ORLANDO MEZZABOTTA
Il Riflesso del Corallo è un canto d’amore che l’autore dedica alla sua compagna, apparente correlativo oggettivo della sua (dell’autore) funzione creativa in quanto artista/poeta. Dico apparente poiché è vero (sic!) l’opposto (la specularità del riflesso, il quale è sì l’immagine, ma anche il riflettuto su cui il riflettente riflette i mille-e-un-poli πeau notomizzati): è l’arte/poesia dell’autore ad assumere la forma del correlativo oggettivo della sua donna. Dietro la “geometrizzazione della macchina creativa” che dà il via alla riflessione non è così difficile scoprire la “Geomater” della lezione notturna di joyciana memoria, con il testo che si sviluppa secondo modulazione boleriana centrata sul rapporto che lega maschio e femmina in una scansione iterata delle sue proteiformi occorrenze kamasutricamente giustapposte quali tesi ed antitesi di cui, però, la sintesi è copula gioiosa rivissuta in eterni ritorni, come nella circolarità dell’immagine yin-junghiana, connubio di convessa concavità, che il nostro autore ama sottolineare. La quale diventa anche immagine di sottosopranità, graficamente presente nel paesaggio menabbòzzato, dove il testo creativo è sovrapposto a stratificazione re-citativa, flessuosità di lingua witzigrina sulle sepolcritudini professorali, il saussurro del significante a cavallo del significato, l’esagramma della Pace, dove Yin è adagiaTa/o su Yang. Esagramma che è anche espressione, ludicamente subriemanneggiata, di quella eterogenesi differenziale che nell’intenzion dell’artista non è, come scienza vorrebbe, ermetico approccio matematico a quarkeggianti superequazioni di potenzialità combinatorie (nel nostro caso di memorie eroetiche), bensì differenza prospettica eterogenitalizzata (sdoppiamento maschio/femmina) in vista (bagliori) di rinascita (altra genesi) emotiva. Esagramma che, non a caso, ma missionariamente ribaltato (ove è il Cielo che sovrasta la Terra, per cui Pace, madama o meno, sé muta in Ristagno), è richiamo dei sei personaggi che si alternano nel ricorso del testo. C’è sia coppia trinitaria Cielo/Terra, cioè i mondi degli ESSERI e degli enti; sia trinità di coppie attanziali, alla maniera del Greimas del Senso:
§: Il soggetto desidera l’oggetto:
Musil/Ulrich desidera Agathe (il suo bene)
Suffleus/uomo-senza-qualità desidera la Fonte (della sua ispirazione).
§: Il destinante dà il via alla ricerca a beneficio del destinatario:
Proust/Jaguin raccoglie i ricordi che Musil-Ulrich/Suffleus farà rivivere.
§: L’aiutante offre i mezzi che il soggetto userà per superare gli ostacoli (anche se nel nostro caso l’oppositore funge da alter ego dell’aiutante stesso): Valéry, l’artista (eros) vs il critico/anatomopatologo (thanatos)
Salins, il poeta vs Masini, il filosofo.
Doppia valenza che si fa manifesta nell’immagine dei medusoidi, in quanto la medusa è sia flessuosa eleganza di danzatrice acquatica, sia fissità della pietra del personaggio mitico; da un lato la staticità dell’ombrello/cervello, dall’altro la coreografia dei tentacoli multiverseggianti.
Eterogenesi ridifferenziata nelle quattro sezioni del testo, le quali, ci sia lecito dire, riflettono i vari stadi sul cammino della vita dell’autore. In ciascuno dei movimenti c’è un personaggio che funge da guida (sia per numero di interventi che per quantità sintagmatiche): nel primo Valéry, nel secondo Salins e nel terzo Jaguin, che, nel quarto, si fonde con Suffleus, il soffio poetico. E constatando, inoltre, che i tre ESSERI iperurani (Valéry, Proust, Musil), che predominano nel primo blocco, via via passano in secondo piano; idem per Valéry e per Salins, i due maîtres à penser dai quali Jaguin si decanta in poetica rizomattanza.
