Attrito. Una storia proprio così. A 105 anni dalla battaglia del solstizio (II)

Passchendaele

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PAOLO LAMBERTI

Cap. 3 L’Intesa: la forza dell’attrito

«L’impatto delle nuove armi creò un nodo gordiano di linee di trincee statiche, mentre lo sviluppo della logistica combinato con i nuovi mezzi di trasporto consentì di tenere sul campo armate di milioni di uomini quasi all’infinito. Qualunque cosa accadesse, era comunque probabile che la guerra sarebbe stata lunga e terribile» (Peter Hart, La grande storia della Prima Guerra Mondiale).
Ma in opposizione al pessimismo tedesco, si può ricordare una frase di Churchill, già allora tanto lucido quanto eloquente, risalente al 1915: «Without winning any sensational victories we may win this war. We may win it even during a continuance of extremely disappointing and vexatious events…. [Victory depends on] the capacity of the ancient and mighty nations, against whom Germany is warring, to endure adversity, to put up with disappointments and mismanagement».
Dunque la strategia di attrito è non il risultato del fallimento dei militari, ma un pilastro della Guerra dell’Intesa; bene definisce l’attrito Philpott: « The Allies began with or secured advantages on them all as the war progressed, making their victory only a matter of time … Demonstrating to a powerful coalition that they had lost the war, however, was to require intensive, prolonged and traumatic effort, endurance and sacrifice … A perception of attrition as a cruel, simplistic military strategy … became deeply entrenched thereafter. Yet the gradual, systematic destruction of the enemy’s military capability proved both necessary and effective when huge armies based on industrialised empires took the field… Attritional battles such as Verdun and the Somme in 1916 were certainly long, horrendous and hugely costly in lives and resources. But since the premise of attrition was to grind down the enemy on the battlefield … such battles were inevitable» (William Philpott, Attrition. Fighting the First World War ). Strage quindi, ma non inutile.

Cap. 4   Oltre l’attrito: l’illusione della guerra di movimento

Tra la guerra franco-prussiana del 1870 e la Blitzkrieg della II GM la I GM spicca come un’anomalia per la propria incapacità di tornare alla guerra di movimento: perché non furono spezzate le trincee? La risposta è: perché sono la norma. L’assedio di Parigi del 1870-71 o battaglie come Stalingrado, Cassino, Okinawa sono perfettamente uguali a Verdun, al Carso, alla Somme. O alla campagna di Grant a Vicksburg, o alla battaglia di Mukden tra russi e giapponesi nel 1905-06.
Due elementi caratterizzano questi scontri: sono battaglie di trincea e di attrito, durano settimane con perdite elevatissime per poco terreno; e non sono risolutive: dopo ogni scontro, lo sconfitto continua a combattere, a meno che non vi sia un esaurirsi delle risorse ed un collasso della società.
In realtà la guerra di movimento fu tentata più volte; ma non seppe ridurre le perdite; le perdite francesi più elevate durante la guerra non furono a Verdun, ma nei primi due mesi di guerra, proprio nella fase di movimento culminata nella battaglia della Marna. Furono questi tentativi di allontanarsi dai fronti principali a disperdere forze ed a causare le perdite più inutili della guerra.
La stessa invasione del Belgio nasce dal bisogno di evitare l’esperienza del 1870, in cui le prime grandi vittorie non seppero far crollare la Francia, costringendo all’assedio di Parigi. Parimenti la distruzione della Serbia e della Romania, e l’offensiva su Caporetto, ottennero grandi vittorie di scarso valore, al termine delle quali le truppe tedesche dovettero tornare al Fronte Occidentale. Quanto alla lungimiranza della guerra sottomarina, basti pensare che offrì il casus belli agli USA. Paradossalmente l’unica diversione efficace non fu militare ma politica: il treno blindato che riportò Lenin in Russia: ma il bisogno di materie prime e l’avidità impedirono ai tedeschi di concentrarsi su un unico fronte.
Per l’Intesa, e soprattutto per la Gran Bretagna, l’illusione fu quella dell’Oriente, tanto cara a Churchill. Oggi sono guerre quasi dimenticate: la disastrosa campagna dell’Iraq, che costò ai britannici più di 150.000 vittime; Gallipoli, tomba dell’ANZAC; la campagna di Palestina, di cui ci rimangono Lawrence d’Arabia e il Medio Oriente attuale; “il più grande campo di concentramento di prigionieri alleati”, come veniva chiamata l’armata alleata in Tracia, in cui servirono anche decine di migliaia di soldati italiani; la conquista delle colonie africane della Germania, due anni di malattie e perdite contro poche centinaia di tedeschi.

