La fine del mondo

Bonfiglio per Bennardo

FRANCESCO BENNARDO

Come sono piccoli gli uomini, che mangiano, dormono, bevono, s’accoppiano, mingono, defecano e poi vanno all’altro mondo. Soltanto chi come noi è costretto ad ascoltare ogni giorno nel segreto del confessionale i racconti che gli uomini fanno delle loro sporcizie, delle loro nequizie, può esprimere un parere sul genere umano, sulla futilità delle cose terrene, degli Stati, dei Regni e sulla vita nascosta dentro le case. Se io dovessi dare un mio giudizio complessivo, emettere una mia sentenza, io volentieri invocherei il diluvio universale, ed emetterei serenamente una sentenza irrevocabile di morte generale; ma spetta al Signore di prendere simili decisioni. E ai parenti, agli amici rimasti in vita, non resta che pregare e invocare la benevolenza del Sommo giudice.
(orazione funebre del prete del film Un borghese piccolo piccolo)

1° ATTO – PANTA REI

Il gabbiano salì alto nel cielo e sorvolò rapido l’ultimo tratto di costa fino a raggiungere il suggestivo e pittoresco paese disteso lungo la scogliera. Come sospeso nell’aria, rallentò lo sforzo sfruttando i venti che dal mare risalivano lungo le rocce, parve osservare ammirato il paesaggio e poi, veloce com’era arrivato, riprese il suo viaggio.

Il paese era circondato da faraglioni, con le villette incastonate tra i massi come le casette di un presepe. Numerosi vialetti s’intrecciavano tra loro in un saliscendi interminabile, trasformandosi improvvisamente in strette scalinate scolpite nella roccia che si spingevano fino al mare. L’acqua, limpida e cristallina, infrangeva i suoi flutti sugli scogli più bassi sprigionando ad ogni onda il suo caratteristico canto e una schiuma bianchissima, che rapidamente si dissolveva proprio un attimo prima che una nuova onda sopraggiungesse. Il lungomare ai piedi del borgo era un continuo alternarsi di splendide insenature ricoperte da una finissima sabbia chiara e basse scogliere nelle quali si aprivano, ad intervalli irregolari, delle minuscole grotte che il mare colmava e svuotava con l’incessante andirivieni delle sue onde. Al tramonto le prime ombre allungate deformavano il paesaggio, reso fosco da una debole nebbiolina che saliva lenta e impalpabile dal mare; i lampioni mescolati tra le rocce proiettavano sui sentieri lame di luce colorata unita con le ombre del crepuscolo. Il paese diventava irreale, quasi un acquerello appena dipinto su una tela dalle tonalità sfumate e dalle figure tremolanti, quasi fiabesche. La pioggia persistente di quella sera dilatava le sensazioni trasudate dal mare, amplificava gli odori e incupiva gli umori.

Nella grande villa, dietro l’ampia vetrata affacciata sul mare, dove le gocce di pioggia giocavano a rincorrersi veloci lungo il vetro, una figura femminile, ingrigita dalle prime oscurità della sera ed al contempo illuminata da una grande lampada, mirava il panorama in un chiaroscuro di opacità e luminescenza. Il mare andava estinguendosi pigramente assecondando l’ultima luce vespertina prima di spegnersi all’unisono con essa, lasciando nell’aria ormai buia solo il suo emblematico sussurro. La donna era seduta su una sedia a dondolo con una coperta di lana sopra le ginocchia mentre stava sorseggiando lentamente un bollente infuso di tè verde aromatizzato al gelsomino.

La figura era esile, corrosa dagli anni e dai ricordi di una passione nata agli albori dell’adolescenza e prolungatasi lungo il percorso comune di esperienza vissuta. Una passione estasiante che deponeva un tappeto di petali di rose lungo il suo percorso, lasciava una scia di fragranze odorose di ortensie che rimanevano sospese ed eteree nell’aria, fino a quando il vento non le disperdeva trasportandole tra le sue spire verso altri lidi. Aveva i capelli candidi raccolti in una crocchia dietro la testa e la pelle solcata da rughe profonde dove erano scritte, come sopra una vecchia pergamena ingiallita, le poche gioie e i molti tormenti della sua lunga vita. Il suo sguardo era però ancora penetrante e i suoi occhi azzurri, vigili ed espressivi, stavano contemplando amorevolmente lo spirito brillante del marito. Lo vedeva seduto sopra una panchina di pietra scavata all’interno di una roccia: indossava il suo abito più bello, stivaletti di pelle lucida, un cappello Lobbia e l’immancabile pipa di radica. Anche lui la stava ammirando con una dolcezza simile ad una luce intensa ed avvolgente che la riscaldava e rassicurava, come un soffio tenue che la prendeva tra le braccia e la faceva ascendere, trasportandola in un volo impalpabile di farfalla, verso universi onirici. In quello spazio parallelo l’infelicità e i tormenti si dissolvevano e l’anima, purificata dalle miserie umane, poteva sorvolare praterie immense dove folte schiere di cavalli bianchi galoppavano liberamente. Entrambi brillavano di luce propria, emanavano un calore intenso e anche adesso, come un tempo, i petali di rose li seguivano per poi cadere a terra, dopo aver fluttuato nell’aria leggeri come fiocchi di neve. Essi avvolgevano i sentieri, le rocce, i tetti delle case e le strette scalinate scolpite nella roccia, fino a depositarsi sopra la superficie delle acque e farsi cullare dolcemente.

