30. L’Idéologie physiologique

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DINA TORTOROLI

Destut de Tracy, forgiato il neologismo Ideologia, distingueva questa “scienza delle idee” in “Ideologia fisiologica” e “Ideologia razionale”, e affermava di volersi occupare soltanto della seconda: «Je prends nos facultés telles qu’elles sont, et ne m’occupe que de leur effets».
Lasciava le “ben più profonde e utili” ricerche sulle “cause fisiologiche” delle facoltà dell’uomo ai colleghi dell’Institut de France, più capaci di lui  «de sonder de pareils mystères».
Il più capace di tutti, il medico-filosofo Pierre-Jean-George Cabanis, seppe esporre sistematicamente il frutto delle sue osservazioni in una serie di dodici Memorie, intitolata Rapports du phisique et du moral de l’homme, che cominciò a leggere nella seconda classe dell’Istituto di Francia (classe di scienze morali e politiche), il 15 febbraio 1796, e pubblicò nel 1802.
Ascoltiamo l’epilogo dell’ “Introduzione” alla “Prima Memoria”, intitolata Considerazioni generali sullo studio dell’uomo, e sui rapporti della sua organizzazione fisica con le sue facoltà intellettuali e morali: «Permettete dunque, cittadini, che io vi intrattenga oggi sui rapporti dello studio fisico dell’uomo con quello dei processi della sua intelligenza; di quelli dello sviluppo sistematico dei suoi organi con lo sviluppo analogo dei suoi sentimenti e delle sue passioni: rapporti da cui risulta chiaramente che la fisiologia, l’analisi delle idee e la morale non sono che le tre branche di una sola, medesima scienza, che si può chiamare, a giusto titolo, la scienza dell’uomo. Scienza che i Tedeschi chiamano l’Antropologia: e sotto questo titolo essi comprendono in effetti i tre oggetti principali di cui noi parliamo» (Rapports… in rete).
Sommariamente, il “piano” dell’opera era il seguente:
«Storia fisiologica delle sensazioni;
Influenza, 1° delle età, 2° dei sessi, 3° dei temperamenti, 4° delle malattie, 5° del regime, 6° del clima;
Formazione delle idee e delle affezioni morali;
Considerazioni sulla vita animale, l’istinto, la simpatia, il sonno e il delirio;
Influenza, o reazione del morale sul fisico;
Temperamenti acquisiti».
Refrattario alla falsa modestia, Pierre Cabanis dichiarava che se avesse saputo realizzarlo in maniera degna, il suo “piano” sarebbe stato utile sia al filosofo sia al moralista  sia al legislatore.
Ebbene, il “moralista” autore del Fermo, allorché la sua attenzione si sposta dal paesaggio all’uomo, si esprime così: «…veniva lentamente dicendo l’ufizio, ed avviandosi verso casa, una bella sera d’autunno dell’anno 1628, il Curato di una di quelle terre che abbiamo accennato di sopra […]. Talvolta tra un salmo e l’altro metteva l’indice nel breviario al luogo dov’era rimasto, e tenendo così socchiuso il libro nella destra mano, e la destra nella sinistra dietro le spalle (il corsivo è mio)*, continuava il suo passeggio guardando in qua e in là, e ripigliando i pensieri oziosi che erano stati sospesi così così (il corsivo è mio)* nel tempo che aveva recitata l’ultima parte di ufizio. Uscendo poi da questa meditazione egli girava gli occhi intorno, e arrestava lo sguardo sulle cime del monte, osservando come aveva fatto tante altre volte sul monte i riflessi del sole già nascosto, ma che mandava ancora la sua luce sulle alture, distendendo sulle rupi e sui massi sporgenti come larghi strati di porpora. Ripigliato poscia il breviario e recitato un altro pezzo di vespro giunse a una rivolta della strada dov’era solito di alzar sempre gli occhi dal libro e di guardare macchinalmente dinnanzi a sé, e così fece anche quel giorno».
Insomma, il Curato, che unisce il dovere della lettura del vespro con quello della salutare passeggiata quotidiana, e cammina lentamente, ripetendo sempre e macchinalmente gesti che è solito fare, manifesta un temperamento “inerte”, designato nei Rapports col nome di pituitario o flemmatico, «temperamento nel quale – dice Cabanis, dopo averne passato in rassegna le cause fisiologiche – le sensazioni hanno poca vivacità; da ciò risultano movimenti deboli e lenti; da ciò deriva anche una tendenza generale di tutte le abitudini verso il riposo». Pertanto, «lo stato abituale del flemmatico è un benessere dolce e tranquillo […] le impressioni ricevute dalle estremità nervose si propagano con lentezza […] la sua vita ha un che di mediocre e di limitato».
«En un mot – conclude Cabanis – le pituiteux sent, pense et agit lentement et peu» (In una parola, il pituitario sente, pensa e agisce lentamente e poco).