Cap. 5   L’attrito sul campo

Era la Germania a dover vincere in fretta: anzi proprio la crescente forza delle nazioni alleate spinse i militari tedeschi a rischiare la guerra, che non avrebbe potuto che essere più difficile ad ogni anno che passava. Certamente una diplomazia più intelligente, più flessibile e meno egoista avrebbe dato risultati molto migliori, ma pare che quest’idea continui a sfuggire ai tedeschi (e ai russi).
La tradizionale immagine di inutili, sanguinosi assalti alle trincee può essere valida per i primi anni di guerra, ma al contrario catturare le prime trincee avversarie divenne sempre più la norma. L’artiglieria pesante era in grado, se ben coordinata, di spianare la via ai soldati. Ecco perché la I GM è soprattutto una guerra di masse di artiglieria, alimentate continuamente da un gigantesco sistema di fabbriche.
Ma proprio la sua efficacia segnava il suo limite: man mano che i sistemi di trincee acquistavano profondità, la gittata dei cannoni segnava l’inevitabile limite dell’avanzata, e il terreno, sconvolto dai bombardamenti, non permetteva di far affluire truppe e di spostare i pesanti cannoni abbastanza in fretta da poter approfittare dell’avanzata: «ogni attacco – preparato con molta cura – e largamente alimentato porta in tempo relativamente assai breve ad un risultato soddisfacente dopo di che l’equilibrio delle forze opposte si stabilisce rapidamente. Nel primo giorno, insomma, si ha generalmente il massimo risultato con le minime perdite, dopo di che il rapporto tende a capovolgersi» (Gastone Breccia, 1915: l’Italia va in trincea). Lo scopo non era quindi lo sfondamento o la sconfitta totale del nemico, ma un bilancio favorevole delle perdite: l’applicazione più lucida e spietata della massima clausewitziana per cui l’obiettivo della guerra è la distruzione dell’esercito nemico.
Tra le ragioni della resistenza delle Potenze Centrali primeggia l’efficienza militare: mediamente inflissero 3 perdite per ogni 2 subite. Se al cuore della strategia alleata c’era il logoramento del potenziale umano tedesco, non stupisce la durata della guerra: gli alleati non inflissero mai un numero di perdite superiore al numero di diciottenni che ogni anno si rendevano disponibili per la leva. Invece dall’agosto 1914 al giugno 1918 ogni mese i tedeschi inflissero più perdite agli inglesi di quante ne subirono. E da settembre 1918 fu di nuovo così.
Di fatto, per quanto riguarda il numero di soldati, la guerra poteva continuare ancora per anni: probabilmente solo Francia ed Austria-Ungheria si videro depauperate del potenziale umano. La Francia dopo il 1917 vide ridursi il numero di soldati schierati. «A primavera del 1916 l’Austria non avrebbe più potuto ripianare le perdite, avendo già chiamato alle armi gli uomini di 50 anni, mentre i soldati italiani più anziani ne avevano 39 e c’erano “magnifiche riserve” cui attingere» (Gastone Breccia, 1915: l’Italia va in trincea ).
«È stato calcolato che i caduti francesi furono il 16,8% degli uomini mobilitati, e il 13,3% di tutti i maschi tra i 15 e i 49 anni di età. Per la Germania i dati sono di poco inferiori, il 15,4 e il 12.5%: più “fortunata” l’Italia: furono il 10,3% dei mobilitati, e il 7,5% della popolazione maschile» (Giuliano Da Frè, Le grandi battaglie della Prima Guerra Mondiale ).
Si calcola che fino al 29% dei maschi romani fossero in armi durante la guerra annibalica; Livio tramanda i censimenti dell’età repubblicana: sono dati discussi e da prendere con attenzione, ma se nel 241 la cifra è di 260.000 cittadini romani, nel 208 è di 137.108.
La sostenibilità di tali perdite ci appare incredibile: ma Pinker (Il declino della violenza) dimostra come la possibilità di una morte violenta sia drasticamente calata a partire dal sorgere degli stati e soprattutto dall’Ottocento: se in società di cacciatori-raccoglitori tra i maschi adulti questa è mediamente intorno al 24%, con punte del 60%, i morti in battaglia del XX secolo sono meno dell’1% della popolazione mondiale.

