Una gita al Cervino (luglio 1962)

(da Wikimedia Commons)

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SILVANO GREGOLI

Preambolo

Ho scritto diversi “racconti di montagna”, come si dice. Tutti autobiografici. Da scrivere ne avrei ancora altrettanti, ma probabilmente non lo farò. Per mancanza di tempo e di motivazione. Perché allora, proprio adesso, questo nuovissimo racconto, inedito: Una gita al Cervino? Semplice: erano sessant’anni che lo avevo sulla punta della penna, ma non avevo mai avuto il coraggio di scriverlo. Adesso, è cosa fatta. 

Il contesto socio antropologico

Si tratta di un gruppo di ragazzi piemontesi, sui vent’anni, amanti della montagna e alpinisti di livello medio+. Molta forza fisica, competitività, ormoni alle stelle. Nell’insieme, le pulsioni vitali di questi ragazzi si dividevano, equamente, tra il desiderio di percorrere con le loro mani le morbide epidermidi delle loro compagne, e quello di percorrere con le loro mani le rugose pareti delle loro montagne.

Membri della spedizione

Cordata monregalese: Corrado e Silvano.
Cordata cuneo-torinese: Nino e Vittorio (Toju).

La prima cordata, stravagante, era rotta alle scalate di tipo III e IV. Il loro CV testimoniava di ripetute traversate della Cresta Sigismondi all’Argentera, delle Creste Savoia, della cresta Est del Viso; delle vie più facili al Corno Stella, al Brec e all’Aiguille del Chambeyron; e poi, su per il Marguareis, il Pic d’Asti, la Roc la Niera… Tecniche di scalata: corda di assicurazione sempre legata in vita con un nodo, sempre di conserva, sempre strascinata; corde doppie a pelle; niente imbrago, niente casco e nessuna nozione di autoassicurazione. La corda serviva essenzialmente ad assicurare che, in caso di caduta di uno, cadesse anche l’altro.

Nella seconda cordata, Nino rappresentava la frangia cuneese della prima, con salite spesso condivise. Il suo CV era dunque simile a quelli della prima cordata, ma un pelo più aristocratico. Comprendeva rudimenti di autoassicurazione e rare scalate esotiche con elementi non autoctoni.
Vittorio (Toju), di Ivrea, veleggiava invece a livelli decisamente più alti: aveva arrampicato secco sulle Graie. A volte anche nel IV+ – V. Si crogiolava nella nostra accettazione della sua superiorità. Taciturno, elargiva a volte un sorriso stereotipato.

Né Corrado, né Silvano, né Nino erano mai stati dalle parti del Cervino. Solo Toju, anni prima, aveva raggiunto la Capanna Luigi Amedeo, ora Capanna Carrel.

Logistica

A metà luglio 1962, io mi trovavo a San Bernolfo (Valle Stura) al campeggio della FUCI: universitari di ambo i sessi sotto il controllo di un prete. Vivaio di amoretti malvisti dal prete e di santi matrimoni in gestazione benvisti dallo stesso.

Nino e Corrado sarebbero venuti la sera prima a San Bernolfo in auto e avrebbero pernottato con me. L’indomani, noi tre saremmo partiti alla volta di Ivrea dove avremmo imbarcato Vittorio (Toju) per proseguire poi su Cervinia, partenza della “gita”, come noi continuavamo a chiamarla.

