Sappiamo che Cartesio, il grande fondatore del razionalismo moderno e artefice del dubbio come chiave d’accesso ad un sapere più adeguato, ritenendo che la maggior parte degli uomini e per la maggior parte della vita dovesse mantenersi in una posizione di verosimiglianza più che di evidenza assoluta rispetto alla verità, elaborò una morale provvisoria cui attenersi in assenza di certezze definitive. Ebbene, la prima regola di tale morale che questo spregiudicato pensatore addita alla pubblica osservanza richiede di obbedire alle leggi e alle usanze del proprio paese “conservando costantemente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dall’infanzia, e regolandomi in ogni altra cosa, secondo le opinioni più moderate e più lontane da ogni eccesso”. È singolare che il filosofo della tabula rasa, e cioè del non dare nulla per scontato in ordine al proprio accesso ad una più autentica conoscenza, ritenga che l’atteggiamento di accettazione dell’esistente ne sia una sorta di prerequisito essenziale. Contraddizione? Non proprio.
Consideriamo infatti, dal punto di vista di quell’esperienza che vogliamo porre alla base della nostra indagine filosofica, il diverso esito che si ha, in qualsiasi ambito, tra l’approfondire un contesto e il mutarlo in continuazione. Sia che parliamo di professione e di competenze, o invece di amicizia, amore e rapporti interpersonali, chiunque vede il diverso grado di credibilità e profondità che attiene alla disciplina, al metodo, alla continuità. Leggevo, in calce a un video pubblicato su You Tube dal celebre ballerino ucraino Sergei Polunin, i commenti del pubblico, fra i quali mi colpì quello di una donna che osservava: “Per ballare così, chissà che sacrifici, quante lacrime, sudore e sangue hai dovuto versare…”. E ringraziava. Ma d’altro canto, a proposito di continuità, chi preferirebbe un amore effimero, venale, transitorio, a un amore tenace, perseverante, fedele nel tempo e nelle vicissitudini della vita?
Queste premesse servono a sostenere dunque che non è l’estetizzante variare delle nostre modulazioni esistenziali a produrre valore, conoscenza, autenticità, ma il lucido, stabile, determinato approfondimento del nostro ambito di realtà. Cartesio, nella citazione prodotta, fa esplicito riferimento alla religione. Nella mia esperienza personale, ho incontrato chi ha ritenuto di dover cambiare religione, ovvero accostarsi a una diversa tradizione spirituale, vuoi per motivi contingenti vuoi per gradi di affinità più o meno intensi con questa o quella esperienza. Naturalmente comprendo che per qualcuno cambiare prospettiva può effettivamente rappresentare un momento di maturazione soggettiva importante, e tuttavia mi chiedo se l’approfondire il linguaggio che la mia tradizione mi ha consegnato non sia un’opportunità da considerare come prioritaria rispetto all’imparare un linguaggio del tutto nuovo e, molto spesso, estraneo al mio mondo. Insomma, un po’ come se volessi scrivere un’opera letteraria in cinese, di cui ignoro gli ideogrammi, e mi ostinassi a rifiutare lo strumento della mia lingua italiana per esprimermi, in forme senz’altro più congeniali e, almeno per me, rivelative di possibilità. Ma qualcuno potrebbe obiettare che queste considerazioni rischiano di apparire opportunistiche. Non è così, si tratta piuttosto di valutazioni ermeneutiche, che ambiscono cioè a definire, sia pur sommariamente, attraverso quale approccio la coscienza possa più efficacemente cercare la verità.
D’altro canto, l’approccio che l’esperienza sembra suggerirci come prioritario e preferibile, più fecondo e generativo, se non è quello della mobilità assoluta, neanche può consistere nell’appartenere staticamente a una tradizione, ma piuttosto nell’approfondirla, cogliendone e sviscerandone tutte le implicazioni, tutta la verità che contiene e che, eventualmente, potrebbe portarci anche a trascenderla, esattamente come un bimbo non apprende il nuovo buttando via ciò che già sa, ma maturando nuove categorie di lettura di ciò che ha gradualmente appreso.