Più sopra ho accennato al lay-out paginale che di fatto diventa un tratto costitutivo del testo. L’eleganza del linguaggio sia nella presentazione che nelle citazioni dei raffinati passi letterari, degli entr’actes filosofici o di misteriosofici scientismi riflettono il paesaggio corallino la cui fascinosa struttura rapisce l’occhio dello spettatore facendolo smarrire nelle straordinarie cattedrali delle singole composizioni, ammaliato dalla loro magia. Così il lettore si perde irretito dai singoli brani, compiaciuto della loro bellezza, catturato dai curiosi sviluppi di sentieri interrotti e recalcati. Onde evitare circoli viziosi, voici la territorializzazione.
I. UN’ALTRA GENESI
In apparenza sembra una riflessione sul meccanismo che controlla la creatività poetica e che l’eterogenesi differenziale trasforma in equazioni subriemanniane, dando così fondamento scientifico a ciò che altrimenti parrebbe inusitata follia, quando non clownerie patafisica. Verrebbe da chiedersi come mai, invece di vantarsi della sua prassi disomologante, l’autore cerchi di matematizzarsi. Ma, come sopra accennato, eterogenesi è maschera di doppia prospettiva: arte/filosofia; o, più precisamente, differenza poeta/professore. L’arte assume sembiante di donna, l’Agathe musiliana che dona corpo ad Ulrich, uomo senza qualità; sorella/amante che lo riorganizza. E che, come moglie e sorella, è la sposa del Cantico dei Cantici che diventa paesaggio sibillino glorificato da Jaguin/Suffleus nel gran finale. L’atto creativo viene erotizzato da immagini di concavo e convesso genitalmente allusivi; la descrizione dell’eterogenesi rimanda a inesplorati accoppiamenti, lo swamping dei gameti corallini diventa esplosione spermatica del “molteplice pre-individuale” nella fonte/fontana di vita.
II. IL RIFLESSO DI BERTHOLLET
La dimensione teorica lascia qui il posto a più infuocata materia; Salins mette in disparte Valéry. L’eterogeneità del maschio/femmina, che riflette scienza/arte, è sempre più erotizzata. È orgasmo di forme e colori, i fuochi artificiali di Berthollet, scienza che si trasforma in arte-ficio. Ciò che è pre- individuale, il non organizzato, è sciame spermatozoico in pianificazioni fecondanti, ampiezza sconosciuta di potenzialità ancora informi, mai viste prima, in attesa del loro “fatto”. È razzo/pene che, coi suoi zampilli, fra “vari trasalimenti tettonico/balistici e perfino sussulti o fremiti musicali” fa schiudere una rosa colorata che richiama il paesaggio corallino (ove si cela pube femminile) sensualmente descritto da Von Rezzori. Il tutto condensato nell’immagine della “geometria della danza” che sa abbinare ordine e movimento, scienza e arte, attraverso il filtro del riso, ovvero il distacco gioioso dalla fissità accademica rigidamente sistematizzata; prometeica liberazione dell’aggettivo dall’oggetto egemone, sottrazione degli “attributi” (castrazione?) dalla copula predicativa, come illustrato dalla coppia delle poesie finali aggettivate, le prime due maschili; le ultime due (last not least – dulcis in fundo) femminilmente arieggiate.
