Giancarlo Baroni sogna di essere un castoro

“Penflute”, illustrazione di Alberto Zannoni per il libro di Baroni

SILVIA PIO (a cura)

Per il suo settantesimo compleanno Giancarlo Baroni ha voluto parlare di sé in questo libretto dal titolo che è già un programma: A occhi aperti sogno di essere un castoro. Alcune cose che posso dire di me. Con sincerità e coraggio si espone raccontando l’inadeguatezza, le manie, i supposti difetti, persino i disturbi fisici che hanno caratterizzato una vita da autodidatta e dilettante (come si definisce lui stesso). Una vita nella quale si è sempre dedicato alla lettura, alla scrittura e alla letteratura.
Ma torniamo al titolo, che l’autore spiega nella nota biografica. «I denti sono stati per me un precoce e duraturo fastidio… Ho letto che i castori hanno incisivi così robusti, sani e forti da rosicchiare un albero fino a farlo crollare. Ad occhi aperti sogno di essere un castoro.»
Con il tocco leggero e ironico che lo caratterizza, Baroni passa in rassegna la sua tendenza a dimenticare, il suo rapporto con la solitudine e il fantasma che la abita, il suo approccio al lavoro letterario, «l’insicura, precaria, travagliata, inquieta» beatitudine della scrittura, i problemi di stomaco, l’adolescenza caratterizzata da «una cappa mentale, emotiva, sentimentale» che lo imprigionava, il rapporto conflittuale tra la voglia di viaggiare e fotografare e l’assillo delle scomodità («non amo l’avventura»), e infine uno dei pochi vantaggia dell’invecchiamento: l’affievolimento dei sintomi allergici. Chiude la serie di capitoli, tutti farciti di riferimenti letterari, l’ultimo dedicato al mistero, la parola che scriverebbe se – «prima della partenza e dell’addio definitivi» – dovesse definire «la vita, le cose, il mondo, l’universo». «Il mistero è l’invisibile senza il quale il visibile non esisterebbe, è un enigma sconosciuto anche a se stesso; ha a che fare con la paura vertiginosa dell’ignoto e con il miracolo stupefacente dell’esistere.»
Riportiamo di seguito il primo capitolo e terminiamo dicendo che Giancarlo Baroni collabora da anni a Margutte con i suoi racconti di viaggio, le sue poesie, i suoi saggi e le sue fotografie.

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I guasti della memoria

Ho poca e scarsa memoria. Qualche esempio? A un passo dalla cassa, con il carrello colmo, non ricordo il numero del bancomat; esco dalla fila, mi aggiro per il supermercato concentrandomi sul numero invisibile e latitante, ripongo sconsolato la merce sugli scaffali ed esco senza spesa. Mi è successo in passato, adesso non più: ho smesso di frequentare gli ipermercati e custodisco il numero del bancomat nell’agendina salva memoria. Credo che un episodio simile sia accaduto a molti, soprattutto se stanchi, stressati e di fretta. Un altro esempio. Quando incontro qualcuno che conosco evito di chiamarlo immediatamente per nome, temo infatti di attribuirgliene uno sbagliato, prendo tempo. Che figura ci farei? Potrebbero risentirsi, scambiare la mia dimenticanza per indifferenza e disistima, togliermi l’amicizia. Il momento più imbarazzante della presentazione di un mio libro è quello delle dediche. Evito di scrivere “A Piero” oppure “A Paolo” e mi affido a frasi generiche ed anonime come “A un caro lettore” o “Con amicizia”. Se scordo facilmente i nomi delle persone, non dimentico però i loro volti: sono molto fisionomista. Un ultimo aneddoto. Quando mia moglie ed io viaggiamo, ci fermiamo solitamente in albergo. Ti ricordi, mi chiede a distanza di anni, quell’hotel…e comincia ad elencarmi la posizione dell’albergo, il suo nome, l’arredamento della camera e il suo prezzo. Io mi limito ad annuire senza aggiungere dettagli, preferisco non rivelare che in realtà non rammento niente o quasi, come non ci fossi mai stato. Lo stesso mi capita con i film, li guardo e presto li dimentico: una pellicola che vedo più volte risulta sempre una prima visione. Devo preoccuparmi? Non credo, perché questa smemoratezza dura tenacemente da più di trent’anni senza peggiorare. Mi rammarico e mi affliggo invece quando smarrisco le cose di valore o comunque utili: le chiavi dell’auto, di casa o della bici, il portafoglio, il cellulare, la macchina fotografica, l’ombrello, i guanti, l’agendina che avrebbe dovuto aiutarmi a ricordare di non scordare. Ma perdere gli oggetti riguarda forse più un eccesso di distrazione che un handicap della memoria; contribuisce subdolamente anche un senso di colpa e di espiazione: “vedi che prezzo paghi per la tua sbadataggine e trascuratezza, per avere la testa inutilmente altrove?”. Smarrire qualcosa implica probabilmente anche un insensato desiderio di alleggerirsi le tasche, la borsa, lo zaino, la mente: “con poca roba ti sentirai meno pesante”. Ho notato che quando crescono preoccupazioni, affanni, impegni, stimoli e il cervello viene invaso da emozioni e pensieri molesti, aumenta inevitabilmente il livello di distrazione. La mia auto ne è la prova lampante. Non ho mai fatto incidenti, tuttavia la carrozzeria è piena di sfregi, botte, traumi accumulati mentre entravo ed uscivo dal garage pensando ad altro. Ogni ammaccatura ha una storia e un nome: litigio familiare, prima della gastroscopia, dopo la colonscopia, delusioni e seccature varie… A mia parziale giustificazione e discolpa il fatto che il mio condominio risale alla prima metà degli anni Sessanta, quando le autorimesse ospitavano macchine poco ingombranti; adesso quante manovre e abilità e concentrazione per accostare l’auto alla parete interna in modo da incastrare poi, nello spazio rimasto, bicicletta e scooter.

