LAURA BONFIGLIO
Ti Jean, così lo chiamava la madre e così si firmava Jack Kerouac.
Lo scrittore americano diventato famoso per il romanzo On the road nacque a Lowell, Massachusetts, il 12 marzo 1922; pertanto è un altro grande centenario che voglio ricordare oltre a quello di Beppe Fenoglio, Pier Paolo Pasolini e Luciano Bianciardi.
Quando arrivò in Italia nel 1966 rimase solo per settantasei ore; venne invitato da uno dei suoi editori italiani per reclamizzare Big Sur che usciva nella collana della Medusa. Accettò perché aveva bisogno di ottocento dollari per pagare l’affitto e le spese mediche della madre.
Al suo arrivo, telefonò a Fernanda Pivano e disse: “Sono Ti Jean e voglio venire da te”. Era disperato perché i funzionari della casa editrice, dopo che si presentò ubriaco, gli fecero un’iniezione di morfina e gli rinfacciarono i mille dollari; a casa della scrittrice si sentiva al sicuro e avrebbe evitato che gli somministrassero altri farmaci.
Racconta la Pivano che era seduta vicino a Jack Kerouac e si vergognava come una ladra, lo guardava come si guarda un leone ferito, in trappola, lui che era stato il suo eroe, come Fitzgerald. Parlarono di molte cose, di cosa vuol dire essere antifascisti, di voler abbattere i confini delle loro rispettive famiglie e Jack le disse che gli restava solo la madre, gli altri erano tutti morti; raccontò che era molto allegra, era Iroquois, lui quindi era mezzo indiano.
La sera in televisione disse che i neri rappresentavano il futuro dell’America e che i suoi scrittori preferiti erano William Burroughs, Gregory Corso ed Allen Ginsberg, di cui però aggiunse che era un idiota ad andare in giro nudo.
“È il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova, folle avventura sotto il cielo. Perché ci sono troppe cose che mi piacciono e mi confondo e mi perdo a correre da una stella cadente all’altra fino allo sfinimento.”
Questo scriveva Jack Kerouac nel grande romanzo autobiografico On the road, e probabilmente a parlare era la sua parte indiana.
Questo romanzo lo portò al grande successo, successo che non riuscì mai a gestire.
Sono passati cent’anni dalla sua nascita ma è ancora cosi moderno!
Pubblicato nel 1957 con il titolo originale On the road, il libro parla di una serie di viaggi che lo scrittore affrontò in giro per gli USA e il Messico. Un racconto emozionante in cui il viaggio si fa metafora di vita.
Quando lo scrive sta vivendo in un periodo storico di apparente serenità: la seconda guerra mondiale è finita da poco, il mondo si prepara ad una rinascita e i giovani lottano perché vogliono più libertà e diritti per tutti; in questo clima il ventinovenne Jack si mette in viaggio e conoscerà l’avventura, l’amore, la spregiudicatezza, le droghe, il sesso. Un viaggio che, oltre ad attraversare gli Stati Uniti in lungo e in largo, rappresenta il viaggio interiore del protagonista.
Scrive il romanzo in poco più di 3 settimane, su un rotolo di carta per telescrivente lungo 36 metri.
“Poi venne la primavera, il momento migliore per viaggiare e tutti nella banda dispersa si preparavano a questo o quel viaggio. Io lavoravo assiduamente al mio romanzo e quando arrivai a metà mi preparai ad andare ad ovest per la prima volta.
Correvamo insieme per le strade, danzavamo come pazzi ed io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessavano.
Consumammo in fretta un pranzo di addio a base di fagioli e salsicce poi Dean salì sull’autobus con la scritta Chicago e sparì nella notte. Mi ripromisi di seguirlo quando la primavera fosse sbocciata.”
Così comincia l’avventura di Jack Kerouac sulla strada, un ragazzo che non sente la paura perché è diventato qualcun altro, uno sconosciuto, a metà strada tra una costa e l’altra, tra l’east della giovinezza e il west del futuro, diventando il portavoce di una gioventù che ancora oggi lo ama.
Mentre scrivo sento il suo sguardo potente emergere dalla copertina de I capolavori di Jack Kerouac che ho appena finito di rileggere; osservo la sua bellissima faccia, frutto di incroci tra ceppi umani diversi, di quel sangue del nonno capo indiano da cui discendono i Mohicani. Sarà una coincidenza ma in questo momento, dalla TV accesa in cucina, mi appare Papa Francesco; è in Canada e sta indossando un copricapo che un nativo gli ha appena donato.
La nostra società postmoderna sembra per alcuni versi rivolta al passato, senza futuro, e il gesto di Bergoglio che chiede la riconciliazione con le tribù native del Canada fa ben sperare, anche se potrebbe non essere sufficiente.
Intanto un anziano capo di una tribù indiana sta facendo un rito di purificazione e di comunicazione con la saggezza del cuore.
E dalle pagine de I vagabondi del Dharma arriva una folata di aria fresca in questa torrida estate.