SILVIA PIO
La mattina che seppellirono suo marito dovettero venire in quattro a scavare perché la terra era dura come il marmo. Lui era morto da due giorni; il sutrau, il becchino, aveva voluto aspettare sperando in un po’ di sole che ammorbidisse il lavoro. Ma cominciò a cadere la neve. Allora disse che dovevano sbrigarsi prima che oltre al terreno ghiacciato si fosse dovuta spalare anche quella.
Così erano in cinque al corteo funebre, il sutrau, i suoi tre amici dell’osteria, e lei. Il bambino non conta perché aveva pochi mesi e non era che un fagotto dentro ai suoi vestiti spessi. Dormì per tutto il tragitto dalla casa al camposanto, una carrareccia in discesa che attraversava un pezzo di bosco. Iniziò a piangere alle prime badilate e, visto che il lavoro andava per le lunghe, lei si sbottonò l’abito per dargli il seno. Iniziò a sentire gelo in ogni sua fibra, o forse era anche perché non aveva più scaldato la casa fintanto che non fosse stata sicura di poter seppellire il marito.
Era caduto dal tetto di una cascina che stava cercando di riparare. L’avevano portato i padroni, puntualizzando che non avrebbero pagato il lavoro perché non era stato finito. Ha occupato così da morto quel letto sul quale poco si era steso da vivo.
Qualcuno era venuto dal paese per una visita di circostanza, ma nessuno per il misero corteo verso il cimitero: il gelo e la neve avevano costituito una buona scusa.
Non erano stati compresi nel borgo di poche case intorno alla chiesa. Erano stranieri, arrivati da una terra così difficile che questo paese contadino sembrava un bengodi. La loro storia non era proprio come si credeva. Non cercavano fortuna ma erano scappati in fretta dopo che le nuove frontiere erano state segnate, e una serie di fatalità li aveva portati là dove nessuno sapeva o capiva chi fossero. Sembravano dei miserabili incapaci di trarre dalla terra quel che ci voleva per sopravvivere, dei fannulloni inabili ai lavori che tutti in paese facevano da sempre. Non possedevano che due casse di libri, una radio e pochi spiccioli, con i quali avevano faticato a prendere in affitto la stamberga ai confini dell’abitato, vuota da anni e malridotta.
Erano stati professori d’università, ma non osarono mai dirlo; ecco spiegati i libri e l’attesa delle notizie alla radio.
Il marito accettava qualsiasi lavoro che si presentasse, non riuscendo a mantenerne alcuno. La moglie si era ingegnata nel rammendo, che le riusciva bene e le dava il guadagno necessario per comprare ciò che serviva. Il bambino era nato l’anno dopo il loro arrivo. Poco più di un anno, quindi, era durata la loro permanenza: un periodo troppo breve perché il paese potesse accoglierli, troppo lungo perché sperassero ancora di andarsene.
Poi quelle urla nella casa vicina, i tonfi sulla porta e quel corpo molle che lo schianto a terra aveva trasformato in un burattino senza vita. Il prete con l’influenza non riuscì a celebrare il funerale, il sutrau dichiarò che la terra era troppo dura e il corpo rimase nel letto freddo per due giorni. Poi la neve affrettò le cose.
All’arrivo dal cimitero la nevicata si era ormai girata in tormenta e il bambino si era riaddormentato. Accese la stufa sperando di togliersi da dentro quel gelo che l’aveva indurita come la terra. Febbre e delirio iniziarono a sera.
Da quel momento sfumano i ricordi, come quando d’autunno scende la nebbia e le colline di fronte si possono soltanto immaginare. Lei immagina che la vicina – brava donna – sia venuta a vedere, attratta dal pianto del bambino. Che abbia chiamato il medico e l’abbia pagato con i soldi che nascondeva al marito quando andava al mercato a vendere il formaggio. Che abbia tenuto il bambino a casa sua. Immagina che il medico l’abbia portata all’ospedale con la sua automobile e con una diagnosi di polmonite.
I primi ricordi nitidi risalgono a un mese dopo, quando riceve la visita di quella stessa vicina che le porta il figlio e lui non la riconosce.
La brava donna le dice che ora non può più occuparsi del bambino, che il marito si lamenta per la bocca da sfamare, che di bocche ne hanno già ma quel che manca sono le braccia da lavoro.
Si tiene il bambino nel letto per farlo riabituare a lei. Cosa mai potranno fare loro adesso? La prospettiva della stamberga al paese le fa ritornare il freddo dentro.
Nella camerata d’ospedale ci sta una giovane che le parla del viaggio sull’oceano, verso una terra che sembra attendere e accogliere tutti. Un cugino ci è andato qualche mese fa e la sua prima lettera era piena di buone notizie, tanto che tutti lo invidiavano e qualcuno in famiglia pensava di seguirlo. È facile, basta unirsi a quelli che tutti i giorni partono per il porto e avere quei due soldi per pagare la terza classe. È tutto organizzato, sono in centinaia ad andare.
Così le viene l’idea. Che ha da perdere? Che ha da offrire suo figlio?
Per essere stranieri qui tanto vale esserlo dove c’è un futuro.
Non era stato proprio facile come l’aveva prospettato la giovane all’ospedale. Avevano dovuto aspettare la fine dell’inverno, ma nel frattempo lei aveva fatto qualche lavoretto con più successo del marito. Poi il viaggio a piedi era durato in eterno, e la compagnia non era proprio raccomandabile. Ma erano arrivati al porto e si erano infilati nello stuolo di miserandi, come loro, che fuggivano da qualcosa.
Eccoli tutti e due sul bastimento, su quest’acqua che si muove e sembra non finire mai. Senza la terra sotto i piedi, soprattutto quella terra. L’acqua che lava, fa dimenticare, conduce verso una terra nuova.
(Illustrazione di Franco Blandino. China, matita, calce su carta riciclata.)