PAOLO LAMBERTI
Salvator Gotta o l’oleografia dell’alpino
La figura del piemontese Salvator Gotta (Montalto Dora 1987 – Rapallo 1980) oggi è quasi dimenticata, ma tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta ebbe un buon successo di pubblico, se non di critica. La sua figura attraversa la letteratura italiana più come sodale che come protagonista: lontano parente di Pavese, da giovane frequentò l’ambiente torinese di Arturo Graf e di Gozzano, di cui fu amico; nel primo dopoguerra a Milano conobbe Campanile, Pirandello, Marinetti, nel suo Almanacco di Gotta ci ha lasciato testimonianza delle sue frequentazioni. Vi conobbe anche Mussolini, e si avvicinò al fascismo, di cui riscrisse il testo di Giovinezza (in origine inno goliardico del torinese Oxilia); l’adesione era al fascismo istituzionale e monarchico, infatti rifiutò di schierarsi con la RSI. Si tratta di uno scrittore che si è mosso sulla traccia di generi già sperimentati e quindi facili da far apprezzare al pubblico più vasto; in lui c’è una forte continuità con l’Ottocento, specialmente piemontese, come indica la sua opera più ambiziosa, scritta dopo la II Guerra Mondiale, La saga de i Vela, un ciclo di una dozzina di romanzi con l’ambizione di narrare la storia italiana dell’ultimo secolo attraverso quella di una famiglia: i riferimenti sono a modelli come Fogazzaro e De Robertis, del resto le saghe familiari anche oggi sono best seller sicuri.
Ma la sua opera si lega anche alla letteratura per ragazzi con fini pedagogici, anzi la sua ultima fama è legata alla sua rubrica per la posta dei piccoli lettori ospitata per anni in Topolino. Però è soprattutto Il piccolo alpino a caratterizzarlo, mentre continuazioni sempre più fascistizzate come L’altra guerra del piccolo alpino (1935) e Il piccolo legionario in Africa Orientale (1938) non ebbero particolare successo. Anche qui si coglie il legame con la tradizione piemontese, il libro si può interpretare come una ripresa di De Amicis, in particolare dei racconti mensili di Cuore; persino il titolo richiama La piccola vedetta lombarda o Il piccolo patriota padovano; però il tono avventuroso fa anche pensare ai romanzi salgariani, o anche a Il giornalino di Gian Burrasca, pubblicato in volume nel 1912 dal toscano Vamba (Luigi Bertelli).
La trama è costruita intorno a Giacomino Rasi, che, sorpreso da una tormenta sul Gran San Bernardo, perde i genitori e viene salvato dal cane Pin e dal contrabbandiere Rico; questi è arruolato tra gli alpini e Giacomino lo segue, trovandosi al fronte. Qui ha una serie di avventure che lo portano a catturare nemici e smascherare spie, per poi sapere del padre, ufficiale al fronte; andato alla sua ricerca, affronta altre avventure, sia volando su uno dei primi aerei che finendo prigioniero e venendo ferito. A guerra conclusa ritrova il padre e lo accompagna in Svizzera, dove la madre era stata ricoverata in manicomio; questa al rivedere il figlio guarisce, e il libro termina con la concessione a Giacomino della medaglia d’oro al valor militare.
Per quanto la trama appaia improbabile, esiste un possibile collegamento con una vicenda reale[1]. Tra il 1916 e il 1917 appaiono foto e ricordi di un bambino figlio di un alpino della 264^ compagnia del battaglione Val Cismon, un richiamato veneto cui il figlio aveva portato vesti di ricambio; nella foto del 1916 appare vestito con uniformi alpine e di artiglieria, in quella di inizio 1917 l’uniforme è pressoché regolare, da alpino; la zona è quella del Monte Cauriol. Proprio nel 1917 Salvator Gotta prestava servizio in artiglieria nella zona del Lagorai, a pochi chilometri e pochi mesi dai luoghi delle foto; non è impossibile quindi che la vicenda abbia dato un primo spunto per il libro.
La sua genesi, nelle parole dell’autore, risale alla richiesta di un amico, nel 1924, per un romanzo a puntate per un giornalino da ragazzi; esperienza nuova, ma lo scrittore applica «il sistema […] di inventare personaggi e situazioni, con la più libera fantasia, ma sempre in un contesto di fatti veri […] ai ragazzi piace soprattutto l’avventura […] nulla avrebbe potuto servirmi meglio dei miei ricordi di guerra […] mi venne in mente un’altra mia esperienza vissuta: la montagna, la montagna dove cadono le valanghe».
Il libro risente dell’atmosfera nazionalista dei primi anni del fascismo, come può indicare la dedica: «A mio figlio Massimo, perché impari ad amare gli Alpini d’Italia e a non temere la guerra»; anche la chiusa si mantiene in bilico tra lo spirito di De Amicis e quello patriottico, tra la normalità dello studio e la proiezione bellicista: «Vorrei che lo imitaste, ora, in pace, studiando disciplinati ed obbedienti, pronti sempre a seguire l’esempio della sua generosità, del suo ardire e del suo spirito di sacrificio, quando la Patria in pericolo avesse bisogno di voi». Inutile aggiungere che tutto il testo è al maschile, e che tra i personaggi quelli femminili sono pochi, deboli e materni come la madre, la signora Enrica (eco di Cuore?), o infidi, come Natalia, ostessa e spia.
