FULVIA GIACOSA
Se si guarda alla scultura della prima metà del Novecento si riscontrano, accanto a forme figurative, alcune tendenze aniconiche e geometrizzanti. I prodromi si hanno già intorno al 1910/11 in alcuni scultori aderenti al Cubismo. Più che a Picasso – forme riconoscibili anche se realizzate con assemblaggi di materiali di scarto come “Chitarra” o “Testa di toro” – penso a Alexander Archipenko che partecipò alla mostra newyorkese dell’Armory show (1913) con la celebre “Medrano II”, una figura ispirata al circo Medrano appunto ove molti artisti che vivevano a Montmartre andavano a passare le serate, opera realizzata con materiali vari e dal dinamismo bocconiano; ma è soprattutto con “Walking Woman” del 1912 che l’autore si allontana più chiaramente dalla figurazione, alternando pieni e vuoti, con un “buco” centrale che anticipa le forme cave dell’inglese Henry Moore, altro grande scultore del Novecento insieme a Calder. Residui figurativi, nonostante la scomposizione in piani e linee-forza che assommano molti punti di vista, si hanno anche nel futurista Boccioni; due lavori famosi sono “Forme uniche nella continuità dello spazio” (1913) e la testa bronzea della madre titolata “Antigrazioso” (1912/13), affine alla picassiana “Testa di Fernande” (1909/10) maggiormente immobilizzata nella geometria tagliente dei piani. Nel secondo e terzo decennio del XX secolo un linguaggio aniconico caratterizza il Costruttivismo russo (Tatlin, Pevsner, El Lissiysky), il Neoplasticismo olandese (Wantongerloo) e alcuni artisti della Bauhaus (Moholy-Nagy). Tuttavia negli anni Trenta il “ritorno all’ordine” favorisce le correnti figurative e il clima cupo dei totalitarismi tende ad emarginare gli astrattisti che fanno parte di piccoli gruppi sostenuti da critici non allineati al clima dominante: Concretismo, Circle et Carré, Abstraction-Création sono interessati alla struttura autonoma del linguaggio artistico, cosa che avrà seguito nei decenni successivi. Anche in America la situazione è in parte simile. Accanto al Realismo sociale di tipo iconico si costituisce l’associazione “AAA” (Associazione Artisti Astratti) della quale fecero parte anche molti europei emigrati che mantenevano contatti con i gruppi su elencati. Un dialogo si instaura tra costoro e i surrealisti trasferitisi in America, tra cui Max Ernst che qui sposa Peggy Guggenheim la quale nel 1947 apre la sua famosa galleria Art of this Century. All’inaugurazione Peggy portava “un orecchino fatto da Tanguy e uno fatto da Calder per mostrare la mia imparzialità tra l’arte surrealista e quella astratta”, disse.
È in questo clima che compare sulla scena Alexander Calder in contatto con artisti non figurativi al di là e al di qua dell’oceano per i suoi lunghi soggiorni in Europa, la cui ricerca resterà sempre originale.
Alexander Calder (1898-1976) nasce a Philadelphia da una famiglia di artisti: il nonno e il padre sono scultori, la madre pittrice. Alexander passa l’infanzia in un clima favorevole perché entrambi i genitori incoraggiano le sue inclinazioni artistiche e lui dimostra fin da piccolo una innata facilità di manipolazione dei materiali. Dopo essersi laureato in ingegneria meccanica, nel 1922 si iscrive all’Art Student League di New York e inizia la carriera artistica. Agli esordi pratica il disegno e la pittura di piccole figure tratte dalla quotidianità; come disegnatore per un giornale satirico trascorre nel 1925 due settimane col circo Barnum facendo schizzi di un mondo che lo affascina e realizzando le prime sculture in fil di ferro. Il trasferimento a Parigi nel 1926 segna l’inizio di un rinnovato interesse per la tridimensionalità nella quale trasporta le figurine dipinte, usando materiali poveri: oltre al fil di ferro anche piaste metalliche, legno, stoffa, pelle, cartone, spago e oggetti di recupero. Tra il 1926 e il 1931 costruisce in miniatura il famoso Calder’s Circus che porta in giro in grandi valigie con una settantina di minuscole figure e oggetti di scena. Con tale armamentario realizza performances divertenti che prevedono una musichetta da circo in sottofondo e interventi vocali dell’artista. Animali, domatori, pagliacci, cavallerizze, acrobati sono mosse dall’artista con le mani o tramite cordicelle e congegni a manovella. Il Circus, operazione affatto banale bensì complessa sul piano ingegneristico, spalanca la porta ad un’arte cinetica cui l’artista lavora dagli anni Trenta in poi. Gli incontri con Mondrian e Mirò sono di stimolo: dal primo viene il rigore geometrico e la scelta di colori primari, dal secondo il biomorfismo fantastico e surreale. Non manca una fascinazione per la casualità di Jean Arp che Calder affida ai movimenti d’aria. A Parigi nascono i primi Mobiles (dal 1931), ancora mossi da manovelle e motori mentre poco dopo saranno in grado di oscillare da sé. Il termine si deve a Duchamp e letteralmente significa “movente” ma allude sia al moto fisico sia a quello psicologico (nel senso di “motivazione”), tipico doppio senso duchampiano. Essi, esposti nelle mostre di “Abstraction-Création”, sono costituiti da sottili lamine metalliche, dipinte solitamente di rosso, blu, giallo, nero o bianco (i