Fiorire nel deserto

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Molti anni fa ho avuto modo di conoscere una religiosa dall’anima mistica che, raccontando della sua giovinezza e della sua inesausta ricerca di un senso da dare alla propria vita, su consiglio del proprio direttore spirituale, affrontò i viaggi e le esperienze più disparate, anche in contrasto con la sua sensibilità e il suo desiderio di pace e tranquillità, come frequentare discoteche fra musiche e luci stordenti, umiliandosi con indumenti spaiati e variamente colorati. Non intendo proporre all’imitazione questo comportamento, che immagino supponga un particolare tipo di carattere e di motivazione, né intendo esprimere una valutazione specifica, anche se apprezzo in chiunque la capacità di trascendere l’ordine del bisogno e della gratificazione personali per addivenire ad una libertà o indipendenza verso di sé e verso gli altri (ad esempio, il loro giudizio) che predispongono poi, come verosimilmente è accaduto a quella religiosa, ad azioni e orizzonti più vasti, a mete più ambiziose, a traguardi in margine al sublime.

Un ricordo tira l’altro. Ed ora mi rammento che, nel suo “Storia di un’anima” (1895-97), Santa Teresa di Lisieux racconta del Natale 1886 in cui, attendendo con immensa gioia e trepidazione i doni del babbo che ritualmente riceveva ogni anno, lo sente di nascosto lamentarsi (“Grazie a Dio è l’ultima volta che facciamo una cosa del genere!”) e, alle soglie dei tredici anni, con la sua sensibilità e delicatezza, crede che le stia crollando il mondo addosso ma, sentendosi ispirata dallo stesso Gesù, invece di reagire bruscamente, estrae i doni deposti come di consueto nelle sue scarpe per l’occasione, mostrando gioia e gratitudine, e rendendo così felici i suoi cari, mentre forse trattiene qualche lacrima nascosta. Lei annota che aveva ricevuto “la grazia di emergere dall’infanzia”.

Ed ora, con un passaggio repentino dall’agiografia alla cronaca, proviamo a chiederci… Dobbiamo proprio andare faticosamente a cercare le occasioni in cui la nostra sensibilità è stata ferita, le nostre aspettative sono state disattese, i nostri sogni infranti? O non è piuttosto una esperienza abituale e quasi quotidiana quella di avvertire una dolorosa discrepanza, una sottile distonia, una amara inadeguatezza del reale rispetto all’ideale che ci abita e all’utopia che ci muove? L’escatologo potrebbe evocare il peccato – originale e attuale – a motivare e spiegare il dato, lo psicologo o l’antropologo potrebbero parlare di principio di piacere e di realtà, di narcisismo, di inconscio e repressione, l’umanista potrebbe citare quel particulare che, secondo il grande Francesco Guicciardini guida gli uomini a tutelare i propri interessi, in una sorta di claustrofobico egoismo universale che spiega l’umana insoddisfazione.

Ma la vita quotidiana, a ben guardare, è impregnata della nostra insoddisfazione, della nostra fatica, di una inevitabile accidia che, col passare degli anni e il succedersi delle prove, si acuisce e aggrava, in considerazione del fatto che da giovani è più facile sperare che qualcosa cambierà (le nostre energie ci consentono di credere che ne abbiamo  il potere), ma nel procedere della maturità – mentre la routine ci inghiotte col suo grigiore e i sogni restano tali o rivelano la loro illusorietà – le aspettative decrescono, le residue energie vanno estinguendosi, il mondo attorno a noi non sembra migliore e anzi si incarognisce con noi.

Eppure – chissà perché – c’è qualcosa di così vero in questa constatazione che, come sempre accade per la verità, in essa qualcosa nutre e alimenta la mia speranza. Finiti i giochi del potere o del successo, accertata la vanità delle ambizioni, constatato il carattere troppo spesso mediocre e venale della riuscita e del riconoscimento, una coscienza sana non può che approdare felicemente a un superiore grado di libertà in cui, assenti gli stimoli di un evanescente e pallettato samsara, è d’uopo concentrarsi sul qui ed ora della vita, così insufficiente forse rispetto alle nostre attese, ma così idoneo a venire da esse trasfigurato nel segno di quel desiderio che è in realtà il vero mistero da decifrare e, forse, l’incarnazione stessa di una trascendenza che, abitandoci, continuamente ci ferisce per rivelarsi e, alla fine, manifestarsi anche grazie a noi e alla nostra azione nel divenire di un mondo la cui creazione non è mai del tutto cessata.

Abitare escatologicamente questo spazio-tempo, e coglierne il carattere desertico, è allora grazia che tutto stravolge e trasfigura, nella abbagliante luce di una promessa di attuazione che continuamente accade proprio nel suo mancare e, insieme, incessantemente compiersi. Soprattutto quando i tempi reclamano l’assenza ed essa sembra imporsi in tutta la sua pesantezza e opacità, allora è proprio in tale assenza che risplende l’appello a un’incarnazione che è compito per tutti e per ciascuno a vivere la propria vita entro questo orizzonte salvifico, taumaturgico, trasfigurante.

Nessuna distopia allora – neppure questo tardo-capitalismo in cui insistiamo – sarà parola ultima, ma occasione di preghiera, di trascendenza, di liberazione. Tanto più lo saranno le nostre vite grigie, il nostro tedio, la nostra routine, la nostra umana sconfitta, se diventeranno luogo della nostra attesa, della nostra invocazione, della nostra apertura all’Assoluto, come accade nel Salmo 62:

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
di te ha sete l’anima mia,
a te anela la mia carne,
come terra deserta,
arida, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode.
Così ti benedirò finché io viva,
nel tuo nome alzerò le mie mani.
Mi sazierò come a lauto convito,
e con voci di gioia ti loderà la mia bocca.
Quando nel mio giaciglio di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia
e la forza della tua destra mi sostiene.

Ma allora fiorire nel deserto è una forma di elezione per la quale non possiamo fare altro che ringraziare.

(da Claudio Sottocornola, Fiorire nel deserto, Velar 2023, pp. 159-162)