FRANCES FAHY
Mi accingevo a scrivere un articolo quando mi resi conto che la canzone “The Parting Glass” (Il bicchiere della staffa) aveva cominciato a martellarmi in testa come un uccellino sui vetri. Per chi non lo sapesse, si dice che la canzone sia di origini scozzesi, ma gli irlandesi l’hanno fatta diventare una loro ballata per sfogare tensione e dolore durante una veglia o un saluto per chi lascia la propria terra. «L’ascolterò in sottofondo mentre scrivo», mi sono detta. E poi ho iniziato a pensare: «Mi rende solo malinconica?», «È questo che voglio in questo momento?». Così, invece di ascoltarla e cantarla, mi sono ritrovata a rincorrere riflessioni sulla natura e sul concetto di malinconia.
La radice greca della parola melankholia significa profonda tristezza, ma anche bile nera, secrezione del fegato che la fisiologia medievale riteneva facesse sentire le persone, come suol dirsi, giù di morale. Il poeta francese Baudelaire la chiamò spleen. Organo situato accanto al fegato, lo spleen è responsabile della funzione immunitaria del corpo e nelle opere di Baudelaire è adoperato per rappresentare l’angoscia, la rabbia, la malinconia e, soprattutto, l’insoddisfazione nei riguardi della vita coi suoi misteri, contraddizioni e tormenti. Quindi, gli organi del corpo contribuiscono a farci sentire giù, il che implica che non possiamo sempre semplicemente venirne fuori. Questo è di per sé confortante. Approfondendo la questione, una personalità malinconica denota un soggetto troppo impantanato in un carico fisico emozionale per riuscire ad affrontare la vita in modo sano e che spesso sceglie di rimanere in uno stato di spossatezza tale da non riuscire a combatterlo. Abbiamo bisogno di godere di pause di riflessione, ma la riflessione sarà inevitabilmente collegata a sentimenti di sofferenza e di piacere su ciò che abbiamo perso e che continuiamo a desiderare. È questo che chiamiamo malinconia. Solo in un secondo momento della vita mi sono resa conto che il mio paesino rurale irlandese era un paradiso per un’indole malinconica e per chi rifuggiva dai rapporti sociali, passava le ore meditando, perdendosi in fantasticherie davanti al fuoco e dimenticando la presenza degli altri.
Malinconia può anche significare “consapevolmente tristi”, di una tristezza che si può desiderare ed evocare come appiglio per la perdita di un proprio caro anche a distanza di tempo. Quindi, anche con un dolore fisico associato al fervore religioso che non si placa. I malinconici si attaccano facilmente tanto al dolore degli altri quanto al proprio. Ci sono persone che addirittura amano i funerali e si crogiolano in un lutto recente altrui. La malinconia in alcuni casi fornisce l’opportunità di indulgere e ispirare l’autoriflessione o l’autocommiserazione. Essa coinvolge contemporaneamente dolore e piacere, cosa che non fa la tristezza, anzi spesso esclude la consapevolezza della vera ragione di un sentimento negativo. Quindi, decidere consapevolmente di immergersi nella tristezza che una particolare canzone, un film, una lettura, una foto o un evento evocano, può rivelare l’elaborazione di una persona in merito a un proprio dolore personale, mentre non è così per un dolore generico associato alla guerra, all’esilio o a un dolore che sentiamo per cose passate da tempo, cose di cui non abbiamo esperienza diretta e da cui ci sentiamo al sicuro e le accantoniamo.
Nel caso dell’Irlanda e della sua storia, ci sono giacimenti di dolore che regolarmente riviviamo, come la carestia del 1840, il dramma dei bimbi venduti, gli sfratti governativi, la sindrome del sopravvissuto e così via. Sapere che certe atrocità continuano oggi in altri paesi possono farci provare il bisogno quasi masochista di rimuginarci su. La maggior parte gestisce questo dolore universale tenendosene fuori e scegliendo quando ascoltare o cantare “The Parting Glass”, “The Fields of Athenry” o altro ed evitare così di dover giustificare la loro tristezza. Il rapporto tra alcol e malinconia è stato studiato a lungo e il pub è un posto in cui rimuginare viene largamente consentito.
Lo studioso inglese Robert Burton (1577 – 1640) disse di aver scritto “The Anatomy of Melancholy”, nel 1621, principalmente per tenersi fuori dalla depressione cronica. “Scrivo della malinconia per essere occupato abbastanza ed evitarla. Non c’è causa più seria della malinconia che l’inattività, nessuna cura migliore che il tenersi occupati”. Nella visione di Burton la malinconia era “una malattia così frequente… nei nostri miserabili tempi che pochi sono quelli che non ne subiscono il fascino” e disse che aveva scritto il suo libro “per prescrivere i modi per prevenire e curare un siffatto male universale, una epidemia che così spesso crocifigge corpo e mente”. Per Burton la malinconia descrive una gamma di anomalie mentali, dall’ossessione alla delusione e a quello che noi oggi chiamiamo depressione clinica. Egli avverte che la varietà di rimedi sono tutti fondamentalmente inutili e incoerenti e che lo spasmodico desiderio di ciò che si è perso irrecuperabilmente in cui noi indulgiamo è più tollerabile del vuoto dell’accettazione della finalità della perdita.
Quindi, ascoltare “The Parting Glass”, “Sliabh na Mban” o una qualsiasi tra le altre centinaia di canzoni tristi o il “fado”, come lo chiamano i portoghesi, non è segno di debolezza o di sentimentalismo, ma significa che stiamo riconoscendo un bisogno che forse neanche comprendiamo o mettiamo in discussione e stiamo dando al nostro spirito la dose costante di aiuto per affrontare sia il dolore personale che il perenne bombardamento di dolore universale che ci viene propinato.
Traduzione di Giuliana Manfredi
Questo pezzo è stato pubblicato in inglese nel blog dell’autrice https://francesfahywritings.wordpress.com/2023/04/23/is-bringing-melancholy-on-ourselves-useful/ e su Margutte qui.
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