L’autore italiano, impegnato nel compito straordinario di divulgare la phisiologie idéologique, ritiene di doverne rendere ben consapevole anche il lettore meno attento; infatti, dopo aver mostrato il Curato in preda allo spavento, causatogli dall’intimazione di non sposare, l’indomani, Fermo Spolino e Lucia Zarella,  fattagli da due delinquenti “che avevano nome di bravi, servitori dell’ “illustrissimo Signor Don Rodrigo”, scrive che “il povero Curato” si incamminò verso casa, «mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che gli parevano ingranchite, e con animo che il lettore comprenderà meglio dopo d’aver appreso qualche cosa di più dell’indole di questo personaggio, e della condizione dei tempi in cui gli era toccato di vivere».
Erano tempi, in cui  «L’impunità era organizzata […] Nessuna libertà nelle cose oneste perché col fine di avere sotto la mano ogni uomo per prevenire  e punire ogni delitto, le gride assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario di mille magistrati, ed esecutori d’ogni sorta. […] Alcune classi già anticamente costituite avevano anche per questa circostanza una forza preponderante e spaventosa […] Il clero era geloso sostenitore delle sue immunità […] Tante erano le volontà d’impedire ogni esercizio delle facoltà le più legittime(il corsivo è mio)*, d’inceppare ogni diritto, e queste volontà erano così potenti, che il clero non poteva concepire come avrebbe potuto agire a malgrado di esse, senza avere una forza propria».
«Quegli stessi che non avevano un animo provocatore ed ingiusto si trovavano come costretti di guardarsi e di stare sulle difese». Quindi il curato «Abbondio non nobile, non ricco, non animoso (Nei Promessi Sposi è incoerentemente detto coraggioso ancor meo), si era presto avveduto di essere  nella società come il vaso di terracotta in compagnia di molti vasi di bronzo (nei Promessi Sposi: “di ferro” – vattelapesca per quale uso -) sempre in movimento».
Pertanto, egli «non poteva adottare un sistema nel quale fosse necessaria una qualunque parte di risoluzione, di attività, di resistenza, e altronde alla fin fine il pover’uomo non domandava altro che quiete, vivere e lasciar vivere, come si dice. Il suo sistema era dunque di evitare tutti i contrasti e di cedere in quelli che non avesse potuto evitare».
È quindi persino superfluo dire che Don Abbondio, nel Fermo, non è un personaggio letterario “caricaturale” (l’aggettivo è del Flora) come sarà poi, nei Promessi Sposi. Al pari di qualsiasi altro protagonista delle vicende narrate, egli è un essere umano di cui è importante conoscere il temperamento, per comprenderne gli stati d’animo e valutarne le azioni, in relazione anche a numerosi altri fattori, quali le circostanze, lo stato sociale, l’educazione, le abitudini, il sesso.**
Mentre nei Promessi Sposi quell’uomo “non coraggioso” subisce un travisamento parodistico quanto mai inopportuno, considerato lo «stato della società in quei tempi», nel Fermo, la paura – sensazione che verrà presa in esame più volte, perché, purtroppo, l’uomo la deve affrontare spesso e deve imparare a farlo correttamente affinché non gli tolga fiducia in se stesso – non è mai rappresentata con ironia e tanto meno può dirsi “tema comico” (l’espressione, ancora una volta, è di Francesco Flora), e anche il Curato, che pure è reso vile dalla paura, non compie gesti ridicoli.
Ha paura, perché inaspettatamente si vede minacciato da due “bravi”, cioè da due delinquenti, al soldo di un signorotto del luogo, ben noto “prepotente”, “superbo”, “calpestatore di poverelli”, “tizzone d’inferno”, “senza timor di Dio”, come lo definirà Vittoria, la “fedele serva” del Curato.
Al lettore vengono forniti i dati necessari per una corretta analisi della situazione: l’equilibrio nervoso di Don Abbondio è turbato dalla paura.
Resosi conto di non poter evitare i due bravi, l’unico conforto gli viene dalla certezza di non aver mai dato motivo d’inimicizia a individui prepotenti, pronti alla vendetta, per mano di assassini di professione: come in tante altre circostanze, anche in quella i sicari potrebbero non esitare a uccidere, se lui si fosse in qualche occasione mostrato meno remissivo.
Era storicamente vero: le “fonti”, cui l’autore aveva attinto i fatti, e che  aveva intenzione di far conoscere al lettore, lo testimonierebbero, se Manzoni non avesse evitato poi di trascrivere il nome degli autori e i titoli delle opere  annunciate***
Però, lo attestano, inequivocabilmente, i verbali del Processo contro Paolo Orgiano vicentino (anni 1605-1607), fatti conoscere dallo storico Claudio Povolo, in una Memoria, presentata nell’adunanza dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, il 22 maggio 1993 e pubblicata col titolo Il romanziere e l’archivista / Da un processo veneziano del ‘600 all’anonimo manoscritto dei Prmessi Sposi.