III. IL CORALLO AL POTERE
Sottotitolo di questa sezione, di fatto la più corposa del testo, potrebbe essere un sarcastico “C’è del marcio in Onomarca”, ove per onomarchia s’intenda il potere del nome e l’onomarca è anagramma per omaggiante “O monarca!”. Sotto attacco è il potere del nome quale nome e potere del padre (è forse un caso che qui manchi l’esergo, gli altri tre rievocanti Valéry?), con non così oscuri richiami all’immaginazione al potere di sessantotteschi rimandi (con sottili sarcasmi al Re d’omaggio). E quindi con il corallo che cavalca l’immaginazione, la quale potrebbe condurci direttamente a Canossa ed all’umiliazione del nome. Tutto infatti ruota intorno alla sua significanza che, come da prassi, si differenzia in accordo alla sua eterogenesi. Da un lato, il maschile, il titolo/funzione/maschera; dall’altro, il femminile, grembo di felici ricordi, il caro nome (cara “enne”) cantato dalla gilda degli artisti. Aspetti rappresentati (e virtualmente giustapposti) in due figurazioni. La prima, antropologica: liturgia funebre melanesiana legata al nome sacro dell’antenato, trasmesso ai discendenti attraverso un rituale di morte che richiede un sacrificio umano (ironica allusione a Lévi-Strauss e alle strutture della parentela, rigormortis-amente irrigidite, per il tramite di Remo Guidieri: Guida ieri e Remo messo a morte); l’altra un pastiche dannunziano celebrante la vivacità, la musica e la grazia femminile che il “caro nome” è in grado di evocare; nome che sembra invito alla carezza, appello a sfiorarne la “pelle”; la “piuma al vento” che si prende gioco della staticità e della compattezza della roccia, che però mostra crepe e fessure le quali, se da una parte, sono indizio di disgregazione e tragicamente esperite (dall’ adamizzazione dell’atomo alla atomizzazione dell’Adamo); dall’altra diventano labbra aperte dapprima al ghigno, poi al sur-riso di-sè-incantato delle vergini che dànno vita alle rocce (la voluttà della pietra invasa dalla fresca e fluida vita [... ] poi fu come uno scroscio di risa poderose).
IV. RIZOMATTE
Come l’autore ci dice, “rizomatte” è un portmanteau (nuotare l’eau!) ove rizoma è copula di matte (il contorto agglomerato di parti di posidonia morta ancorate ancora al substrato); modo in cui egli afforma la propria autonomea pur se affondata in morte traduzioni. Ed è anche lo spazio simbolico in cui il dottorale Jaguin si anomeorfizza in Suffleus. Il tutto sotto il segno dell’aria, la quale vale e soffio e musica e poesia; il soffio che concepisce e concupisce il nome; lo pneuma che feconda la vergine; rivincita che serve a bilanciare il maschio di cui sopra de-nume-nato e che procede per sequenza di nove sinfonie, soffi cantati:
- IL NOME AL VENTO
- IL SOFFIO DEL CORALLO
- SETE DEL SOFFIO
- L’ALTO SOFFIO DELL’UOMO
- I SOFFIATORI DI VERSI
- IL SOFFIO DELLA RIVOLUZIONE
- IL SOFFIO di ALISENDA
- IL SOFFIO DI SINUESSA
- COMMEDIA CORALLINA
L’uomo abbandona il proprio narcisismo (3) e, accantonato il suo aspetto socio-professionale, si manifesta poeta (4) e canta la sua donna, la sua aurora (1), da cui si sente attratto e che lo esalta (2). Preferisce i sussurri degli amplessi (5) alle ballate rivoluzionarie; ed ai grandi ideali professati (e traditi) le minute e graziose quisquilie della sua donna (6), nella sua effervescente leggerezza (7) che, col suo soffio, egli trasforma in Venere di Sinuessa (8); in un gioco teatrale di amorose schermaglie (9). L’uomo (Man) che come raggio (Ray) ridà vita alla sua fanciulla annegata e che trasforma nella Sibilla che lo attira a sé (Tua sibit tibis: palindromo di mutua rispondenza) morfogenetizzando lo pseudo-nome (il suo mal firmarsi) in un Suffleus eterogenizzato; il suo vagare incerto, da Malfirmo, nel “cantus firmus” che la celebrerà riplasmata in paesaggio sibillino.
Senza il Malfirmo Sibilla non si attiverebbe, ma senza Sibilla il Malfirmo non scriverebbe nulla.