SILVIA PIO
Mi sono fatta assumere perché volevo stare vicino a lui, ascoltarlo vorticare veloce solo a dieci passi di distanza. Ho barato sui miei studi per accaparrarmi il lavoro, l’unico disponibile nella sua cucina.
Mi sto facendo bollire le mani e cuocendo al vapore i capelli solo per poter respirare gli effluvi succulenti che lo circondano. Passo sei sere a settimana a pescare piatti nel lavello, profondo un metro e pieno di saponata ustionante, metterli nella lavastoviglie a vapore, e poi a sfregare pentole.
Il momento peggiore è quando i clienti se ne vanno e mi vengono serviti i cristalli: cinque diverse misure, tutti – com’è giusto che sia – fragilissimi. Ogni bicchiere vale 50 Euro e se ne rompo qualcuno il loro valore mi viene dedotto dallo stipendio.
Ma nessuna sofferenza potrà essere mai insopportabile se sto nella stessa stanza, beh cucina, dov’è lui, se posso adorarlo e servirlo come il dio dell’Olimpo culinario. Così l’hanno chiamato nell’ultima recensione di “Les Divins Chefs”.
E sto a dieci passi da lui, lo guardo, lo studio…
Aspettate un momento, che vi viene in mente? Non lui come uomo, per l’amor del cielo! È tondo come un Grand Ballon e poco più alto. Ha gli occhi come una casseruola da forno piena di sugo stantio, piazzati su un naso inesistente che alla fine della serata prende il colore del suo soufflé di mirtilli. Non è capace di mettere insieme quattro parole senza che tre di esse siano bestemmie e quando perde le staffe, il che succede sovente dopo le 10 di sera, penso che avrebbe potuto avere un futuro come lanciatore di coltelli. Davvero. Mi hanno detto che i grandi chef sono spesso meschini e inclini alla collera, e che devi stare lontano dalla loro traiettoria quando sono sotto pressione perché possono scagliare qualsiasi cosa nella tua direzione. Lui tira i coltelli. Non sto scherzando, li fa sibilare attraverso l’aroma delle sue delicatezze, a cinque centimetri dal tuo orecchio, e li manda ad infilarsi nei pannelli di legno della cucina.
Non me ne importa un fico del suo aspetto, dei suoi modi e del suo linguaggio indecente. A malapena mi accorgo di quanto succede. Tutto ciò che voglio è capire il suo segreto, perché il suo modo di cucinare è quello che è.
Ho fatto il corso di alta cucina alla Scuola Alberghiera di Mondovì, una delle più rinomate della zona. Ho sempre voluto diventare uno chef. Tutti i miei insegnanti erano pieni di timore reverenziale nei suoi confronti, lo consideravano il più grande chef che Mondovì abbia mai avuto. Anche la sua collera era conosciuta, così come il suo brutale disprezzo per i corsi e gli insegnanti di cucina. Loro andavano nel suo ristorante facendo finta di essere turisti, alcuni si camuffavano. «Cucina in modo semplice, con ingredienti locali e di stagione, ma riesce a combinarli in modo così inaspettato che i clienti non credono alle loro papille. Non è la ridicola contaminazione francese né la neo-tradizionale cucina italiana, solo arte allo stato puro».
Da quando ho saputo come cucinava ho deciso che volevo stargli vicino, studiarlo, rubargli le idee, creare un’osmosi tra noi.
Finita la scuola, ho telefonato al suo ristorante per cercare lavoro, qualsiasi lavoro. Mi ha risposto il sous-chef: «Abbiamo bisogno di una lavapiatti, spero lei non abbia fatto la Scuola Alberghiera».
Risposi ed ottenni il lavoro.
È stato tre mesi fa. Ho subìto la Fiera del Tartufo e la Mostra del Gusto. Ho pulito tonnellate di piatti dalle poche briciole che i clienti vi lasciavano. Alcuni piatti sono così immacolati che potrei rimetterli direttamente nelle credenze. Non preoccupatevi, non lo faccio. Sono affidabile e ligia al dovere, e non voglio rischiare di esser beccata a fare qualcosa di scorretto. Voglio tenere stretto questo lavoro perché voglio carpire il suo segreto.
«Vuoi carpire il suo segreto, vero?» Il sous-chef mi stava guardando dritto in faccia, «ti osservo da quando hai iniziato». Non potevo negarlo.
«Vieni al pub qui vicino quando hai finito che ti pago da bere».
«Da giovane era un buono a niente, totalmente incapace a vivere. Siamo andati a scuola insieme. Dopo la scuola ho iniziato a lavorare nel bar di mio padre e lui mi pregò di convincere mio padre ad assumerlo. Servivamo stuzzichini con l’aperitivo del venerdì, lui iniziò a preparare qualcosa di diverso e i clienti erano soddisfatti. Mio padre pensò che dopotutto non aveva fatto un cattivo affare nel prenderlo. I clienti venivano per il cibo, così mio padre decise di servire anche cena. Il bar diventò un ristorante e lui venne chiamato cuoco.
Riuscì a trovare il fegato di chiedere alla cameriera di uscire. Lei restò incinta e lui la sposò. Il bambino aveva qualcosa che non andava e lei non riuscì a sopportarlo. Era una ragazza semplice, sai, un piccolo animale indifeso. Quando nasce un cucciolo deforme, la cagnetta lo abbandona. Una sera, al ritorno dal lavoro, lui trovò il bambino morto stecchito. Di lei non c’era traccia, non l’abbiamo più trovata.
Pensai che sarebbe impazzito, invece andò dritto al lavoro la mattina seguente e iniziò a cucinare come cucina. Penso sia questo il suo segreto: un dolore più grande di quanto si possa sopportare. Diventò un orribile soggetto ma un cuoco eccezionale».
Tornando a casa stamattina ho meditato su quanto avevo sentito. Tutto il fascino di essere un grande chef come lui aveva perso lo smalto. Forse avevo carpito il suo segreto ma non ero sicura di volere che fosse anche il mio.
Magari non vado a dormire e aspetto che apra il bar della stazione. L’orario è dalle cinque e mezza di mattina alle undici di sera. Fanno dei croissant freschi, non quelli scongelati pieni di colesterolo, e regalano i cioccolatini. Ma non è per questo, voglio vedere una cosa. Passando di lì l’altro giorno ho adocchiato un cartello: “cercasi aiuto in cucina”.
Sono troppo giovane e allegra per credere che uno chef debba essere infelice. Voglio che la vita mi serva dei piatti buoni, sani, facili da digerire. Voglio trovare su uno di questi l’opportunità di diventare un cuoco. Tanto vale che inizi con croissant e sandwich, potrei proporre stuzzichini con l’aperitivo o persino cene. Sarò nominata cuoco, chissà?
O forse tornerò al ristorante stasera e farò finta di non sapere nulla. Ricomincerò a lavare piatti e asciugare bicchieri, schivare coltelli e studiare tutte le sue mosse.
(disegno di Silvia Pio)
Articolo apparso originariamente il 6 febbraio 2014
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