Il non facile passaggio tra il gusto dell’avventura e la realtà della guerra si coglie in alcune frasi; se «la guerra è la più meravigliosa delle avventure; offre le novità più tragiche ed appassionanti», è anche vero che «Giacomino, nel piccolo cuore generoso, ebbe l’impressione di vedere già morti quei giovani compagni poco prima così allegri e così forti. «Essi andavano alla guerra. Certamente non tutti sarebbero tornati. Andavano incontro alla morte come incontro al destino più naturale». E l’incontro con i primi morti si risolve solo con la retorica dell’eroismo: «un soldato morto! Era proprio morto! Morto per la Patria! Giacomino si sentì nelle vene un fremito, quasicché egli fosse vicino a qualche cosa di sacro, di stupendo. Era il primo morto che vedeva, che toccava, ma non gli fece affatto paura. Era un soldato caduto compiendo il dovere più puro e più alto! Era un eroe!»
La scrittura mantiene uno stile sciolto e paratattico, con molti dialoghi, per meglio adattarsi al pubblico, e soprattutto mira a costruire una trama avventurosa, circondando il protagonista con personaggi positivi (gli alpini) che lo circondano di affetto; né manca la presenza dei tradizionali canti alpini, nati con la guerra: così vi compare il testo de Il comandante la compagnia. La visione degli alpini è quella tradizionale dei montanari: «L’anima dei montanari è rude e taciturna; le sue espressioni di gioia e quelle del suo dolore non sono mai clamorose: l’entusiasmo appare di rado sui volti chiusi e duri. Raramente la gente di montagna compie dei gesti impulsivi che possano destare, in chi vede, ammirazione o sdegno. Ma essa obbedisce a un senso del dovere con serenità pacata e tenace, ferrea nel sacrificio, costante nel lavoro, incorruttibile nel rispetto alle migliori tradizioni, alla fede dei padri, all’amore per la Patria». Soprattutto Giacomino condivide il legame con il battaglione, che perde e ritrova: «Il cuore pareva gli scoppiasse dalla gioia. Egli era in mezzo ai soldati del suo battaglione». Ne condivide il medesimo ethos, anche nel fisico: «Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore».
Infine l’autore cerca di mantenere la dimensione di innocenza, anche dopo Caporetto: «Giacomino era solo nella grande marea. C’era tuttavia, nel suo cuore di bambino, una luce di fede. Il presagio della rinascita gli diede tanta forza, tanta serenità». E ne fa un simbolo di vita, anche quando deve riconoscere la crudeltà della guerra: «la giovinezza ha uno spirito di adattamento a tutti gli eventi, a tutte le miserie, a tutti i pericoli, e canta e gode serena anche là dove regna la morte. La guerra è un nostro istinto oscuro di uomini; è una legge tremenda che pesa sulle nostre anime. Sradicarla dai popoli non sarà forse mai possibile. Chi ha fatto la guerra sa che è una passione, e, come tutte le passioni, crea angosce immani e gioie violentissime».
Piero Jahier o il sacrificio dell’alpino
Piero Jahier (Genova 1884 – Firenze 1966), figlio di un pastore valdese, segue studi teologici alla facoltà valdese di Firenze, dove entra in contatto con Prezzolini e diventa uno degli scrittori de La Voce, di cui fu responsabile tra 1911 e 1913; le sue opere si concentrano tra gli anni Dieci e gli inizi degli anni Venti, poi il suo antifascismo lo porta a subire persecuzioni e a tacere sino al dopoguerra, quando raccoglierà i suoi scritti nel 1964.
Pur già adulto, trentaduenne, nel 1916 si arruola volontario come ufficiale di complemento tra gli alpini, viene destinato all’addestramento delle reclute e poi utilizzato nel servizio P, ovvero propaganda, dove cura uno dei più celebri “giornali di trincea” dopo La tradotta, ovvero L’Astico, dove scrive con lo pseudonimo di Barba Piero.
Dall’esperienza di addestratore al Deposito di Belluno tra febbraio e luglio 1916 nasce Con me e con gli alpini, terminato nei giorni di Caporetto, pubblicato sulla rivista Riviera Ligure di Silvio Novaro a dicembre 1917/gennaio 1918 e in volume nel 1919. Jahier è il più colto degli autori qui trattati, arriva alla guerra con alle spalle una formazione letteraria e sperimentale, e il suo libro è il più noto alle storie letterarie e alle antologie scolastiche; il titolo già indica con chiarezza che a dominare sono il rapporto umano con i soldati e la centralità dell’io, non diversamente che in Ungaretti.