Equipaggiamento

Pur coscienti di voler conquistare un “quattromila”, ognuno di noi (tre) aveva pensato ben poco all’equipaggiamento.
Tolto Toju, di cui immagino la meticolosa preparazione, gli altri tre esibivano esternalità, se non proprio fantozziane, almeno poco consone alla solennità della gita che si profilava. Io per me avevo previsto, oltre alla classica camicia a scacchi e pantaloni alla zuava, un vecchio duvet a rombi verdastri già mezzo svuotato di piume, uno zaino con rinforzo dorsale in cuoio materassato, cucito a macchina da Fenoglio tendaggi di Mondovì, i vecchi ramponi di Vigiu, la corda di Vigiu per la cordata con Corrado, ma soprattutto un paio di spessi mutandoni di lana, comprati apposta, mai messi prima e mai rimessi dopo. Niente piccozza, niente guanti, niente berretto e niente occhiali da sole.
Di Corrado non so niente.
Di Nino so per certo che indossava pantaloni alla zuava con calzettoni di lana bianchi che gli cadevano giù, dalle ginocchia alle caviglie, ogni tre-quattro passi. Posso affermarlo perché ogni volta che me lo trovavo davanti, lo vedevo tirar su i calzettoni che gli erano andati giù. E questo dall’inizio fino alla fine. Diverse migliaia di volte. Ho poi saputo, da lui stesso, che come “giacca a vento” si era procurato una giacchetta di cotone grigio-beige con il “marsupio” sul petto. Sul Cervino poteva sempre servire.

 

La sera prima

Mentre giravo nel recinto del campeggio, qualcuno mi dice: «Silvano, i tuoi amici sono arrivati. Sono parcheggiati nel prato di sotto».
Mi sporgo e vedo subito. Corrado aveva entrambe le braccia avvolte da spesse bende di tela, di tipo ospedaliero, grandi ustionati, e le teneva alte come nelle immagini del Cristo benedicente.
«Corrado, ma che cazzo ti sei fatto?»
«Gnente, j’eu ciapà ‘n can.» (niente, ho preso un cane)
«Ma quando, dove, come?»
«Ier matin. Su ’l Rive, ‘n Vespa. Son fame tute ‘l Rive ‘n si bràs.» (ieri mattina, sulle Ripe, in Vespa. Mi sono fatto tutte le Ripe sulle braccia)
Nel frattempo mi ero avvicinato e avevo potuto constatare. «Ma Corrado, così come sei non possiamo andare sul Cervino!»
«Sagrinte nen. Son mac di crost!» (non preoccuparti, sono solo delle croste!)

A cena abbiamo dovuto imboccarlo. Rideva: «Sagrinte nen… sagrinte nen…»
Ha dormito vestito. Mi chiedo, adesso, come ha fatto a fare la pipì. Io non l’ho aiutato.

  

Mattina della partenza

Si parte: Nino al volante, io sul sedile passeggero, Corrado, proprietario dell’auto – una Fiat 1100 famigliare con portabagagli sul tetto – se ne stava seduto comodo sul sedile posteriore, le braccia irrigidite dalle bende nel gesto benedicente. Noi tutti pensavamo a cosa avremmo potuto fare. Probabilmente lasciare Corrado a Cervinia e noi andare su. Complicazioni in vista. Lui, dietro: «Sagrinte nen!».

A Ivrea imbarchiamo Toju. Io cedo a Toju il posto passeggero, mi installo vicino a Corrado, cerco di illustrargli la situazione, ma lui: «Sagrinte nen».

In Valtournenche piove. A Cervinia piove, il cielo è grigio compatto e ci infiliamo in un bar sperando che smetta. Non smette. Caffè, panini, tramezzini, molti dischi 45 giri nel juke box. Canzoni fin troppo sentimentali. Io non ricordo chi fosse la mia bella di quei tempi, ma ricordo che mi sentivo sciogliere d’amore per lei e volevo offrirle il Cervino conquistato, anche sotto la pioggia. Peccato non aver preso un berretto! Che stupido! Non si va sul Cervino con la pioggia, senza berretto.

Passano le ore, siamo ormai oltre le 13 del pomeriggio. Il programma di andare a passare la notte alla Capanna Luigi Amedeo, in piena parete, a 3850 m, è già saltato da un pezzo. E fuori continua a piovere. Il barista dice che sono due giorni che piove ma che è stato previsto un miglioramento.

In marcia verso il Rifugio Oriondé

Verso le 15 un raggio di sole inonda il bar. Usciamo tutti fuori: si è alzato il vento, sta spazzando via le nubi, il cielo è di un blu intenso, il Cervino non si vede ancora… Eccolo, eccolo, si vede!

È tutto bianco! Fine della gita al Cervino.

