Perché abbiamo perso la gioia

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CLAUDIO SOTTOCORNOLA 

“Quella voglia, la voglia di vivere/ quella voglia che c’era allora/ chissà dov’è! Chissà dov’è!?// Che cosa è stato cosa/ è stato a cambiare così/ mi son svegliato ed era tutto qui…” (Liberi… liberi, Vasco Rossi-Tullio Ferro, 1989). Anche Vasco, in questa sua celebre canzone-simbolo, sembra associare l’idea di una intensità di vita, e di una condizione esistenziale migliore, alla giovinezza, secondo un topos diffuso in tutti i tempi, ma credo che oggi questo assuma un significato epocale ben più profondo e radicale. La generazione cresciuta fra gli anni ’50 e ’60 del ’900, ad esempio, appare disorientata e depressa rispetto all’affermarsi di nuove antropologie, che si nutrono di edonismo, efficientismo e cinismo, ove prevale, anche nei rapporti umani, un impeccabile e spregiudicato opportunismo di maniera, che sembra caratterizzare la generazione adulta dei professionisti rampanti uscita dagli anni ’80 ma anche i più giovani. Non rispondo al cellulare e alla mail se non mi conviene; sarò splendido con te se mi torni utile, altrimenti non ti intercetto… È vero, gli esseri umani hanno sempre avuto uno spiccato senso di ciò che conviene o meno, ma oggi questo – in assenza di qualsiasi ulteriore riferimento rispetto al sé – è divenuto il paradigma dominante. E quando le relazioni divengono ininfluenti e opportunistiche come oggi noi sperimentiamo la depressione e la tristezza, l’insignificanza esistenziale e morale. Da dove è partito tutto ciò? Come è tramontata l’antropologia del dovere, della solidarietà e della misericordia, della compassione e dell’aiuto reciproco, più in generale del riconoscimento dell’altro come ineludibile correlato dell’esperienza? Come è accaduto che oggi ci uniscono solo le grandi tragedie collettive rimandate dai media (sia pur temporaneamente ed epidermicamente), mentre ci nutriamo quotidianamente di diffusa indifferenza verso il vicino, il parente, l’anziano, più in generale l’altro da noi e il territorio attorno a noi?

Forse la risposta sta nella constatazione che non abbiamo più un orizzonte e dunque, privi di speranza, ci accontentiamo – come Esaù nel Libro della Genesi – del nostro piatto di lenticchie, rinunciando alla primogenitura, a quella gioia di vivere che si manifesta solo se la vita ha un senso, e se tale senso è permanente e non effimero. Se la vita non è eterna insomma, come intuisce acutamente il filosofo Severino, sofferenze e diseguaglianze non hanno rimedio, ma persino ricchezza, salute, successo e stima sociale sono soltanto bagliori passeggeri, destinati a estinguersi davanti al sepolcro che ci attende (e il Libro del Qoelet, nell’Antico Testamento, ci fornisce una sublime esposizione di tutto ciò). D’altro canto, nell’epoca del pensiero debole, è difficile riferirsi a valori che sono stati abbondantemente messi in crisi dall’eredità moderna e postmoderna, in modo trasversale a filosofia, società e costume, politica ed economia, ma anche teologia e contesto ecclesiale. Vi è un distanziamento scettico, rispetto ad ogni affermazione di valore, che perfino un semplice “ti amo” rischia di risultare sospetto o addirittura lezioso.