In tale ricerca la ragione diviene lo strumento privilegiato che ci guida perché, in ultimo, anche un assenso di fede non può che basarsi su di essa, quando si affidi – come deve – ai motivi di credibilità che presuppone. Inoltre, chi sosterrebbe una qualsiasi teoria senza cercare almeno di mostrarne l’affidabilità? Chi seguirebbe un’etica che negasse l’evidenza razionale, per esempio, della uguale dignità di tutti gli esseri umani? La tradizione deve essere in qualche modo legittimata dal nostro assenso razionale.
Ma tale assenso non è attraversato esso stesso dall’incertezza, dall’ambivalenza, dalla possibilità dell’errore? Perché, ad esempio, la ragione sembra produrre così spesso teorie e sistemi distopici? L’esperienza dei totalitarismi fra le due guerre, nel Novecento, ne è una inquietante e drammatica esemplificazione che, a ben guardare, attiene tuttavia non allo strumento in sé, ma all’uso perverso che ne vien fatto. Tutti noi sappiamo quanto a una qualsiasi arma corrisponda un grado di pericolo o minaccia che dipende proprio dalla potenza intrinseca a quell’arma: un sasso può rappresentare un pericolo, ma una bomba atomica ne rappresenta uno assai maggiore. E la ragione, con le sue enormi potenzialità, non sfugge alla regola dell’uso. In epoca moderna, ad esempio, va affermandosi una concezione scientista della ragione per cui, nel ’900, talune epistemologie arrivano a promuovere un riduzionismo del sapere alla metodologia delle scienze fisiche, ove ciò che conta sono i processi di quantificazione matematica. Qualcuno potrebbe immaginare che ciò non intercetti più di tanto il quotidiano delle persone, ma non è così, perché, ad esempio nella scuola, didattica, pedagogia, programmazione e trasmissione dei saperi umanistici obbediscono ormai, più o meno radicalmente, a tale diktat, con tutte le implicazioni e, sempre più spesso, le derive formative che sono sotto gli occhi di tutti. Si ha così un inaridimento della tradizione umanistica che, invece di qualificarsi nella propria autonomia e originalità, insegue approcci e linguaggi propri di altri ambiti cognitivi, mentre declina una concezione sapienziale, e cioè legata al senso e alla vita, della cultura, a favore di una concezione analitico-descrittiva asettica che scimmiotta metodi e approcci delle scienze naturali. Siamo così di fronte a una ragione ristretta che promuove sempre più una umanità ristretta.
Questa ragione ristretta, che sta impoverendo tutti noi, non è però solo quella scientista ma – e specularmente – diviene poi anche quella che, magari proprio reattivamente, ne chiede una chiusura all’orizzonte della propria ideologia e, nei casi di integralismo radicale, della propria confessione religiosa, generando intolleranza e rifiuto dell’altro. Sono colpito di come, non solo nel mondo islamico, ma anche dentro il contesto della tradizione cristiana, si affermino, proprio fra soggetti altamente motivati sul piano della esperienza di fede, atteggiamenti di radicalizzazione che invocano un possesso della verità che si nega e si rifiuta ad ogni altra esperienza, di solito ignorando la stessa evoluzione degli studi, per esempio proprio in ambito biblico ed esegetico, e dunque rigettando un approccio non già razionalistico, ma razionale e senz’altro ragionevole alle conoscenze che possiamo dire ormai solidamente acquisite.
In realtà, la ragione allargata (e inclusiva) che auspichiamo non consiste nel simulare una qualche disponibilità ad accettare tolleranti la posizione dell’altro, certi della superiorità della propria, ma – al contrario – nel riconoscerne prioritariamente le specifiche modalità, cioè il suo carattere situato – come voleva Kant – e la sua funzione astraente – come volevano Aristotele e Tommaso –, aspetti che – insieme – ne delimitano l’ambito relativizzandone le pretese, ma anche illuminandone le potenzialità.
