ANTONIO VIGLINO
Poiché gli uomini erano arroganti e sopraffattori, YHWH distrusse la vita sulla Terra attraverso un immane diluvio, dopo aver avvisato Noakh, giusto e pio, affinché si salvasse dal finimondo e preservasse le specie animali. Terminato il cataclisma, i sopravvissuti eressero un sacrificio, di cui Dio si beò a tal punto da riconoscere di aver ecceduto nel voler sterminare la razza umana, constatato come essa sia incline al male, e quindi proclamò una alleanza, suggellata dall’arcobaleno, con tutti gli uomini (le cosiddette sette leggi noachidi).
Tutti naturalmente conoscono l’episodio dell’Arca di Noè narrato dal libro di Genesi. Leggendo i testi sumero-accadici, nonché quelli successivi assiri e babilonesi fino alle versioni dell’epopea di Gilgamesh, ci si stupirebbe di notare come nella Terra tra i due fiumi per ben tre millenni si è fatto riferimento a una vicenda praticamente identica. Il dio Enlil volle punire il genere umano per la sua violenta rumorosità scagliando sulla Terra un diluvio, ma il dio Enki riuscì con uno stratagemma ad avvertire il fedele Utnapištim, o Atraḫasis o Ziusudra, a salvarsi dalle acque grazie alla costruzione di una nave, sulla quale vennero imbarcate coppie delle diverse specie animali. Anche qui, terminato l’evento, gli scampati fecero un sacrificio sul quale gli dèi, rattristati dalla mancanza di olocausti e devozioni perché appunto gli uomini erano periti, si fiondarono “come mosche”.
Gli studiosi biblici interpretano questa identità dei miti ebraici e mesopotamici ragionando che la più parte dei libri che costituiscono la Torah, o Pentateuco, furono redatti o riscritti durante la cattività babilonese, dove gli israeliti assorbirono le tradizioni locali (un’altra convergenza in tal senso è ad esempio l’esser stati tanto Sargon quanto Mosè salvati dalle acque nel cesto in cui erano stati neonati abbandonati).
E questa soluzione esegetica sull’origine di alcuni delle storie dell’Antico Testamento può apparire a prima vista soddisfacente. Però, se solo si allarga l’orizzonte di veduta, distogliendolo dal ristretto Medio Oriente, si notano altre strane coincidenze. Anche nei miti greci è presente un episodio di diluvio universale: Zeus volle punire il genere umano per la superbia mandando appunto un diluvio, dal quale si salvò il solo Deucalione, avvisato da Prometeo. Allargando ancora lo sguardo, non pochi papiri egizi, tra cui una versione del Libro dei morti, riportano le vicenda per cui gli dèi, Atum, dio primordiale, o altrove Thot, vollero inondare la Terra con un diluvio, mentre per altro verso è conosciuto il mito di Ra che mandò Sekhmet a distruggere il genere umano. Analogo racconto si ritrova poi nell’Avesta, il testo sacro dello Zoroastrismo, nella letteratura Hindu e in quella Tamil dell’India meridionale, dove si dice che un cataclisma di piogge cancellò Kumari Kandam, l’Atlantide indiana, e si ritrova in Platone stesso, che nel prologo del Timeo scrive appunto che (come disse a Solone un sacerdote egizio di Sais) Atlantide sparì tra i flutti cagionati da un cataclisma occorso circa nel 9.600 a.e.v.
Mark Isaak ha collazionato i miti che parlano del diluvio universale, ed ha scoperto che oltre duecentocinquanta civiltà ne parlano, in termini più o meno identici, da ogni angolo del pianeta (Flood Stories from Around the World, testo reperibile nel web).
Il fatto che duecentocinquanta culture rispecchianti l’intero globo parlino esplicitamente di un immane finimondo portato dalle acque che decimò l’umanità, da un lato rende effettivamente legittima la definizione di diluvio “universale”, e per altro verso getta una nuova luce sull’episodio dell’Arca di Noè, rendendo poco più che risibile l’esegesi che lo vuole una semplice riscrittura di testi mesopotamici: se tutti i miti del mondo hanno narrato di uno stesso evento, il notare che uno di essi sia simile ad un altro diventa insignificante.
E sorge in verità quantomeno il dubbio che non abbiano ragione gli studiosi ebraici più ortodossi, che ritengono il diluvio universale un fatto realmente accaduto. Certo non si tratta di supporre che il libro di Genesi dica la verità, e il Popol Vuh dei Maya Quichè o le tradizioni dei nativi nordamericani o australiani invece no: tutte le tradizioni descrivono lo stesso accadimento. Si tratta di dover concludere che se tutte le civiltà terrestri raccontano uno stesso episodio, quell’evento sarà davvero accaduto, e poi ogni civiltà lo avrà interpretato e imbellettato secondo le proprie credenze.
Se in un aula di tribunale duecentocinquanta testimoni affermassero, chi ricordando fedelmente chi in modo confuso, di aver assistito a un certo fatto, e poi comparisse un teste che dicesse di non aver mai assistito a un siffatto evento, è pressoché certo che il giudice non si baserebbe su quest’ultimo intervento per concludere che l’evento mai accadde — anche perché, secondo la logica, l’asserire di non aver contezza di un fatto non implica certo il negare la possibilità della sua sussistenza. Ebbene, il pensiero scientifico occidentale è questo duecentocinquantunesimo teste, che giunge sul proscenio della storia in grande ritardo rispetto a tutti gli altri testimoni, cioè a cose fatte e compiute quando sulla scena del delitto sono ormai sparite da tempo le tracce del misfatto, e nonostante ciò pretende che la sua versione di assente ai fatti storici sia presa come prova di inesistenza.
Si aggiunga a ciò che alcuni scienziati hanno scoperto che proprio nell’epoca in cui Platone fissa la scomparsa di Atlantide una pioggia di meteoriti investì la Terra, cagionando la fine dell’era glaciale allora in corso, con conseguente scioglimento dei ghiacci che ricoprivano quasi tutta l’Europa e il Nordamerica, e successivo innalzamento del livello dei mari e degli oceani per centoventi metri, il tutto attraverso sconvolgimenti climatici e calamità naturali immani. Che ci siano stati lo scioglimento repentino dei ghiacci e l’innalzamento dei mari è dato scientificamente certo e noto, mentre ancora vi è discussione su cosa causò questi eventi — la menzionata tesi della caduta di uno sciame di meteore pare indubitabile data la scoperta in più luoghi del mondo di uno strato geologico che lo comprova, ma non è ancora stata metabolizzata dalla comunità accademica.
Di fronte alla massa delle prove testimoniali ed alle puntuali evidenze scientifiche, resta solo la supponenza della nostra scienza ottocentesca, che da Darwin ad oggi si pasce tronfia di pregiudizi fondati sulla ragionevolezza mera, a negare un fatto che è sotto gli occhi di chiunque voglia vederlo.