Mi sconcerta e turba invece l’avere dimenticato momenti salienti e lunghi periodi della mia esistenza. Sono favorevole a un moderato e salutare oblio che ci aiuta a sopportare benevolmente il nostro destino, ma credo che l’avere accantonato, esiliato, nascosto sotto il tappeto, relegato nell’angolo in penombra tutto quanto mi feriva, sia stato un meccanismo psicologico di autodifesa che, mentre invecchio, rivela i suoi difetti e finisce per ritorcersi dannosamente contro me stesso. Vorrei ricordare con lucidità e nitidezza volti, corpi, sensazioni, frasi, gesti, che purtroppo riemergono soltanto come frammenti sfumati e incompleti, come tessere di un mosaico senza una vera identità, come pezzi di un manifesto strappato. A cosa mi servirebbero? A esprimere un giudizio più cosciente e completo su di me e sulla mia vita, a ricucire le lacerazioni della memoria, ad aggiustarne i guasti, a fare i conti con il passato. Quando sento qualcuno parlare di fatti che mi riguardano senza che io ne abbia piena memoria e consapevolezza, provo frustrazione, invidia, amarezza.
Insomma tendo facilmente a dimenticare, per ogni ricordo che entra un altro abbandona l’archivio della mia memoria; un archivio-magazzino stipato e poco capiente. I libri che scrivo e le fotografie che scatto mi aiutano a ricordare. I libri trattengono e fissano sulle pagine pensieri, sentimenti e riflessioni; le fotografie (fotografare è meno di una passione ma più di un passatempo) custodiscono immagini, soprattutto di luoghi, che altrimenti sbiadirebbero. Nelle mie poesie non gradisco raccontare in modo esplicito di me, preferisco parlare di altre persone e personaggi, stabilire con loro un contatto, una relazione e uno scambio, riferire storie e vicende che li riguardano, mimetizzarmi e mettermi nei loro panni, guardare il mondo attraverso i loro occhi e farli esprimere direttamente. La mia carente e lacunosa memoria mi spinge probabilmente a immedesimarmi in loro. Possono essere viaggiatori ed esploratori (come Marco Polo), eroi del mito (come Ulisse), scienziati (soprattutto Darwin), una serie di pittori (da Masaccio a Basquiat), singole persone comuni, come un’anonima signora affacciata alla finestra e alle prese con il rito quotidiano del caffè. Con l’avanzare degli anni, però, è riaffiorata l’urgenza di dire io, di parlare anche di me, di rivelare ciò che è possibile confidare.
Per scovare la causa del mio problema mnemonico mi sono rivolto a sir Arthur Conan Doyle e, grazie a lui, al più sagace degli investigatori: Sherlock Holmes. «Vede» spiegò «secondo me il cervello di un uomo in origine è come una piccola soffitta vuota, e bisogna metterci i mobili che si scelgono […] È un errore pensare che questa stanzetta abbia muri elastici che possono allargarsi all’infinito. Stia pur certo che viene il momento in cui per ogni aggiunta alle proprie nozioni si dimentica qualcosa che si sapeva» (Uno studio in rosso).
Elementare, Sherlock, forse troppo elementare…