Socrate

Socrate

Socrate

ANTONIO VIGLINO

Socrate compare nei manuali di filosofia dopo i filosofi detti (secondo la definizione di Aristotele) naturalisti, cioè dopo Talete, Anassimandro e Anassimene, dopo Empedocle e dopo Anassagora; Socrate era giovinetto quando Parmenide ed Eraclito erano nella loro maturità; fu contemporaneo, e acerrimo avversario, dei grandi sofisti; e fu il maestro di Platone, nonché di altri pensatori e scuole filosofiche oggi considerate minori.
È proprio grazie a Platone che abbiamo la profonda testimonianza del pensiero di Socrate, dato che i Dialoghi platonici hanno appunto per protagonista Socrate stesso; usualmente si ritiene che gli insegnamenti diretti di Socrate siano conservati intatti nei primi scritti platonici, mentre in quelli successivi sia più propriamente il pensiero di Platone ad essere espresso per bocca di Socrate.
Di Socrate si sa che avesse per compagno un daimon, una presenza, che invisibile talora lo tratteneva dal compiere certe azioni; nel Simposio è poi detto che Socrate ogni tanto cadeva in profonda meditazione, astratto da tutto e quasi catalettico, per lunghe ore; egli non scrisse nulla, come Pitagora, Gesù e il Buddha, ma insegnava ai suoi concittadini, esortandoli in modo tanto sottile quanto incisivo ad abbandonare i propri pregiudizi conoscitivi e morali, e al contempo aiutando chi lo voleva ascoltare a partorire una comprensione della realtà nuova e genuina, e per questi motivi veniva appellato ora fastidioso tafano ora levatrice.
Il cuore dell’insegnamento di Socrate era il destare gli ateniesi dal loro tronfio “credere di sapere”, affinché potessero capire chi, o cosa, realmente fossero; i due detti decisivi di Socrate erano infatti il “so di non sapere” (hen oida oti oudèn oida, letteralmente: l’unica cosa che so è che non so nulla) e il “conosci te stesso” (ghnothi sautòn), motto quest’ultimo che nel mondo greco già aveva e poi avrebbe avuto tanti magistrali sostenitori, dai sette sapienti a Plotino. La ricerca del vero significato dei valori, cioè del “che cos’è” (che Platone sviluppò nella nozione dell’idea e Aristotele volle intendere come prima affermazione del procedere logico del discorso — Aristotele enucleò la logica, quella di Socrate, per fortuna, non lo era), è in verità non il fine dell’interrogare socratico bensì un mezzo per far riconoscere l’insensatezza e l’inesistenza dei propri pregiudizi. Il termine pregiudizio (che Socrate non impiegava, ma che è utile per sintetizzare il suo pensiero) va inteso in senso forte: pregiudizio non significa per Socrate quello che comunemente si intende e cioè l’affibbiare più o meno sbrigativi stereotipi del tipo “italiani pizza e mandolino”, bensì significa la struttura basica della personalità, la sua intima modalità conoscitiva. Quando Socrate fa toccare con mano la fallacia del “credere di sapere”, non vuole far constatare che una certa idea comune sia errata, e ciò in effetti sarebbe davvero banale, ma vuole porre l’interlocutore nella condizione di rendersi conto che la struttura stessa della sua mente è fondata sul “credere di sapere”. Se, per chiarire quanto detto, portassimo Socrate nel mondo contemporaneo, dal suo punto di vista oggi a “credere di sapere” sarebbero proprio gli uomini occidentali, tutti, ossia chiunque rispetto a Socrate nel mondo moderno è uno che crede di sapere. È questo il punto fondamentale: chi legga del credere di sapere socratico è portato automaticamente a pensare che il pensatore greco si riferisse ad altri, a stupidotti di oltre duemila anni fa, mentre questo lettore, lui stesso, al contrario in cuor suo crede di essere una persona saggia e intelligente che non crede di sapere; è proprio questo il punto invece: costui crede di sapere di non essere uno che crede di sapere! (e la natura umana è sempre la stessa, ad Atene come oggi, per rendersene conto basta leggere Tucidide e le commedie di Aristofane.)