Decidiamo di salire almeno al rifugio Oriondé, 2800 m, due-tre ore di marcia. Il bianco della neve fresca comincia appena sopra. Sotto, è tutto un trionfo di prati verdi.
Si parte. Corrado, sulle cui spalle abbiamo caricato il suo zaino, sembra apprezzare l’aria, di tipo primaverile.

 

Incontro con Luigi Carrel detto “Carrelin”

Il grande rifugio Oriondé – brutto casermone di cemento costruito alla militare nel 1930 – era vuoto. Scegliamo una camera squallida con tavolato, materassi e coperte. Rovistiamo nel rifugio, piazzato ai piedi della parete sud del Cervino, non lontano dalla lingua terminale di un brutto ghiacciaio che rendeva ancora più ostico il colosso bianco sovrastante.

Io esco dal rifugio e girello nei dintorni. Non ero abituato a tali grandezze. Mi sentivo un po’ intontito. Quel ghiacciaio verdastro mi incuteva timore. Per fortuna la neve appena caduta sulla montagna mi calmava parecchio. L’indomani non sarebbe stato un giorno di fatica, ma un giorno di passeggiate contemplative nei dintorni del rifugio, prima di riportare a casa il nostro amico Corrado: grottesco con le sue braccia bendate e perennemente alzate.

L’incontro si è verificato mentre dal piazzaletto dell’edificio stavo guardando verso il basso. Un uomo, piccolino ma deciso, stava salendo dal sentiero con un buon passo. Eccolo presto davanti a me, leggermente in basso sul sentiero.
Gli dico: «Buongiorno». Mi risponde: «Buongiorno». Poi sorridente, ma spigliato: «Lei cosa ci fa qui?»
Mi dico: questo è il custode del rifugio. «Sono qui con tre amici. Volevamo andare sul Cervino ma con tutta ‘sta neve abbiamo deciso di rinunciare. Domani torniamo a casa.»

L’ometto mi aveva dapprima dato una lunga guardata perplessa, poi era sbottato. «“Rinunciare”: pfeuh! Avete vent’anni e “rinunciate”. Con quelle gambe lì, “rinunciate”. Con quella faccia lì “rinunciate”. Vergogna! Io ho più di sessant’anni e domani sarà la terza volta che salgo sulla Becca in settimana!» Scuote la testa disgustato.
Sono stordito e gli chiedo: «D’accordo, d’accordo; ma lei chi è?»
«Io sono Carrelin, mi conoscono tutti da queste parti. Io domani vado su con un cliente. Partiamo prestissimo. Se partite anche voi troverete le nostre tracce. Aspetta un momento…» Si ferma, tira fuori dalla tasca un binocolo e comincia a guardare la parte alta del Cervino innevato. «Siete fortunati: la Scala Jordan è tutta una colonna di ghiaccio. Se non ci fosse Carrelin davanti a voi non avreste potuto salirla. Avreste dovuto “rinunciare” sul serio» e ride. «Ma ve la pulisco io, con la piccozza, la Scala Jordan, così non avete scuse.» Mi guarda, un po’ dubitativo, poi aggiunge. «Al Linceul, vi lascerò un chiodo piantato nella parete di sopra. Tenetevi alti, assicuratevi, soprattutto in discesa. Domani voglio vedervi in cima al Cervino!» Un ultimo sguardo, decisivo, e scompare nel grande rifugio.

I miei soci non l’hanno incontrato. Ne parlo con loro la sera, a cena, seduti sulle pietre fuori del rifugio. Poi Toju: «Domani cominciamo ad andare al Colle del Leone, poi si vedrà.»

 

Si sale

Comincia male. Sveglia alle cinque e passa: «Cazzo, la sveglia non ha suonato!» Si parte alle cinque e mezza. Chissà dove sarà già, Carrelin. Lui e il suo cliente saranno sicuramente partiti alle tre. Comincia molto male.