colori di Mondrian), legate tra loro da fili metallici e appese al soffitto in modo che possano muoversi nello spazio. Al ritorno in Connecticut ottiene la prima personale a New York nel 1934, curata da James Sweeney con cui ha stretti rapporti d’amicizia. Durante la II G. M. Calder sostituisce il metallo con legni leggeri in una serie di lavori che Sweeney e Duchamp chiamano “Costellazioni” anche se Calder ha sempre negato qualsiasi riferimento preciso. Con le sue “sculture/non-sculture” di rami sottili, foglie, animali l’artista crea una natura artificiale e giocosa in movimento. Per questo si è parlato di arte cinetica che ha il suo momento d’oro nel decennio 1955-’65 sia in America che in Europa, e che in Italia è ben rappresentata da Bruno Munari con le sue “macchine inutili” (poiché estranee a qualsiasi fine utilitario come dev’essere l’arte) le quali, libere nello spazio, sono soggette alle condizioni ambientali. Al fruitore chiede un coinvolgimento diretto, spingendolo a indagare il funzionamento della percezione visiva. Nelle opere di Munari e Calder ogni minima variazione di un elemento produce – a catena – altre variazioni, queste sì programmate e, a volte, accompagnate da effetti sonori. Ciò che nei mobiles di Calder colpisce è l’armonia generale che può essere paragonata alla danza. Tutto è programmato in modo che equilibrio e movimento dialoghino grazie alla meccanica dell’opera con bilancieri, leve, anelli (“Trappola per aragoste e coda di pesce”, 1939, in alluminio dipinto, realizzato per il MoMa). Con tali operazioni Calder dà vita ad un’oasi di piacere visivo in un mondo troppo spesso amaro. Duchamp parla di “imprevedibili arabeschi”, Calder dice che essi “danzano con la gioia di vivere” e sono dei “Mondrian che si muovono”, Jean-Paul Sartre afferma che i mobiles di Calder catturano la vita e “sono invenzioni liriche, combinazioni tecniche, quasi matematiche e allo stesso tempo il simbolo sensibile della Natura”.
Dopo la II guerra mondiale Calder alterna lunghi soggiorni negli USA e in Francia ed in entrambi ottiene importanti riconoscimenti. Pur continuando a realizzare i mobiles che nel tempo diventano sempre più estesi fino a raggiungere parecchi metri, lavora anche su oggetti fissi che Arp chiama “Stabiles”. È come se il mobile si fosse appoggiato a terra senza perdere in leggerezza. Le forme sono fantasie biomorfiche, inizialmente modellini di dimensioni ridotte ma presto gigantesche e pensate per gli spazi aperti (soprattutto i macro-oggetti degli anni Sessanta e Settanta); hanno un calibrato e magico equilibrio, appoggiate in modo apparentemente precario al suolo, pronti per espandersi nel vuoto. Il materiale metallico (acciaio) è colorato (prevalgono il rosso e il nero), tenuto insieme con chiodi o bulloni e le forme fanno dialogare geometria e natura, questa ultima richiamata anche dai titoli (Fenicottero, 1973). Inoltre l’artista crea i mobiles-stabiles che uniscono la forma fissa e solida con quella aerea e mobile (Untitle, 1958). Nel frattempo la sua produzione si amplia all’illustrazione di libri, a creazioni di gioielli, arazzi, al teatro. Il suo lavoro è stato premiato nelle più importanti mostre internazionali compresa la Biennale di Venezia del 1952 che gli ha conferito il Gran Premio della Scultura.
Calder non ha seguaci diretti nel corso del Novecento ma ha lasciato un’eredità che si legge tra le righe. Innanzi tutto l’apertura verso un carattere dinamico della scultura anche quando l’opera è monumentale (Stabiles), senza eccessi costruttivisti da cui pure ha preso le mosse e lo snaturamento dell’idea tradizionale di scultura che diventa fonte di continua “sospesa” (Mobiles); in secondo luogo la scelta di materiali “poveri” e an-artistici che rispecchiano una realtà sempre più artificiale, per cui centrale diventa il problema del rapporto arte-industria e arte-tecnologia; in terzo luogo la tendenza performativa (il Circus) che esplode nel secondo Novecento e ancora permea l’arte d’oggi; infine la rivalutazione dell’artista come homo faber e ludens che crea per il puro piacere, suo e del fruitore. In tal senso gli è fratello il più giovane Jean Tinguely (nato nel 1925): i suoi macchinari metallici, i famosi “Meta-Matic” degli anni Cinquanta che diventano enormi ingranaggi nei Sessanta, sono messi in moto da motorini elettrici e arricchiti da effetti sonori: dunque un’esperienza plurisensoriale per un pubblico che è invitato a intervenire come avviene in “Cyclograveur” del 1959, una specie di bicicletta collegata ad un foglio da disegno, disegno che viene automaticamente creato “pedalando”. Tinguely e Calder, insieme ad altri, espongono nel 1955 nella grande mostra parigina “Le Mouvement” sulla quale il critico Pontus Hulten scrisse: “un’opera d’arte dotata di ritmo cinetico è uno degli esseri più liberi che si possano immaginare, una creazione che, affrancata da tutti i sistemi, vive di bellezza”. Ecco, possiamo dire che la parola chiave di tutto il lavoro di Calder è “libertà creativa”, fatta di levità materiale e godimento visivo, occasione per ritrovare un “divertimento” etimologicamente inteso.
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