Per comprendere quale sia il vizio insito nel “credere di sapere” viene in soccorso il secondo detto socratico: “conosci te stesso”. Chi crede di sapere è semplicemente chi non conosce se stesso. Sembra che gli enigmi si moltiplichino invece di diradarsi, mentre la soluzione è semplicissima, ed è peraltro la stessa soluzione che i sapienti di ogni civiltà e di ogni latitudine ripetono da millenni: l’inganno da cui ci si deve liberare è niente altro che l’io — naturalmente Socrate, né nessun greco, parlava dell’“io”, che è stato nominato e così creato dalla filosofia occidentale secoli e secoli dopo, ma a quello si riferiva. L’io non è la natura della mente, è solo una creazione fittizia sullo specchio della natura della mente, generato dall’essere la mente stessa “incarcerata nel corpo” (come diceva Socrate); il vero se stesso è proprio la mente al di sotto dell’io, e questo vero se stesso è altro ed è infinitamente meglio dell’io, perché l’io è solo un piccolo tiranno egoista attaccato ai propri micragnosi desideri. Socrate chiama questo vero sé psychè, che non traduciamo con “anima” perché questa parola è troppo compromessa con la psicologia egotistica del cristianesimo devozionale; essa è la parte immortale nell’uomo, che si reincarna dopo la morte, ed è in contatto con la vera realtà al di là delle apparenze del mondo fenomenico, mentre sono gli attaccamenti e la brutalità dell’io che le impediscono di vivere in modo paradisiaco. Per il pensiero occidentale invece ogni individuo semplicemente è il proprio io: la filosofia, le psicologie e le neuroscienze tutte da secoli credono di sapere e danno per scontato che l’uomo sia l’io, e naturalmente lo credono gli uomini occidentali.
Per Socrate dunque “credere di sapere” significa, in modo davvero radicale, credere di essere l’io, ed è solo conoscendo se stessi che ci si libera da questa illusione, la quale è la causa della sofferenza.
Questa “interpretazione” di Socrate non la si trova nei libri degli studiosi accademici, perché questi credono di sapere che Socrate volesse combattere stereotipi rozzi e dozzinali e rendere più ragionevoli i suoi concittadini. Ma se si leggono le Upanishad, o i discorsi del Buddha, o i tantra di qualsiasi delle tante correnti delle dottrine dell’India o del Tibet, allora si constata che Socrate semplicemente diceva lo stesso che i sapienti dell’Oriente: conosci l’atman, il tuo vero sé, ovvero “diventa ciò che sei” (Nietzsche).
Su queste basi, diviene finalmente comprensibile il cosiddetto paradosso socratico: chi conosce il bene perciò non pratica il male, ovvero nessuno compie il male volontariamente, bensì chi lo fa lo fa per ignoranza. Salta agli occhi di chiunque che chi fa il male lo fa con piena coscienza e consapevolezza, chi assassina o ruba sa benissimo quello che fa, sa di fare del male e lo fa volontariamente; ed ancora, ogni persona nella propria vita quotidiana compie piccoli atti che, per quanto insignificanti, non vorrebbe fossero fatti a lui, e li compie in modo perfettamente consapevole. La realtà quindi contraddice la verità che pone Socrate, al punto che questo suo argomento viene considerato dagli studiosi della filosofia come un paradosso, proprio perché non se ne comprende un senso logico. In verità, la soluzione del detto socratico è molto semplice e lineare, se la si cala nel contesto di cosa autenticamente intendeva Socrate quando ammoniva di non credere di sapere e di bensì conoscere se stessi. Socrate spronava a superare l’io, e qual è la causa di ogni male se non l’io? È l’io che costringe gli uomini ad essere bramosi, iracondi, ignavi, sopraffattori e falsi: la brama di avere utilità, di qualsiasi tipo, per sé, a discapito di cosa sarebbe giusto rispetto agli altri. È l’egoismo la causa di ogni male per l’uomo, il mettere i propri interessi piccoli e grandi avanti a tutto e il volerli soddisfare ad ogni costo. Se si rimuove l’io, ne consegue naturalmente la scomparsa degli egoismi: è questo il bene, conosciuto ed esperito il quale non si commette più il male; chi compie il male, invece, lo compie volontariamente con la volontà dell’io, perché ignora la pura coscienza che è il suo vero sé.
I tre detti fondamentali di Socrate quindi, “so di non sapere”, “conosci te stesso” e “chi conosce il bene non pratica il male”, non sono tre idee peregrine collegatesi per caso o per una qualche superficiale affinità nella mente di Socrate, come ritengono filosofi e filosofanti, ma sono bensì tre espressioni di una medesima comprensione della realtà e della natura umana.