FULVIA GIACOSA
Cominciamo non da un autore ma da una mostra, quella tenutasi a New York tra febbraio e marzo del 1913 dal titolo International Exhibition of Modern Art, più nota come Armory Show in riferimento al luogo inusuale in cui si svolse, un magazzino militare.
Perché proprio questa mostra tra le tante del primo Novecento? La sua importanza si deve a due fattori principali: è stata la prima gigantesca esposizione d’arte moderna e contemporanea tenutasi in USA facendo conoscere l’avanguardia europea ancora piuttosto ignota al grande pubblico di quel paese; inoltre ha costituito un’occasione unica per giovani artisti americani che, scavalcando un residuale accademismo, aprivano la strada ad un successivo sviluppo di un’arte specificamente americana che, con lentezza ma inesorabilmente, sposterà nei decenni il mercato artistico dalle capitali del vecchio continente alle metropoli a stelle e strisce. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale le esperienze americane, rivoluzionarie e vincenti (dall’Informale in poi), non solo diventeranno il centro propulsivo di nuove sperimentazioni europee ma faciliteranno pure la nascita di una critica d’arte americana (Clement Greenberg e Harold Rosenberg, per citare i più influenti) mentre si moltiplicheranno le gallerie d’arte specializzate in artisti USA, stimolando il collezionismo privato.
Occorre però un passo indietro nel tempo per capirne la portata.
Per tutta la prima metà dell’Ottocento molti artisti americani, spesso autodidatti, sentivano la necessità di recarsi in Europa affascinati dalla pittura di paesaggio inglese di matrice sia romantica (Turner, 1775-1851) sia naturalistica (Constable, 1776-1837) e dalla francese Scuola di Barbizon (anni Trenta) anticipatrice del realismo di metà secolo. Ma quando tornavano in patria essi trasferivano tali conoscenze sulla varietà del paesaggio americano, dai fiumi e laghi ai deserti, dai monti alle coste. Un esempio precoce e di successo è stata la Hudson River School, cosiddetta per le immagini dei territori limitrofi al fiume Hudson lungo le cui sponde gli artisti dipingevano en plein air. Molti non si conoscevano neppure tra loro ed è stata la critica ad assemblare sotto tale dicitura artisti che operarono orientativamente tra 1820 e 1870 (uno per tutti è Thomas Cole, 1801-1848). L’attenzione era rivolta alla specifica realtà quotidiana di quell’immenso paese. Erano i primi tentativi di creare un’arte che non scimmiottasse quella europea: “due gruppi di opposta tendenza vennero a configurarsi e a confrontarsi: quello che, rifiutando le amarezze di un presente precario, evocava un passato agricolo e isolazionista e che prese il nome di Regionalismo, e l’altro denominato Realismo sociale che intendeva opporsi alle ingiustizie auspicando un cambiamento nella società americana” . Raccontare le diversità del paese, le piantagioni del sud come le città industrializzate del nord, era lo scopo che si prefiggevano le nuove generazioni cambiando sia le iconografie (la cosiddetta American Scene dei primi quarant’anni del Novecento, dal realismo di Thomas Hart Benton e Ben Shan al Precisionismo di Charles Sheeler e l’originale percorso in solitudine di Edward Hopper, autori che operarono a partire dagli anni Venti e Trenta), sia le modalità rappresentative dal taglio fotografico (Sheeler) quando non addirittura cinematografico (Hopper): vale a dire quanto di più lontano si possa immaginare dall’arte europea dei primi trent’anni circa del secolo scorso. Nei primi quarant’anni del XX secolo anche il collezionismo locale, le gallerie d’arte ed alcuni musei iniziarono a raccogliere i frutti di tali ricerche, aprendo un mercato di arte nazionale. Resta comunque innegabile il bisogno degli artisti USA di studiare l’arte europea con frequenti soggiorni a Parigi, Londra, Monaco, Roma.
La mostra del 1913 all’Armory Show ha consentito un primo ma importante confronto tra i due continenti. Per bilanciare almeno in parte il peso dei modelli europei più recenti (Impressionismo e Post-Impressionismo, Fauves, Die Brücke, Cubismo, Futurismo, Der Blaue Reiter) si affermava l’esigenza di una “via americana”, prevalentemente figurativa, ormai sentita come urgente, anche se tra i circa 300 artisti e 1300 opere presenti c’era una netta prevalenza numerica di opere europee. Anzi la sudditanza quanto meno psicologica alla produzione europea è dimostrata dalla presenza di autori ottocenteschi ormai in maggioranza defunti come David e Ingres, Courbet e Daumier. L’Associazione dei Pittori e Scultori d’America, nata due anni prima, progettò l’esposizione.