Cap.6 Cadorna e l’Italia

La tanto disprezzata Italietta liberale ha saputo affrontare la guerra mondiale e vincerla, con un esercito abbastanza resiliente da resistere al logoramento ed al disastro di Caporetto, e con un sistema industriale che ha saputo gradatamente appoggiarlo e supportarlo, al punto da vendere bombardieri agli Americani.
Significativo è il libro del grande storico del Risorgimento, Trevelyan, Scene della guerra d’Italia, scritto in contemporanea con gli eventi. Per lui, la prima caratteristica degli italiani al fronte del 1915-1918 appare la loro organiz­zazione ingegneristica, quasi da antichi ro­mani: le capacità dell’arma del Genio appa­iono superiori agli altri eserciti. Trevelyan assiste alla costruzione di strade che porta­no automobili fino alle vette alpine e poi uomini che scavano una rete di strade, in pochi giorni e cerca di spie­gare ai suoi compatrioti che senza l’enor­me sforzo italiano, l’ostinazione, la pianifi­cazione italiana, il fronte occidentale avrebbe ceduto; la Russia sarebbe caduta un anno prima. Quello di Vittorio Veneto è stato il più forte esercito creato sul suolo italiano da Diocleziano ad oggi. La militaristica ed aggressiva Italia di Mussolini è riuscita in meno di 25 anni a trasformarlo in un gigante burocratico, demotivato, tecnologicamente arretrato, con alle spalle una struttura industriale obsoleta e fragile, dipendente dalle forniture straniere.
Le classi dirigenti italiane nella I guerra mondiale avevano compreso la logica dell’attrito, e avevano puntato correttamente sul calcolo che il peso italiano avrebbe contribuito significativamente a logorare le potenze centrali: questo spiega la timida avanzata di inizio guerra, spesso rimproverata a Cadorna dinanzi all’esile presenza militare austroungarica; Cadorna aveva già pianificato una guerra di posizione, avendo compreso la lezione dei mesi precedenti. Quello che venne sottovalutato fu il costo umano di questo attrito, moltiplicato da un terreno così poco adatto alla guerra che decenni dopo ancora molti piani sovietici prevedevano di usare armi nucleari per spianare il terreno alle divisioni russe provenienti dall’Ungheria.
L’odiato Cadorna alla luce delle moderne considerazioni perde parte della sua fama sinistra. Infatti «i militari alla Cadorna erano stati tenuti al di fuori del meccanismo decisionale dell’intervento in guerra e che se ne sarebbero lagnati sino alla fine» (La Guerra Italo-austriaca 1915-18). E non a torto, visto che Cadorna ai primi di maggio 1915 chiede al governo delucidazioni sul senso degli incendiari discorsi di D’Annunzio, e si sente dire che sarebbe entrato in guerra dopo meno di tre settimane: comprensibile il suo stizzito «e quando pensavate di dirmelo?»
«Cadorna, fin da luglio, aveva abbracciato con l’entusiasmo del pioniere la prospettiva di quella che sarebbe passata alla storia come Materialschlacht». Ne comprende le regole di fondo: nella celebre “libretta rossa” distribuita agli ufficiali Cadorna specificava che «l’assalto non deve essere condotto da masse d’uomini: queste sarebbero votate alla certa distruzione, data l’efficacia delle moderne artiglierie … L’assalto va dato, invece, da linee successive non dense d’uomini».
Anche qui assistiamo ad un graduale perfezionarsi della comprensione, come si vede nel passaggio dalle prime battaglie dell’Isonzo alla presa di Gorizia; rimane però un limite significativo, ben segnalato da Breccia: «Cadorna non riusciva proprio a liberarsi della sua idea fis­sa: l’estensione dello sforzo offensivo: per evitare «i concentramenti del fuoco delle arti­glierie avversarie», infatti, si rinuncia in partenza a concentrare le proprie. Attaccare ovunque nello stesso momento significava infatti, inevitabilmente, distribuire anche il proprio bombarda­mento su un fronte troppo esteso. Il solo modo per sfuggire all’«agghiacciante simmetria» della guerra di posizione sarebbe stato quello esattamente opposto: attaccare con estrema violenza in settori ristretti. Le istruzioni di Cadorna gettavano al vento proprio quell’unico vantaggio dell’attaccante sul difensore: sapere dove e quando si sarebbe manifestato il massimo sforzo. Avanzare «con­temporaneamente lungo tutta la fronte» equivaleva a uniformarsi alla distribuzione delle forze del nemico: e quindi era il modo peggiore per spezzare l’equilibrio».