FULVIA GIACOSA
È stato Michel Tapié a coniare il termine “informel” nel 1951 in occasione di due rassegne di quell’anno: “Véhémences Confrontées” e “Signifiants de l’Informel”, quest’ultima con Dubuffet, Fautrier, Mathieu, Michaux, Serpal, vale a dire il nocciolo dell’Informale francese. Eppure, quando nel quinto decennio il termine diventa internazionale, proprio gli antesignani Dubuffet e Fautrier non intendono identificasi in quella definizione perché il loro percorso, già iniziato circa otto anni prima con i “Messages” e i “Muri” del primo e gli “Otages” del secondo, sembrava perdersi in un mare comune nel quale navigavano gruppi solo in parte assimilabili (“art autre”, “abstaction lyrique”, “tachisme”); non a caso per la prima delle due mostre Tapié aveva scelto l’azzeccato titolo “veemenze a confronto” da cui emerge il confronto tra simili ma diseguali nonostante la comune irruenza pittorica contrapposta all’apollineo degli astrattismi geometrici.
Jean Dubuffet (1901-1985) nasce a Le Havre, dove fa il liceo, e soltanto a circa quarant’anni decide di dedicarsi a tempo pieno all’arte. Durante un primo soggiorno a Parigi nel 1918 matura il suo interesse per l’arte africana, i disegni di bambini e di alienati, che colleziona. La sua prima mostra è del 1944 presso la galleria Drouin. Non trascura l’aspetto teorico e il suo saggio più noto è “Prospectus aux amateurs de tout genre” pubblicato nel ’46, nel quale teorizza l’“Art brut”, arte degli “artisti loro malgrado”, liberi da qualsiasi condizionamento culturale o mercantile. Da qui in poi inizia la produzione di opere in serie, in fondo tutte variazioni sullo stesso tema: l’elogio della terra, della fisicità, della materia guardata con occhio vergine, esteticamente “infantile”. Al centro del suo fecondo percorso sta l’idea di “luogo” da intendersi in senso lato ma sempre concreto, diverso dalla nozione astratta di “spazio”: il greto di un fiume, la polvere di un deserto, un terreno grumoso, una nebulosa nel cosmo, la pelle maculata di una vacca, le ali di farfalle, le rughe di un volto. Se si entra in quest’ottica si può comprende l’alternanza di cicli figurativi con altri puramente iletici in una oscillazione continua che non ha nulla a che vedere con un posizionamento ambiguo come alcuni detrattori hanno ipotizzato. Diventa chiaro che la sua giusta collocazione storica nella linea dell’Informale materico include anche il suo superamento come avverrà negli ultimi anni. La spontaneità e immediatezza creativa dell’artista libera la pittura da qualsiasi sovrastruttura, a partire dallo “stile”, in favore di quella che chiama arte grezza, frutto di improvvisazione e liberazione dall’identico della mimesis. Scrive infatti al proposito: “L’arte grezza designa lavori effettuati da persone indenni di cultura artistica, nelle quali il mimetismo, contrariamente a ciò che avviene negli intellettuali, abbia poca o niente parte, in modo che i loro autori traggano tutto (argomenti, scelta dei materiali, messa in opera, mezzi di trasposizione, ritmo, modi di scritture, ecc.) dal loro profondo e non da stereotipi dell’arte classica o dell’arte alla moda”. Delle avanguardie Dubuffet non ama le teorie intellettualistiche, potremmo dire che ne apprezza le opere “nonostante” esse e non condivide il loro credo eidetico preferendogli un approccio fenomenico; il risultato è un inno all’ informe della materia più ordinaria: pietre, zolle, sabbie, terre, catrame. Lo stesso si può dire per le “figure”, tipizzazione di individui resi con una grafia elementare. Già nella serie di litografie “Les murs” (1945) le scritte sono in corsivo, miste a scarabocchi, messaggi banali come “La clef est sous le volet”, sagome che camminano lungo i muri sporchi della periferia; solo raramente le figurine si soffermano e osservano. Dubuffet si concentra poi sui volti nella serie “Protraits” (1945-‘47 c.) realizzati con una tecnica fortemente materica (catrame come nei “Macadams”, biacca, intonaco, gesso, raramente vernici colorate, il tutto inspessito da sabbia, carbone, persino ciottoli o paglia); sono le cosiddette hautes pâtes, paste dense come base del lavoro di graffiatura. Il titolo della serie non deve ingannare, l’artista non cerca somiglianze ma – come si diceva – “tipizza” le figure, quasi sempre con grandi teste su corpi sproporzionalmente piccoli, occhi fissi, nasi imponenti, orecchie a sventola, a volte pochi capelli a spaghetto, con chiara derisione della ritrattistica tradizionale. Scrive Dubuffet nel 1947: “Penso che ritratti e paesaggi dovrebbero assomigliarsi perché sono più o meno la stessa cosa. Voglio ritratti in cui la descrizione si avvalga degli stessi meccanismi di quelli usati in un paesaggio: qui rughe, là anfratti o sentieri; qui un naso, là un albero; qui una bocca e là una casa“.