Tutti sanno che quando un adolescente va in crisi il rischio maggiore sta nel suo ritrarsi dal mondo e dalla vita, come purtroppo accade oggi con l’inquietante fenomeno degli hikikomori, che coinvolge giovani, soprattutto giapponesi ma non solo, che decidono di rimanere nel chiuso della propria stanza, in perenne connessione web, ritirandosi da ogni vita sociale, probabilmente delusi o spaventati dalle sue contraddizioni. Ebbene, questo ritrarsi in una dimensione solipsistica e virtuale (Web, Tv, giornali…) sembra proprio essere la soluzione prevalente che l’uomo occidentale va assumendo a fronte del vuoto valoriale che attraversa la sua civiltà, e non importa che egli appaia in perenne movimento, fra viaggi, consumi e divertissement, ciò che colpisce è l’assenza di empatia sociale, di condivisione, di fattiva apertura all’altro, a fronte di un orizzonte che si restringe al ristretto ambito della coppia, dei famigliari prossimi, di pochi eletti amici, che pure dileguano quando i rapporti entrano in crisi e si sostituiscono rapidamente con altri, almeno quando è possibile. Al di fuori della gestione ludico-consumistica del tempo libero poi, nelle serate feriali o nelle occasioni festive un tempo corali, le nostre città appaiono deserte perché la gente è a consumare altrove (centri commerciali, turismo di massa, divano e televisione).

Questa rocambolesca fuga nei meandri dell’edonismo individualistico è la prima deriva che – posto il problema del contemporaneo pensiero debole e della crisi postmoderna – alimenta l’insignificanza del vivere per masse sempre più eterodirette dal si fa e si dice del vivere inautentico profetizzato da Heidegger, mentre la serietà dei tempi, che davvero sembrano orientare a quella che potremmo definire una sorta di perdizione dell’anima, ovvero della nostra identità e autenticità profonda, imporrebbe un adeguato ripensamento del nostro stare al mondo. E, come per l’adolescente in crisi, il primo richiamo all’uomo disamorato di oggi (gnoseologico, cioè relativo al conoscere, prima che etico, ovvero relativo al fare) è quello di risintonizzarsi con la vita, con la sua grammatica elementare, con la sua logica semplice ma universale e pervasiva. Logica, o grammatica, della vita che esige relazione, e per la quale il vero grande peccato è permanere nella separazione, per esempio dal suo fondamento, che si chiami energia o spirito poco importa, importa però che si riconosca nelle pieghe delle sue manifestazioni attuali e quotidiane. E che, in quanto energia-logos, come evocato dalla grande tradizione classico-cristiana, risulta appunto suscitatore di legami, ponti e relazioni di cui è costituito l’intero universo, e intessuta la nostra vita, che sembra fiorire proprio attraverso di essi e risplendere nella loro attuazione. Se poi, in tutto ciò, sapremo riconoscere a tale esperienza caratteri che trascendono la semplice meccanica della materia ed evocano la libertà dello spirito, allora forse nutriremo ancora la speranza dell’eternità, prima condizione per avvertire nuovamente in noi la gioia di esistere, non temporaneamente, ma per sempre. E sarebbe bello se anche l’omiletica riscoprisse come centrale un messaggio troppo spesso sottaciuto, marginalizzato, quando non addirittura ignorato. Anche se le modalità con cui oggi accediamo a tale speranza sono cambiate, e la spiritualità personale esige approfondimento, non accontentandosi più di mere formulazioni dogmatiche, mentre il discusso ambito del paranormale si apre alle indagini della scienza e, di volta in volta, a ratifiche o sconfessioni, resta che la speranza dell’eternità risulta anche oggi davvero essenziale a dotare di significato il tempo che viviamo, “…perché la vita è un brivido che vola via”, canta ancora una volta Vasco, rocker dal retrogusto esistenzialista, ricordandocene la vacuità.