La forma è quella di un diario/raccolta di frammenti ed impressioni, che spesso passano alla poesia; la prosa lirica che ingloba versi, sul modello di Rimbaud, è tipica dei “vociani”, si pensi a Sbarbaro e a Campana; evidente è anche il modello biblico e salmistico, soprattutto nei tratti poetici, mentre la prosa è scarna e frammentata: «Chi pagherà le lacrime? chi rimedierà le afflizioni? Allora mi son risaliti i pensieri arretrati e così oppresso e diviso mi han tormentato; fino alla sentinella che si ferma al tuo arrivo e presenta l’arma alle tue stellette, anche se l’animo è tanto meschino».
Condivisibile è il giudizio di Prezzolini: «Con me e con gli alpini è un libro d’amore per il popolo e di critica della sua classe dirigente. Il Jahier protestante, nel senso di dovere, c’è ancora tutto, a contrasto con i leggeri, i deboli, i finti, i potenti; a contrasto con i poveri, i semplici, gli umili. Il popolo italiano, i suoi dialetti, le sue qualità, i suoi mille lavori, le sue fatiche e gli stenti, sono rievocati e studiati con animo caldo e inneggiante».
La narrazione in realtà rimane lontana dalla guerra, si può parlare di un andare verso il popolo non dissimile dal populismo russo di Herzen e Tolstoj; nei montanari veneti Jahier rivede i valdesi delle montagne piemontesi, vittime della modernità ma insieme portatori di una innocenza contrapposta alla città ed ai suoi vizi: «Ci sono dei visi di santi; usati soltanto dalla passione del lavoro. Guardano con occhi senza malizia, le iridi chiare della montagna dove la lotta è con l’elemento, non con l’uomo. Non sono scettici loro; sono forti: quello che credono lo potranno operare. [...] Mi sforzo di mettermi al loro livello, di farmi le loro vere obiezioni. Ma ecco scopro che salgo di livello io, che proprio io divento più vero».
Jahier, cittadino e montanaro, si distacca dai colleghi ufficiali, si identifica con i soldati: «Criticano perché assaggio ogni marmitta di rancio. E non una volta sola. Sarà ostentazione. La spesa è pur sempre uguale. Ma nessun rancio è uguale, se pure è uguale la spesa. Disuguale di sale, disuguale di cottura: e lo sa valutare il soldato che mangia rancio solo, che ha il fresco appetito di tutto il corpo e non appetito di stomaco, come il borghese viziato».
Si coglie una nostalgia quasi prepasoliniana per il mondo contadino: «Dicevan che i popoli contadini son popoli di natura, popoli inferiori; che i popoli meccanici son popoli superiori. Ma ora che son rimasti soli, tutte le loro meccaniche non bastano a fabbricare un chicco di grano; e tutta la loro chimica non riesce a spremere una goccia di latte per i loro figliuoli».
Il passo più celebre, riportato nelle antologie anche oggi, è dedicato al soldato Somacal Luigi: «Il soldato Somacal Luigi da Castion recluta dell’84, 3 categoria era stato cretino dalla nascita e manovale fino alla chiamata. Cretino vuol dir trascurato da piccolo, denutrito, inselvatichito. Manovale vuol dir servo operaio, mestiere sprezzato. Il suo lavoro consisteva in nulla essere tutto fare. Ne porta i segni il corpo presentato alla visita militare. Somacal ha offerto alla patria un fardello di ossa tribolate in posizione di manovale».
Tocca al tenente, tocca al poeta restituirgli l’umanità, e ricevere in cambio l’autenticità: «Il suo tenente non ha riso quando l’ha guardato; anzi ha detto che un soldato non conta per quel che l’han fatto i suoi parenti, ma per quello che sa diventare. […] «Ecco il mio amico Somacal che ha fatto trenta» dice il tenente. Dice proprio amico. Amico, lo chiama, anche dopo. Perché anche lui ha cercato come Somacal di imparare la vita. […] Ma Somacal resta alpino. Non per la patria. Somacal non saprà mai cos’è patria. Ma perché si sente in un’aria buona. Vorrebbe rimanere in quell’aria buona fino alla fine. Vorrebbe sentirsi ripetere che è il suo amico. Purché lo dica ancora: sei il mio amico. Certo, Somacal, soldato stronco, uomo zimbello, sei il mio amico. Ho trovato vicino a te l’onore d’Italia. Dico che è in basso l’onore d’Italia, Somacal Luigi».
L’esperienza trasforma il tenente, che pure concede all’esercito un ruolo di educazione, di palestra di disciplina: «Unica scuola che abbia serbato un orario ragionevole: accordato col sole; che abbia serbato un abito razionale: accordato alla media del clima; e un cibo proporzionato al consumo. Unico istituto che possa educare completamente, perché ha un completo-potere; e possiede veramente un uomo, nel suo cibo, nel suo riposo, nel suo costume».
Il dialetto, i canti accompagnano la fatica dell’addestramento, alla fanfara è dedicato un capitolo; nel dopoguerra, nel 1921, Jahier raccoglierà i canti nel suo Canti di soldati. E dal momento della partenza dei soldati per il fronte nascono pagine elegiache.
Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.
Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
popolo che muore in guerra “perché mi vuole bene”
“per me” nei suoi sessanta uomini comandati
siccome è il giorno che tocca morire.
[1] https://www.ilcinque.info/post/il-piccolo-alpino-del-lagorai-tra-storia-e-romanzo