derivanti unicamente dalla modesta opinione che ho di me e della mia stella, e dalle male arti dei miei nemici. […] Un solo dolce sguardo che ottenesse da te un essere del mio sesso mi getterebbe alla disperazione» (pp. 31, 32, 34)
Infine, è molto importante evidenziare che la “seconda realtà” messa in scena dall’Imbonati è fedele a quella effettiva, anche quando sembrerebbe non solo incredibile, ma assurda (“priva di senso comune” secondo l’abate Pagnini), come nel caso del Governatore di una prigione di Stato, disposto a trasformare in Loggia una sala del proprio appartamento e a presiedere notturne sedute con prigionieri.
Infatti, Mirabeau scrive a Sophie: «Comment, tu hais les francs-maçons qui me gardent jusqu’à trois heures du matin? […] Haïs de tout ton Coeur le bon ange: il est franc-maçon» (Come, tu detesti i massoni che m’intrattengono fino alle tre del mattino? Odia con tutto il cuore il buon angelo: è massone).
Il “riuso” delle parole di Gabriel Mirabeau è dunque indubitabilmente programmatico: Gio. Carlo Imbonati “autore” teatrale vuole essere “promotore” di un messaggio.
Ma quale messaggio?
Faccio questa domanda a me stessa e mi accingo a una nuova ricognizione, affrontata più pensosamente, degli studi di Gian Mario Cazzaniga e Daniele Menozzi su Mirabeau e alla lettura delle opere giovanili di quel “lavoratore forsennato”.
L’epilogo della Commedia, che diverge clamorosamente dalla situazione reale dell’“Uragano” – nel 1779 ancora rinchiuso nel donjon de Vincennes – mi suggerisce, infatti, di valutare adeguatamente il fatto che «nonostante il proprio dissennato comportamento e la conseguente situazione ora di fuggiasco ora di prigioniero, Mirabeau era riuscito a conquistarsi la fama di coraggioso “Philosophe patriote”» (Daniele Menozzi).