La salita al colle del Leone va su spedita. Ricordo dei pendii bastardi, abbastanza ripidi, con brecciolino su fondo solido, da fare attenzione. Ricordo anche una o due lapidi di persone (guide?) morte in quel punto, e le ricordo strane, forse cementate a terra, o inclinate pochissimo sul pendio. Comunque, si va su spediti perché «… la cengia che sale al Brec del Chambeyron è ancora peggio e l’abbiamo fatta cento volte».
Eccoci dunque al Colle del Leone. Uno sguardo a 360 gradi, anche sull’immenso ghiacciaio svizzero ai nostri piedi, qualche metro di gattonamento verso destra, poi Toju comincia ad arrampicare. Su la prima cordata. Adesso tocca a noi due. Io vado su bene, anche perché «… la cresta est del Viso è molto più dura». Dico a Corrado di salire, che io lo assicuro. Mentre Corrado sale, praticamente di gambe e di corda tesa, vedo con piacere che comincia a posare le mani sulle rocce. Normale, le rocce erano in alto e le sue braccia anche…
Su, su, su «… come la cresta est del Viso ma un pelo più facile».

A una pausa nella pendenza, Toju e Nino ci aspettano.
«Quella lì» dice Toju indicandola con il capo «è la famosa Cheminée».

Eccola. Un diedro di roccia di venti metri, verticale, con, a quei tempi, un’enorme corda di canapa sul fondo. Il sole picchia e ha già fatto fondere la neve; ma le due pareti del diedro sono tutte rigate dalle punte dei ramponi di quelli che l’hanno disceso il giorno prima. Forse sotto la nevicata.
Toju e Nino, sornioni, ci dicono di andare su prima noi. Per vedere come ce la caviamo.
Io dico a Corrado: «Io vado su, ma tu, come farai?»
Lui: «Sagrinte nen. Va su prima ti, e dòp it’m tiri su» (Non preoccuparti. Vai su prima tu, e dopo mi tiri su».
Io: «Tiro su un corno. Anche se io tiro, tu come farai con le mani?»
Lui: «Ti sagrinte nen. Ti ’t tiri, e mi i but i pé» (Non preoccuparti. Tu tiri e io metto i piedi).

Qui qualcuno comincerà a credere che racconto balle. La cosa è plausibile, ma nondimeno la cosa è andata proprio così. Io ero “forte” a quei tempi: forte al lancio del disco. Mi attacco al canapone, mi tiro su con le braccia, veloce, una bracciata dopo l’altra, appoggiando i piedi alla roccia. La mia fedele corda di sicurezza, legata in vita, mi segue penzolando sotto di me. Fortuna che c’è! In un minuto sono sopra La Cheminée. Di slancio. Da lassù non si vedono quelli sotto.
Mi siedo comodo. I piedi appoggiati contro un grosso pietrone, mi passo la corda intorno alla schiena e grido a Corrado di salire. Sento che la corda viene, poi si fa dura. Un grido dal basso: «Tira su!» Io comincio a tirare con il busto: tiro e blocco, tiro e blocco, tiro e blocco, tiro e blocco… La corda è tesa ma viene. Dopo un po’ vedo sbucare Corrado, felice come un grillo: «È-tu vist?» (Hai visto?)
Se qualcuno crede che racconti balle, stacchi subito. Il resto sarà simile, ma ancora peggio. Soprattutto quando Corrado, inebriato dall’altezza, si sbenda completamente le braccia, mette le bende sanguinolente in un buco tra due pietroni, e viene contro di me con aria di rivincita «È-tu vist? Adess mi vogn su mej che ti» (Hai visto? Adesso io vado su meglio di te). La sfida era lanciata.

Continua

La salita al Cervino è ancora lunga, non posso raccontare tutto per filo e per segno. La giornata era splendida, il sole caldo, la neve caduta i giorni prima fondeva a vista d’occhio. Alcune rocce erano bagnate, altre già asciutte, altre con tratti di vetrato. Bisognava fare attenzione, ma l’adrenalina c’era e la fatica non si sentiva per niente.
Sopra la Capanna Luigi Amedeo, su di corsa lungo le Corde della sveglia, belle, calde e facili che era un piacere. Toju, sprezzante, non le tocca nemmeno.