La lunga serie “Corps de dames” (1946-’52, guaches, olii, inchiostri, chine), sono idoli preistorici della fertilità da cui veniamo e a cui ritorneremo, così come veniamo dalla materia terra e ad essa siamo destinati a tornare. La tecnica graffita che disegna anatomie distorte (ma non così aggressive come le “Donne” di De Kooning dello stesso periodo), i cui tratti sembrano ipotetici percorsi che le fa somigliare a corpi “geografici”, o “mappe umanoidi” su cui cammina il nostro sguardo. Lo stesso dicasi per il ciclo successivo delle “Barbes”, tra il 1958 e il 1960, dalla tecnica simile (raschiature, pennellate, tratteggi sottili e veloci, macchie nello sfondo ruvido e dall’aggetto ridotto, aggiungendo all’olio pezzi di carta o tela), sperimentazioni coeve alle prime “Texturologie” e “Materiologie” con nuovi impasti materici e le “Topographies” ove abbondano greti sassosi. Le “Barbes” sono rielaborazioni in forma di “figura”, il che conferma l’alternanza tra aniconismo e figurazione in tutta la sua produzione. Esse costituiscono un vero campionario: c’è la barba fluente e quella un po’ rigida che pare una grande cravatta, quella ingarbugliata come una matassa e quella riccioluta come nella statuaria antica e nei rilievi assiri. Qui diventano collage tra umoristico e serioso, figure totemiche desacralizzate e irriverenti che ribadiscono lo sberleffo alla tradizione “alta” in favore della spontaneità viscerale dell’art brut. D’altronde questo ciclo è appena precedente a “Sols et Terraines”, serie aniconica ove il suolo nella varietà materica delle terre invade tutto il campo; il forte aggetto della materia di cui son fatte rende le opere simili a un suolo ora fertile ora sterile landa aggrumata. Tanto i corpi femminili quanto le serie astratte sottendono l’idea della metamorfosi continua, oltre a sancire il definitivo stravolgimento del secolare genere del paesaggio. Questo non è mai riferito ad un luogo particolare, tanto meno è un’immagine idealizzata ma sempre solo “terreno” declinato nelle varie textures che assume, dalle sabbie del deserto sahariano (visto in Algeria) ai lussureggianti giardini mediterranei durante un soggiorno a Vence. Nel 1953 esplora nuove tecniche: durante un breve viaggio in Savoia va a caccia di farfalle e ne utilizza le ali per comporre paesaggi e persino teste di profilo che richiamano le composizioni del cinquecentesco Arcimboldi (Cheveaux de Sylvain, 1953).
Si tratta di “assemblage” come li definisce l’artista, che si avvalgono di altre materie effimere come licheni e foglie. Figurativa è la serie delle “Vaches” (dal 1954) realizzate con smalti, ad olio o a gouache: mucche bianche, marroni o maculate viste nella regione della Loira e disegnate a memoria; esse suscitano tenerezza “per via dello splendore di calma e serenità che ne emana”, “fantocci stravaganti” dice, un po’ grottesche, con gambe corte e musi sottili a coronamento di corpi imponenti. L’arte per Dubuffet, “deve sempre un po’ far ridere e un po’ far paura. Tutto tranne annoiare”. Nelle aniconiche “Texturologie” riprese alle soglie dei Sessanta sembra che l’artista si sia sollevato da terra e “perso” nell’indistinto cosmo delle galassie: la pasta materica si fa più sottile, la grana dei dipinti pulviscolare e la trama è quasi un puntinato come il firmamento notturno, cosa che era avvenuta, sia pure con metodicità più geometrica, anche nelle pitture di Klee negli anni Trenta. In due cicli contemporanei (“Fenomenes” -litografie- e “Materiologie”) abbiamo un procedimento simile al frottage di Max Ernst che “ricalca” i disegni naturali di foglie e ciottoli, resi con l’uso di carta stagnola, pietruzze, mastice e polveri minerali.
Due parole su “Paris Circus” e la serie “Hourloup” degli anni Sessanta che Dubuffet dice nati da un disegno eseguito mentre era al telefono. Il titolo della serie (forse da entourloupe =imbroglio, una specie di burla) è metafora dell’inganno d’ogni rappresentazione. L’artista restituisce la Parigi metropolitana: macchine, autobus, insegne e negozi, manifesti pubblicitari, caffè e ristoranti, passanti frettolosi, insomma uno spettacolo colorato (predominano il rosso-bianco-blu e nero delle penne a biro) che l’artista rende con una flatness tipicamente infantile, proiezione piatta di una visuale aerea che risulta traballante e distorta (“Paris-Montparnasse”, 1961) per via dei tanti punti di vista in cui si fraziona una storia ambigua tra reale e immaginario. I colori industriali si adattano ai soggetti di un territorio costruito dall’uomo, lontani quindi dalle tonalità dei marroni precedenti; le “figure” stanno in cellule che prolificano fino a intasare il campo pittorico. Negli anni Settanta e Ottanta (tra il 1976 e il 1984) essi saranno la base per opere tridimensionali di grande formato, con “Bornes, Tours, Arbres”, “Théâtres de mémoire” e “Non-lieux”, in polistirolo espanso e colori vinilici; se le opere precedenti erano fortemente ancorate alla pasta informe del mondo delle origini, qui l’artista afferma l’immaterialità dell’immagine grafica.
Fino a “ L’Hourloupe” e alle sculture di grandi dimensioni Dubuffet rientra nell’Informale europeo del dopoguerra, da questo punto in poi coglie le distorsioni della contemporaneità e sottolinea l’habitat artificiale dell’uomo nella società di massa. In tal senso egli apre la strada sia alla Pop Art anni Sessanta sia al Graffitismo degli anni Ottanta. La Pop ne condivide l’idea di un’arte appunto “popolare”, anti-aristocratica (“brut”) e l’immersione in quella che è stata chiamata “iconosfera urbana”; quanto al Graffitismo, Basquiat ne reinterpreta la lingua barbarica nelle forme e nei modi adatti al suo tempo e alla sua personalità selvaggia.
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