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*Col mio corsivo desidero attirare l’attenzione su alcune locuzioni che hanno contribuito a trasformare una fastidiosa impressione nel radicato convincimento di avere di fronte un testo tradotto da un’altra lingua (il Francese). In un momento più opportuno, affronterò questo tema, dedicandogli adeguato spazio. Per ora  aggiungo soltanto una frase davvero non trascurabile: due uomini stavano aspettando il Curato, e, quando questi apparve, «quegli che stava a cavalcioni tirò la sua gamba sulla strada e si alzò».

**Diventa obbligatoria una digressione, per dire che l’autore di Fermo e Lucia farà conoscere un altro personaggio di temperamento pituitario (che non comparirà più nei Promessi Sposi).
Si tratta di Ersilia, l’ “unica figlia” di Donna Margherita e Don Valeriano (inaspettatamente chiamati Donna Prassede e Don Ferrante nel corso della narrazione).
In una “variante” del nono capitolo del terzo tomo, leggiamo: «La signorina Ersilia, anzi Silietta, giacchè come amici di casa noi  possiamo chiamarla col diminutivo famigliare che usavano i suoi parenti, Silietta era un personaggio non troppo facile da descriversi né da definirsi. Le sue fattezze erano senza difetti e senza espressione: i suoi due grandi occhi grigi non si muovevano se non quando si muoveva tutta la testa: teneva la bocca sempre semiaperta, come se ad ogni momento sentisse una leggiera meraviglia. Rideva spesso, e sorrideva di rado; parlava lentamente, e placidamente, ma volentieri e a lungo tutte le volte che alcuno dei suoi parenti non fosse presente a darle su la voce. Intendeva a stento, e talvolta a rovescio ciò che altri dicesse; e quando ciò le accadeva con persona che le mostrasse impazienza, Silietta si scusava  con dire: son corta d’ingegno: cosa che s’era intesa dire spesso da D. Ferrante e da Donna Prassede, e dalle Suore che l’avevano avuta in cura. Era destinata al chiostro, per la ragione facile ad indovinarsi, che D. Ferrante non poteva certamente darle una dote proporzionata al partito che sarebbe convenuto alla sua nascita e al grado che teneva la casa. Su questa sua destinazione, non sapremmo per verità dire quali fossero i suoi sentimenti. Non vi aveva avversione, inclinazione nemmeno; risguardava questa destinazione come una cosa a cui altri aveva dovuto pensare, ed aveva pensato e che per lei era indifferente, a un dipresso come l’esserle stato posto piuttosto un nome che un altro; anzi la risguardava quasi una conseguenza del suo sesso,  e delle circostanze della sua famiglia; e ripeteva sovente ciò che le era stato detto nell’infanzia da una sua governante: Se fossi nata maschio, sarei un gran signore. Ma la cosa era fatta, e Silietta sapeva bene che non si nasce due volte».
L’incontro con Silietta avviene dopo che l’autore del Fermo ha fatto conoscere “le turpi e atroci avventure” di Geltrude, “la Signora” del monastero di Monza.
Nei Promessi Sposi esse verranno “assorbite” dalla celeberrima sintesi “la sventurata rispose”, mentre il divulgatore della fisiologia cabanisiana ha voluto indagare “ciò che si modifica in un essere umano col variare dell’età”,  descrivere “l’azione psico-fisica della sessualità”, evidenziare “le implicazioni in sede organica e psicoaffettiva dei vari temperamenti”, per far acquisire anche al lettore più “frettoloso” una piena consapevolezza della necessità di conoscere l’homme phisyque  per comprendere  l’homme moral.

*** Nella Prima Introduzione contemporanea alla stesura dei primi capitoli, leggiamo: «Non volendo adunque mostrare il manoscritto originale, ha l’editore pensato un altro mezzo per convincere i lettori della realtà di questa storia. I dubbj su di essa non possono nascere da altro che dal non trovare verità nel costume, nei fatti e nei caratteri del tempo rappresentato […] Ora per certificare i più increduli che i costumi sono quelli del tempo, l’editore propone loro di fare ciò ch’egli stesso ha fatto per giungere a questo convincimento. A dir vero molte cose gli parevano tanto strane, ch’egli non sapeva risolversi a crederle realmente avvenute, perlochè si pose a frugare molto nei libri e nelle memorie d’ogni genere che possono dare una idea del costume e della storia pubblica e privata del Milanese nella prima metà del secolo decimosettimo. Tutte le sue ricerche lo condussero a risultati talmente somiglianti a ciò che egli aveva veduto nel manoscritto che non gli rimase più dubbio della veracità della storia che vi si contiene.  Per comodo di chi volesse rifare queste ricerche egli pone qui una scelta delle letture opportune a mettere chicchessia in caso di giudicare da sé questo fatto».

Se non che, aggiungono i curatori, in una nota: «L’autore lascia vuoto un terzo della pagina e vi scrive in cima: Nota di libri, memorie etc.».