Non ricordo se ho messo i ramponi per salire il Linceul. C’erano comunque delle belle tracce sul nevaio, forse tagliate da Carrelin, e mi sembra che io abbia solo messo i piedi dentro. E in più c’era il suo famoso chiodo, e il moschettone messo da Toju, e la corda che passava nel moschettone, e Corrado che si faceva sotto, competitivo…

Sulla Gran Corda Toju ci ha estasiati con un passaggio in libera di grande eleganza, sprezzante della Gran Corda. Noi, su, a uno a uno attaccati alla corda. Anche Corrado, le braccia coperte di croste sanguinolente. Sale tirandosi su di braccia e mi guarda con occhio trionfante.

Avanti sulla cresta del Tyndall, uno dei luoghi più aerei del mondo. Paura? No. Un senso di pienezza, la gioia della vittoria, anche se la vittoria è ancora lontana. Stanchezza? No. È tutto il corpo che spinge per andare su. In me serpeggia – ma immagino che lo stesso si potesse dire degli altri – il godimento supremo di tornare a San Bernolfo e dire alle ragazze che: «Sul Cervino, beh, ci siamo andati!».
Anni dopo, leggendo le recensioni, e perfino visionando dei filmati su YouTube, ricordo che c’era stato un passaggio sulla cresta Tyndall, dove Toju aveva voluto assicurarci tutti, a uno a uno. Ho saputo dopo che quello era L’enjambée, una lunga sgambata nel vuoto assoluto, il passaggio più esposto di tutto il percorso. Se cadi da una parte sono millecinquecento metri di volo; dall’altra, duemila. Passato come niente.
Gioventù, allenamento, adrenalina, ormoni vari, senso di invulnerabilità. Un senso di gratitudine per Carrelin.
«“Rinunciare”? Vergogna! A vent’anni, con quelle gambe lì, con quella faccia lì… “rinunciare” … Pfeuh

Eccolo lì adesso, Carrelin. Sta spuntinando seduto su una pietra con il suo cliente. Loro stanno già scendendo: beati loro! È contento di vederci salire, felice di sapere che abbiamo apprezzato il suo chiodo al Linceul. Ci dice che adesso, scendendo, non lo tira via; lo lascia sul posto. Noi così potremo usarlo di nuovo e lo lasceremo sul posto anche noi. È bravo il Carrelin. Ci dice di fare attenzione sulla scala Jordan. Lui ha fatto quello che ha potuto, ma è ancora piena di ghiaccio. Poi ride: «La farete come niente».

La scala che porta in vetta

Ultimi passi su una cresta «… che fa pensare all’inizio delle Creste Savoia, ma più sul facile», ed ecco il mostro: la Scala Jordan, il passaggio chiave che Carrelin aveva “pulito”.
Una colonna di ghiaccio, verticale, esposta sulla parete sud del Cervino. Nel ghiaccio, a colpi di piccozza, Carrelin aveva fatto dei piccoli buchi. Uno per scalino. Chissà quanti. Chissà quanto ci avrà messo. Comunque, non facile da salire. Adesso, si salirebbe in autoassicurazione multipla e blindata, una bella Guida di Alta Montagna davanti, afferrando le due corde di canapa che legano i gradini di legno; il tutto ancorato a una indistruttibile corda d’acciaio, moschettoni e fettucce dappertutto, un eccesso di sicurezze per non volare a Cervinia prima del dovuto.
Noi: più spartani. La cordata di Toju e Nino era già passata, adesso stavano raggiungendo la vetta. Rimanevamo noi. Unico modo di salire: mettere un braccio dopo l’altro nei buchi e tirarsi su. Non con le mani: coi gomiti. Ai piedi, sullo zoccolo di ghiaccio degli scalini, scarponi molli senza ramponi. «“Rinunciare?”: vergogna!»
Vado su prima io perché le braccia di Corrado non erano ancora pronte a tutti quei disperati sfregamenti. Mi rivedo, mi risento. Sento soprattutto il passaggio del braccio nel buco, e la trazione verso l’alto con il gomito.
Concentrazione massima: «… qui è più dura della Sigismondi. Forse la Sigismondi in inverno». Corrado, sotto di me, “mi assicura” tenendo con le mani la mia corda pendula, legata in vita a entrambi con un nodo.
Non sto adesso a drammatizzare un passaggio che ho salito senza drammatizzare. Appena arrivato sopra la scala sento, alla corda, che Corrado segue tirandosi su con gomiti e braccia pieni di croste.
Poco dopo, tutti e quattro sulla vetta. Un unico ricordo: la croce della vetta portava dei lunghi candelotti di ghiaccio orizzontali, grandi e piccoli, alcuni grossi come una grossa carota.