Certo è che se la vita personale riesce con i mezzi di oggi ad ancorarsi nuovamente all’eterno, allora anche il senso di estraneità e non appartenenza che attraversa le nostre società potrebbe essere superato. Il carattere effimero e transitorio delle esperienze sociali e affettive dell’uomo contemporaneo si spiega infatti in larga parte con i presupposti edonistici che lo guidano, per i quali il riferimento al sé e alla realizzazione della personalità divengono dogmi da perseguire a qualunque costo, e rispetto a cui i rapporti umani, anche fondamentali, risultano scalini da percorrere per favorire la propria evoluzione e si desostanziano di senso proprio, acquisendo anzi carattere di strumento subordinato al narcisistico perfezionamento di un ego che non esita ad abbandonarli, quando li ritiene ormai inutili rispetto a tale finalità. Ma, al contrario, è evidente che se ci riferiamo ad una originaria trascendenza del valore che essi esprimono, e li consideriamo in questa luce, attraversati da essa e ad essa orientati, allora proprio tale loro fondamento trascendente costituirà motivo di riconoscimento del valore assoluto ad essi sotteso, e ne implicherà un approccio che Kant espresse con il suo famoso imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. I rapporti fra coscienze dunque, in questo riferimento al fondamento trascendente come costitutivo delle realtà personali coinvolte, acquisiscono così una tale irriducibile sacralità da rendere improponibile una loro subordinazione al principio di piacere o di utilità, e da risultare inaccessibili a qualsiasi forma di strumentalizzazione. Ecco perché tali rapporti diventano fedeli, stabili, duraturi, rispettosi e finalizzati al bene dell’altro che, di riflesso, diventa anche il mio, perché esso non si può realizzare appunto che sinergicamente e rispetto all’altro. Guardando le cose in questa luce trascendente è più facile superare le difficoltà e le incomprensioni, nell’ottica di una continuità che essa consente e alimenta, entro una fedeltà ontologica che – questa sì – è davvero fonte di gioia che resta, e dunque incoraggia rapporti di coppia, famigliari, di amicizia e sociali in genere alieni da ogni forma di opportunismo strumentale.

In tale prospettiva è naturale affidarsi alla rete di relazioni che la storia e l’ambiente hanno generato attorno a noi, in certo qual modo provvedendo a costituire un contesto di occasioni e di suggestioni atte ad alimentare la nostra vita, le nostre scelte, il nostro esistere, entro un ordine benevolmente predisposto a nutrirci e sostentarci nelle irrinunciabili richieste di senso, di valore, di significato, permettendoci così progettualità e sogno. Anche se questo accade di fatto per ciascuno di noi, qualunque siano i nostri convincimenti, la consapevolezza e il riconoscimento del fondamento o senso trascendente di ciò non può che riempirci di gratitudine e riconoscenza, alimentando in noi proprio quella gioia che l’algido indifferentismo contemporaneo sembrava precluderci. Abbracciare con lucidità e trasporto ciò che la nostra civiltà, e dunque i nostri avi, ci hanno trasmesso di bello e di buono non può che ingenerare in noi anche una sorta di felice operosità nell’alimentare e tramandare, naturalmente in un’ottica creativa e dinamica, tale eredità, e anche questo contribuirà a dar senso e spessore al nostro vivere.

Avvertire in sé consistenza e valore e comprendere che il bene (della relazione, della comunione, dell’altro) è per sempre non può che ridare speranza alla nostra vita, liberandone tutto il potenziale, e dunque alimentandone l’autenticità e l’identità profonda, laddove anch’essa, chiudendo il cerchio del suo accadere nel mondo, scopre che il tempo che le è dato – come voleva Platone nel Timeo – è solo l’immagine mobile dell’eternità. Ma una vita che è per sempre non è in sé una infinita fonte di gioia?

Certo, perché una civiltà provi a riformulare un’esperienza e una speranza sottesa, quando il linguaggio muta e i paradigmi cambiano, essa deve attuare un potente sforzo di conversione, non accontentandosi di una stanca ripetizione dei modelli acquisiti, ma addentrandosi nella sperimentazione dell’inaudito e del nuovo, perché un’esperienza di nascita possa aver luogo, e una stella ritorni a indicare il cammino.

(da Claudio Sottocornola, Tra cielo e terra, Centro Eucaristico, 2023, pp. 123-129)