La signora viveva in solitudine nella grande dimora: dopo la vedovanza, il nuovo compagno e l’unica figlia l’avevano abbandonata senza farsi più sentire, scomparendo nel profondissimo oblio del loro squallido concubinaggio. In quel tempo le si erano spalancate improvvisamente le porte del silenzio e dell’oscurità; aveva iniziato a scivolare in un vortice di depressione e sopraffazione, in un sudario di cupe emozioni radicate nell’intimo più remoto dell’anima, in una camera sepolcrale dove ammassi di nuvole oscure le opprimevano la mente ed il cuore. Un cuore strappato e dilaniato, dove fiotti di sangue scarlatto laceravano le carni per ergersi nell’aria come zampilli di una fontana, attraversavano boschi di querce secolari fino a giungere dinanzi ad una intristita cascina vicina ad un laghetto. In quel luogo di perdizione aleggiava eterno nell’aere il terrore di scoprire quello che già si sapeva, sotterrato nell’inconscio più profondo da strati di ignominia più pesanti di macigni. Un magma implorante che avrebbe distrutto quel castello fortificato dall’indifferenza e dalla meschinità.

La minuta figura della donna si alzò dalla poltrona e si diresse verso la camera da letto. Quello stesso talamo che aveva dapprima cullato i suoi sogni di giovane sposa, diventando poi un letto di spine, si era ormai ridotto a mero giaciglio freddo dove la donna riposava senza lamenti sorretta dalla sua ferma alterità. Dopo un rapido sguardo afferrò un sacco di juta, spense le luci, uscì dall’abitazione, chiuse la porta e s’incamminò verso il sentiero.

2° ATTO – APOCATASTASI

Il falco salì alto nel cielo e sorvolò rapido l’ultimo tratto di bosco fino a raggiungere il suggestivo e pittoresco tratto circondato da querce secolari. Come sospeso nell’aria, rallentò lo sforzo sfruttando i venti che dalle fratte risalivano lungo gli alberi, parve osservare ammirato il paesaggio e poi, veloce com’era arrivato, riprese il suo viaggio.

Il bosco era immerso in un’atmosfera rarefatta e lieve quasi sospeso tra sogno e realtà, dove chiunque, camminando lungo un sentiero ombroso, avrebbe potuto calpestare foglie secche e ramoscelli riuscendo a fatica a sentire il rumore dei propri passi. Ruscelli d’acqua limpidissima scorrevano dapprima lenti e pacifici per poi, all’improvviso, gettarsi giù lungo rocce impervie formando fantastiche cascatelle. L’acqua, quasi contorta tra le rocce, scompariva in una piccola grotta per riapparire più avanti scorrendo più celermente, sobbalzava tra una pietra e l’altra formando una schiuma bianchissima, scorreva sopra l’ultimo masso e precipitava più in basso sollevando una piccola nebbiolina, per poi placarsi dando forma ad uno splendido laghetto trasparente dove lussureggianti salici piangenti la lambivano con i loro lunghi rami sottili. Un luogo così particolare dove persino i colori si attenuavano, sfumando gli uni negli altri per assumere un prevalente e particolare tono dorato.

In quel luogo ameno, in una radura posta lì vicino, strideva la sagoma brulla e desolata d’una vecchia cascina. Doveva esser stata graziosa ed elegante un tempo e, con gli occhi dell’immaginazione, si poteva restituirla al periodo del suo passato splendore. Adesso però il suo aspetto era lugubre e la natura incontrollata stava riprendendo possesso del suo ambiente: le erbacce spuntavano da ogni luogo (perfino dal pavimento in cotto della cucina), il patio era diventato il regno indisturbato di grosse formiche rosse e di insetti di ogni genere, ogni stanza della casa mostrava una decadenza brutale. Non esistevano sogni in quella casa, né ideali, né aspirazioni, tutto era sepolto da una coltre grigia e uniforme come se il luogo fosse stato oscurato per sempre dalle ceneri di un vulcano in eruzione. Il sole non riusciva più a perforare quella coperta distesa sopra quel cumulo di macerie dell’anima, non giungeva più a scaldare quei cuori ormai gelidi e insensibili ad ogni richiamo d’amore, d’affetto e di dolcezza. L’ex compagno e la figlia della signora del mare vivevano chiusi perpetuamente in quel luogo, in uno stato di perenne abulia sociale. Mangiavano quando avevano fame, dormivano quando avevano sonno, e non si lavavano mai; facevano l’amore continuamente, in ogni angolo, ad ogni ora del giorno e della notte: un sesso sfrenato, brutale, quasi animalesco, non derivante dal desiderio ma dall’ossessione, un supplizio continuo che dovevano appagare, un abbrutimento del corpo e dello spirito, un laido baccanale di cui godere prima dell’ineluttabile giudizio finale. E poi quel fastidioso olezzo di fragranze di ortensie, e quelle macchie di sangue ormai secco cosparse in tutta la casa: un richiamo disperato, una supplica non ascoltata stava diventando presagio di sventura.