Si è fatto tardi. Per fortuna il tempo ha tenuto e sembra ancora tenere. Giù, in fretta! Presto alla Fiat millecento con portabagagli sul tetto. È ancora lunga, ma il più è stato fatto.

Giù, giù, giù. Tutti i passaggi al contrario, di fretta, di conserva. Della scala Jordan non ricordo più niente. Ricordo il Linceul e il chiodo di Carrelin, che Dio lo benedica. Sulle placche sopra la Capanna Luigi Amedeo, Corrado si slega.
Dice che io sono troppo lento. In discesa, in libera, salta da una placca semi verglassata a un’altra, cercando bene di mettere il piede sull’asciutto. Mi grida che sono «… ’n fifon» (un fifone), finché arriviamo, all’imbrunire, alla Capanna Luigi Amedeo, strapiena di gente.
Arriva la Guida: «Non c’è più posto».
«Ma noi dormiamo anche per terra.»
«Per terra è già tutto pieno, dovete andare giù.»
«Giù le bale, è quasi notte, non abbiamo le pile, siamo stanchi, siamo partiti stamattina dall’Oriondé. Noi volevamo rinunciare alla salita, ma è stato Carrelin a farci un culo nero, a gridarci di salire su. Era incazzatismo.»
A quel nome, la Guida, molto contrariata, ci dice: «Fate quel che cazzo volete». Alla fine, io e Corrado smontiamo la stufetta al centro del locale, tubi compresi.
La smontiamo, la leghiamo fuori con del fil di ferro perché il vento non se la porti via e ci mettiamo tutti e quattro rannicchiati al posto della stufetta.
La notte è breve. Il gruppo di milanesi con Guida svuota la capanna alle tre. Noi: tutti a dormire nelle brande milanesi ancora calde!

Partenza alle dieci della mattina dopo, riposatissimi. Ormai era veramente finita. Ma è solo sotto l’Oriondè, ai piedi di una cascatella, tra gli alpeggi verdi smeraldo su cui pesa la massa del Cervino, che mi tolgo finalmente quegli insopportabili mutandoni di lana che, probabilmente, avrei anche potuto non mettere.

Gran finale

Si avvicina il finale. L’arrivo vittorioso tra campeggiatori e campeggiatrici in estasi. Possiamo concludere così? No. Il finale è un finale col botto.

Una volta deposto Toju a Ivrea, il gruppo monregalo-cuneese, si dirige verso dove era partito, e cioè verso la frazione San Bernolfo dell’agglomerato di Bagni di Vinadio, nel Comune di Vinadio, provincia di Cuneo, pregustando già il miele degli allori e dei batticuori femminili.
Per strada, per festeggiare, propongo di comperare una bottiglia di grappa. Pericoli non ce ne sono più e fa molto “eroismo alpino”. Siamo già in Valle Stura e la bottiglia gira di bocca in bocca. Giunti all’inizio della strada sterrata che con molti tornanti va a morire ai piedi di San Bernolfo, la situazione era la seguente. Tutti e tre ciucchi. Nino, seduto dietro, ciucco zen, era vinto da un dolce torpore. Io e Corrado (al volante), ciucchi iperattivi, conflittuali e ai ferri corti. La sfida, non conclusasi sulla piramide del Cervino, continuava nell’auto di Corrado, che guidava a scatti, come quelli del suo umore.