Senza tale consapevolezza ci imbatteremo sempre nella arrogante presunzione di una conoscenza totalizzante (André Glucksmann, uno dei più celebri nouveaux philosophes degli anni ’70, parlava di “lager del pensiero” a proposito di tanti sistemi “chiusi”). E dunque, solo quando avremo colto tale carattere situato e astraente del nostro conoscere, capiremo che l’essere si evoca, si annuncia, si celebra, ma non si possiede.
Tale atteggiamento non solo rispetta, ma legittima una volta per tutte la vasta gamma dell’esistente e delle correlate gnoseologie, epistemologie, ermeneutiche, vera moltiplicazione di ricchezza per il compimento del tutto.
Una ragione siffatta, conscia cioè dei propri limiti, perché li presuppone, genererà naturalmente inclusione, flessibilità, dinamismo, dialogo, conversazione, come qualcuno ha voluto definire l’approccio di Papa Francesco al confronto con le più diverse condizioni umane, teoretiche, religiose. Ma la conversazione esige, in certo qual modo, una condizione di almeno virtuale pariteticità fra gli interlocutori, che si riconoscono vicendevolmente come dotati di dignità, credibilità e valore ontologico.
Lo specialismo moderno e postmoderno – in questo – ha costituito un arretramento rispetto all’approccio globale e olistico delle civiltà premoderne, che noi siamo chiamati a recuperare se non vogliamo morire di parcellizzazione e restringimento claustrofobico del nostro orizzonte di vita e di pensiero. In un mondo, come quello tecno-capitalistico, che predilige e anzi impone l’assenza di domanda, sostituita da fruizione di merci ed efficienza nella produzione, si afferma una società distopica, che paventa la ricerca di senso, la questione esistenziale, l’apertura ontologica, proprio in quanto tali disposizioni annullano o – almeno – ridimensionano tale attitudine al consumo e la coazione a produrre sempre di più come unico scopo della vita.
E ha ragione Emanuele Severino, quando afferma che il destino del mondo – oggi – non sono né il comunismo né il capitalismo, ma la tecnica (cioè la ragione ristretta applicata). E che quando questa avrà trionfato, trasformando tutto, anche l’annuncio, in efficienza e successo, solo allora scopriremo l’estrema labilità della bolla in cui ci saremo ridotti e – a fronte della sofferenza generata dalla privazione del senso e dall’urgere di esso – tale bolla scoppierà riconsegnandoci a una apertura ontologica che potrà finalmente riconquistare l’uso di una ragione allargata, virtualmente aperta anche a una fede che sarà – come voleva Jaspers – risultato di un naufragio, salutare naufragio, perché –canta Leonard Cohen nel celeberrimo “Anthem” – “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è così che entra la luce”.
Non a caso, i grandi mistici di ogni tempo, da Meister Eckhart a Teresa d’Avila, da al-Ghazali a Giovanni della Croce, da Paramahansa Yogananda a Thomas Merton, dichiarano una esperienza di abbandono, di naufragio, di superamento del sé, per la quale le tradizionali categorie cognitive e dottrinali impallidiscono sino a svanire, come attesta Tommaso d’Aquino al suo segretario Reginaldo da Piperno che lo esortava a riprendere la scrittura, dopo una straordinaria esperienza mistica avuta durante la celebrazione eucaristica del 6 dicembre 1273: “Non posso, perché tutto ciò che ho scritto è come paglia per me… in confronto a ciò che mi è stato rivelato…”.
Ma allora la ragione che assume integralmente il proprio compito è solo la ragione che sente e che ama, perché solo l’amore implica una intelligenza globale che sa riconoscere le cose e fare unità dei diversi ambiti dell’esperienza. Nessuno conosce più intimamente e integralmente di chi ama, e questa è la ragione per cui una madre – rispetto al proprio figlio – risulta più autorevole di qualsiasi maître à penser. Ma chi ama non può che amare il proprio mondo – intessuto di tutta la fatica di chi lo ha generato – che si sforza di comprendere, di attraversare con il proprio sguardo e la propria intelligenza, che avvicina con il più profondo rispetto, eredità per cui ringrazia il destino e rispetto alla quale si adopera con tutta l’energia di cui dispone per svilupparne ogni potenzialità implicita.