Una mattina all’alba, dopo aver consumato la loro libidine in un letto trasformatosi ormai in una sordida alcova, lei andò a soddisfare la propria fame in cucina. Improvvisamente un grido di dolore giunse dalla camera: la ragazza corse immediatamente e la scena che le si parò davanti ebbe una parvenza di apocalittico. Migliaia di grosse formiche rosse si erano impadronite del corpo dell’uomo, sorprendendolo nel sonno; entravano e uscivano da ogni orifizio mentre lui si dimenava urlando in preda ad enormi spasmi di dolore. Non c’era nulla da fare: gli insetti famelici stavano divorando le sue viscere e la pancia si era gonfiata a dismisura e sembrava sul punto di esplodere. L’uomo esalò l’ultimo sospiro, sbarrò gli occhi e morì. Seppur scioccata e con le lacrime ormai pronte a vedere il mondo, la ragazza ebbe la lucidità di notare che la finestra della stanza era stata aperta. D’istinto, si affacciò.

3° ATTO – ECPIROSI

L’aquila salì alta nel cielo e sorvolò rapido l’ultimo tratto di montagna fino a raggiungere la suggestiva e pittoresca cima innevata. Come sospesa nell’aria, rallentò lo sforzo sfruttando i venti gelidi che dalle valli risalivano lungo le pendici, parve osservare ammirata il paesaggio e poi, veloce com’era arrivata, riprese il suo viaggio.

Il monte sembrava un gigante addormentato completamente immerso dentro il soffice e gelido manto candido. Enormi abeti carichi di neve facevano da cornice ad una grossa roccia che, vista in lontananza, pareva avere le sembianze del volto del ciclope assopito. In lontananza si intravedeva il luccichio di un lago completamente gelato, incastonato tra due pareti petrose e sovrastato da una eterea cascata di ghiaccio dall’aspetto talmente statico da apparire quasi irreale. Il silenzio regnava supremo; solo il vento, ogni tanto, osava disturbarlo con il suo fischio gelido che s’insinuava tra i massi e tra gli arbusti sollevando mulinelli di neve fresca. Il paesaggio era di una bellezza sconvolgente: l’occhio poteva spaziare oltre le cime più alte ed ancora più in là, dove altre catene montuose facevano da ancelle alla regina, la vetta più alta che sembrava erigersi maestosamente verso il cielo, oltre il manto di nubi che la cingevano a mo’ di anello.

Il vecchio saggio abitava in una piccola baita posta ai piedi della sommità; viveva lì da tempo immemorabile, fin da quando cui il mondo era una landa desolata e irrespirabile, ancor prima che gli esseri umani facessero la sua comparsa, da prima che il bene ed il male iniziassero a fronteggiarsi in una violenta e perenne battaglia. Era giunto il tempo del giudizio, del discernimento; alzò al cielo entrambe le braccia invocando un vento riparatore.

La ragazza rinchiusa dentro la cascina, paralizzata dal terrore, non si accorse delle prime fredde raffiche; sua madre, invece, dal letto di pietra in cui era distesa le avvertì immediatamente e le accolse dentro di sé con gioia. Il vento crebbe di intensità, sradicò le imposte e le finestre della cascina, scoperchiò il tetto; come un uragano biblico penetrò nelle ville a picco sul mare e le annientò. Tutto venne trasportato verso i cieli più alti ed azzurri. In quel turbinio di scure macerie si scorgeva nitida una luce intensa, al centro della quale l’esile figura incorporea di una donna canuta ascendeva verso le porte di un regno mistico, spirituale, dove gli spasmi cessavano di esistere, dove i supplizi diventavano gioie, dove la sua anima ricongiunta avrebbe potuto finalmente librarsi per l’eternità.

Tutto era svanito, dissolto; restava visibile solo il cielo terso in cui tre uccelli volavano in cerchio alla ricerca di un punto di riferimento che non c’era più. Volavano dentro una circonferenza immaginaria senza inizio e senza fine, circondati da una scia di petali di rose e da un profumo di fragranze odorose di ortensie.

(Foto di Laura Bonfiglio)