Di colpo, gli lancio una sfida: «Vuoi scommettere che io salgo sul portabagagli e tu non riesci a buttarmi giù?»
Corrado inchioda la macchina: «Monta!» Sfida accettata. E non per ridere.
Salgo sul portabagagli, infilo i piedi tra la sua struttura e il tettino dell’auto, mi corico a pancia in giù, afferro l’attrezzo prendendolo con i miei avambracci che scompaiono sotto il portabagagli, stringo tutto e gli grido: «Sono pronto!»
Era pronto anche lui, e non per ridere. Parte infatti mollando la frizione di colpo e sollevando un polverone.
Riandando adesso col pensiero, mi viene in mente quella poesia del Carducci, studiata a scuola, dove si narra di Teodorico di Verona, in sella a un cavallo diabolico che, per punirlo delle sue nefandezze, lo porta via con sé, fino a buttarlo nel cratere di Vulcano.

In quel mezzo il caval nero, spiccò via come uno strale, e lontan d’ogni sentiero ora scende e ora sale: via e via e via e via, valli e monti esso varcò. Il re scendere vorría, ma staccar non se ne può…
Via e via su balzi e grotte va il cavallo al fren ribelle: ei s’immerge ne la notte, ei s’aderge in vèr’ le stelle… Quivi giunto il caval nero contro il ciel forte springò annitrendo; e il cavaliero nel cratere inabissò.

Non era un “caval nero” la millecento di Corrado, ma la determinazione del nocchiero era grande. Tutta la sua abilità di guida era focalizzata allo scopo di buttarmi giù dal tetto: frenate, accelerazioni, bruschi scarti, pazzeschi dérapage nelle curve di terra.
Solo che, nei fumi della grappa, a un certo punto, invece di sentire il vento della corsa e le botte della carrozzeria contro le mie costole e il mio bacino, mi sembra improvvisamente di volare. Sono secondi di pace immensa, di unione con la serenità del Creato. Il portabagagli dell’auto si era dissociato dal tetto dell’auto e volava nell’aria portandomi via con sé. Fortemente abbracciati.

Per fortuna, all’atterraggio non c’era un grosso pietrone, come tanti su quella strada. C’era solo il fondo ghiaioso di uno slargo di curva lastricato dall’Anas.
Corrado non mi aveva visto volar via e continuava a guidare come un indemoniato per sbattermi giù dal tetto.
Nino, zen, aveva visto attraverso il finestrino posteriore un piede volare nell’aria e continuava a dire a bassa voce al Corrado indemoniato: «Ferma Corrado… che Silvano non c’è più… è partito che sembrava un aeroplano…»

Mio atterraggio di schianto, sulla ghiaia del fondo. Per fortuna lo schianto è attutito dalla pelle, dalla carne e dai muscoli dei miei due avambracci.
Corrado, lassù, nel suo stesso polverone, continua a cercare di buttarmi giù dall’auto.
Nino, nell’auto, salmodia il mantra precedente che nessuno ascolta.

Poi, finalmente, tutto si ferma. Corrado, incazzato nero, dopo una lunga e rabbiosa marcia indietro, mi strappa il portabagagli dalle mani, lo riattacca all’auto e mi dice di salir su. Io salgo in macchina, le braccia sanguinanti…
La rivincita del “caval nero”?

Poi… ricordo appena… a San Bernolfo… ragazze silenziose al mio capezzale.
Il prete che mi asperge le ferite con il mezzo litro di grappa rimasto.
Ragazzine diafane mi tamponano le carni a nudo, altre estraggono le ghiaiette incastrate nella mia carne profonda, altre mi tengono le mani per aiutarmi a reggere il dolore, altre mi accarezzano le guance, altre mi puliscono gli occhi sporchi di terra…
Altre bendano le mie braccia: dai polsi ai bicipiti.

La Gita al Cervino non poteva finire meglio.

Quando ci penso: la più bella gita della mia vita.
E quel momento, il momento più bello della gita.
Un inno alla Vita.

cervino-9

QUI la versione francese