Per quanto riguarda l’arte americana, molti artisti sono passati nel dimenticatoio, ma tra i più giovani presenti alla mostra merita un cenno Stuart Davis (1892-1964) che all’epoca era in contatto con l’Ashcan School degli anni dieci (ash can è il bidone della spazzatura), un eterogeneo gruppo di realisti attento alla vita squallida dei quartieri urbani più poveri. Davis proprio dopo l’esposizione all’Armory, dove aveva esposto cinque acquarelli, subì una certa fascinazione per le nature morte del Cubismo francese ma, adattando il genere al mondo statunitense, scelse oggetti comuni e immagini della pubblicità, come i pacchetti di sigarette (Lucky Strike, 1921, con il logo a sinistra) che anticipavano di quasi quarant’anni la Pop Art. Altra caratteristica dei suoi lavori era la pienezza della tela (il futuro all over dell’Informale) il cui ritmo richiamava le improvvisazioni jazzistiche di cui era appassionato. Davis è stato dunque un grande anticipatore delle correnti USA del XX secolo, persino di quell’esperienza tarda (anni sessanta) della Minimal Art come ha confermato in un articolo del 1962 Donald Judd, uno dei primi minimalisti.
L’esposizione dell’Armory Show fu infatti foriera di conseguenze a lungo termine: così, ad esempio, tra le due guerre mondiali fu la conoscenza delle avanguardie non figurative europee a stimolare la nascita di un rigoroso astrattismo americano. Nel 1937 si formò un gruppo di pittori non-oggettivi che prese il nome di “AAA” (American Abstract Artists) e che visse a lungo, ben oltre la metà del XX secolo, includendo nuovi affiliati e dando vita a vari raggruppamenti: “Post-Painterly Abstraction” (inizi a metà anni Quaranta) i cui artisti più noti sono Noland, Ad Reinhardt e il giovanissimo Frank Stella (poi uno dei primi artisti Minimal) e “Color Field Painting” (metà anni Cinquanta) con Rothko protagonista, tutte esperienze che perdurano nel decennio Sessanta opponendosi aristocraticamente all’arte “popolare” di Warhol e compagni.
La prima grande mostra sul movimento “AAA” si tenne nel 1937 alla Squibb Gallery di New York; molti furono i saggi di artisti e critici sulle idee estetiche dei diversi raggruppamenti, con l’intento di fare dell’arte astratta un linguaggio internazionale. In un suo saggio Ibram Lassow, intorno al quale si riunivano gli artisti di tale tendenza, chiariva che l’arte nuova non aveva più contenuti narrativi o descrittivi del reale poiché gli elementi propri della pittura (colori, segni, composizione) avevano un potere ben maggiore nel coinvolgere lo spettatore sul piano emotivo e concettuale. Non mancarono comunque le critiche negative della stampa dell’epoca che consideravano le scelte del gruppo troppo “europee”, soprattutto dopo che l’imporsi della cosiddetta “Scuola di New York”, capeggiata da Pollock e che solitamente chiamiamo Informale americano inaugurava, sul finire degli anni Quaranta, una forma di astrazione d’altro segno che alcuni critici definirono – non a caso – “espressionismo astratto”.
Tra i fondatori del gruppo “AAA” c’era Josef Albers (1988-1976) tedesco emigrato in America dopo essere stato docente al Bauhaus e convinto assertore dell’arte come scienza autonoma, non rappresentativa né imitativa, anti-illusionistica e anti-metaforica, priva di significati simbolici o psicologico-espressivi, ma -come la scienza- basata su procedimenti “esatti”, forme oggettive (geometriche) e colori puri, in piena autonomia linguistica, vale a dire “bidimensionalità assoluta della superficie e fisicità totale della peinture” . Lo dimostra la serie “Omaggio al quadrato” con la costante ripetizione della figura, quadrata appunto, determinata dalle stesure cromatiche e i relativi effetti percettivi, poi ripresi dall’Optical Art a partire da metà degli anni Cinquanta. Albers apriva contestualmente la strada al Minimalismo (seconda metà degli anni Sessanta) per il quale si è parlato di “oggetti muti” che dicono null’altro che se stessi.
Ben altro ci sarebbe da aggiungere sulle conseguenze “lunghe” generate dall’Armory Show e il lettore ha l’imbarazzo della scelta su un materiale critico poderoso.
Le dimensioni della mostra, la sua eco internazionale, l’attenzione del pubblico e del mercato, la sperimentazione che ha inaugurato e le strade che ha aperto, l’hanno resa un pezzo importante della storia artistica mondiale. Se prima il mercato acquistava prevalentemente arte europea, ritenuta molto più interessante e raffinata di quella americana, molte gallerie decisero di promuovere l’arte a stelle e strisce. Per limitarci ad un esempio, la Galleria 291 di New York con il suo proprietario Alfred Stieglitz, fotografo di origini tedesche ma nato in America, che sempre più sostenne i giovani artisti operanti nella metropoli.
Buona parte del XX secolo, almeno fino al tramonto degli anni Settanta con l’epilogo delle neo-avanguardie, parla americano, che ci piaccia o no.