“Così volli che fosse” – pensava Nietzsche che si dovesse dichiarare di ogni nostro istante, assunto con la totalità della propria intelligenza (che per lui era corporea: includeva sensibilità e volitività, oltre che razionalità), e dunque – in qualche misura – compreso, che in questo caso vuol dire amato sino in fondo, eternizzando l’istante. Anselm Grün, monaco benedettino fra i maggiori maestri di spiritualità contemporanea, si avvede però che spesso le nostre vite includono rimpianti, fallimenti, soluzioni mancate. E dunque postula che si debba scindere la nostra conoscenza e il nostro amore dalla presunzione di perfezione del nostro vissuto, appellandosi a un senso della realtà (o Dio?) che non presuppone negli esseri tale perfezione in ordine alla loro amabilità. E dunque sembra prospettare l’esigenza – esistenziale ma anche profondamente razionale – di abbandonarsi con fiducia alla esperienza di una realtà che ha da essere assunta, anche nella sua passio e nei suoi limiti, come luogo generativo di quello status ontologico cui tutto aspira e che – come voleva Kant eminentemente per la coscienza razionale – si configura come il luogo della libertà, contrapposto a quello – meramente naturale – della necessità.
E allora ha ragione Romano Guardini – uno dei maggiori teologi cattolici del ’900 – che dichiara: altra cosa è guardare all’uomo e alla realtà avendo come riferimento ultimo la scimmia di Darwin o il Cristo-Logos della grande riflessione spirituale. Se sgomberiamo il campo da un uso strumentale e integralistico di tale affermazione, certamente del tutto estraneo alla grandezza del pensiero di Guardini, di essa ci deve colpire la radicalità dell’alternativa evocata, che nulla ha a che vedere con le inattendibili obiezioni all’evoluzionismo in sé, e piuttosto si colloca nell’orizzonte ontologico-epistemologico.
È l’elemento fattuale, per esempio la mera biologia, l’ultima parola relativa al senso, o è l’elemento ideale e simbolico, affettivo e relazionale, a svelarci il significato? Siamo il nostro colesterolo e trigliceridi o siamo molto di più, le aspirazioni, i sentimenti, i ricordi che ci attraversano e muovono ad agire? La risposta mi pare scontata, e non può certo implicare una esclusione di piani (come accade per quanti assumono pericolose prospettive antiscientifiche nell’approcciare malattie o ambiente!), ma certamente una delimitazione di ambiti, e dunque una potente rivalutazione di tutto ciò che attiene al mythos, ovvero alla capacità di trasfigurazione che ci abita, che è poi capacità di svelamento, nel gossip della Storia, della Gloria che vi si cela.
Riflettendo poi sulle nostre esistenze, avvertiamo che, quando vengono ridotte alla mera articolazione e soddisfazione di bisogni biopsichici, esse inaridiscono, come si evince nel consumismo di massa, nell’edonismo dominante, nel narcisismo protagonistico dei social media, mentre quando coltiviamo in esse il radicamento e la memoria, il rito e il dono, il pensiero e l’arte, musica, poesia, e soprattutto convivialità, allora esse fioriscono, nutrite da un’energia che sembra finalmente adeguata, non più quella della necessità, ma quella della libertà.
Allora forse, più ancora che di ragione, sia pure allargata, si dovrebbe parlare di intelligenza: intelligenza che riconosce e ringrazia, che venera, tramanda ed edifica, che intravede sempre nuove opportunità di salvezza e valore, in una parola, intelligenza che è amore – come piena accettazione del dono ricevuto.
(da Claudio Sottocornola, Tra cielo e terra, Centro Eucaristico, 2023, pp. 15-23)