FULVIA GIACOSA
Figlia d’arte (il padre scultore, la madre pittrice e marionettista), Giosetta Fioroni è nata a Roma dove ha studiato all’Accademia di Belle Arti con il maestro Toti Scialoja, vicino all’astrattismo informale. Da lui trae l’uso di svariati linguaggi, quello strettamente pittorico e quelli della fotografia, cinematografia, scenografia. Inizia a lavorare intorno al 1954: “Galeon” di quell’anno è una composizione quasi astratta con segni di matita, lettere, numeri e pennellate gestuali tra ampi spazi bianchi. Già l’anno dopo espone alla Quadriennale romana lavori su oggetti comuni, lampade, orologi, cuori, a tecnica mista. Contemporaneamente fa la costumista per la televisione allora ai suoi albori. Dopo un lungo soggiorno a Parigi iniziato nel 1958, riprende i contatti romani e partecipa al clima vivace dei giovani artisti che si riuniscono al Caffè Rosati in Piazza del Popolo e hanno come galleria di riferimento “La Tartaruga” di Plinio De Martiis: Tano Festa, Franco Angeli, Mario Schifano, Mimmo Rotella (che frequenta anche le mostre del Nouveau Réalisme francese), Mario Ceroli (scultore), Jannis Kounellis (che poi aderirà all’Arte Povera), insomma quel gruppo che la storia dell’arte chiamerà, per il luogo d’incontro, gli “Artisti di Piazza del Popolo”, riduttivamente considerati i Pop italiani. Qui giungono artisti stranieri del calibro di Robert Rauschenberg e Cy Twombly; qui si riuniscono anche letterati (da Moravia a Pasolini) e cineasti (Fellini). Ancora oggi chi sente nominare la Fioroni pensa immediatamente a questa fase centrale nella sua biografia artistica. Gli anni Sessanta sono fecondi di opere assai note che proiettano sulla tela diapositive poi rielaborate con pennelli e vernici industriali, in particolare l’alluminio che l’artista chiama “argento”. Sul piano realizzativo Giosetta parte da una fotografia e la trasformata in diapositiva proprio per poterla proiettare sulla tela; interviene poi con matite per i contorni della figura, spesso reiterata con piccole variazioni di tono, riprendendo una modalità tipica del Futurismo, in particolare di Balla. La scelta dell’argento avvicina la pittura al cinema in bianco e nero, soprattutto quello francese d’avanguardia conosciuto a Parigi. I soggetti comprendono citazioni da opere della storia dell’arte come “Venere. Da Botticelli” e “Nascita di una Venere Op” entrambi del 1965, che fanno parte del ciclo “Argenti” in vernici mescolate all’olio: l’icona rinascimentale è resa con i linguaggi della contemporaneità, quello Pop per la prima opera citata che usa l’iterazione alla Warhol (si veda l’argento di Warhol in “Triple Elvis”, 1964), quello Optical per la seconda opera, attenta alle distorsioni percettive, il che si deve al confronto con le ricerche ottico-visuali del tempo basate sulla Gestaltpsichologie, come andava realizzando in America Bridget Riley. La serie degli “Argenti” (1964-’67), che a volte accoglie tratti di colore, hanno diversi soggetti: ritratti glamour come “La ragazza della tv”, 1964, bambini solitari anche quando in gruppo (“Bambini”, 1961) o amanti “Abbraccio” (1965).
Si è parlato di un linguaggio pittorico molto massmediale e in effetti la Fioroni possiede un alfabeto visivo assai simile a quello della televisione e del cinema, cosa che condivide con l’arte Pop; tuttavia mi sembra che le analogie siamo minori delle differenze. Queste stanno tanto nelle modalità tecniche (“sono dipinte col pennello, con la simpatia artigianale che l’uso del pennello comporta”, dice) e nella scelta del colore (“L’argento è memoria, recupero e sospensione di tempi differenti”) quanto nella resa dei sentimenti da non confondere con sentimentalismi). Lo conferma l’artista in una intervista del 2015: “Le immagini di Warhol erano stemmi, immagini totalitarie, descrivevano un simbolo. Le mie erano immagini legate a un sentimento narrativo”. Tutto il suo lavoro, anche oltre questa fase, è centrato sul quel sentimento narrativo che la allontana dalle icone-oggetto pop e la porta a concentrarsi sulla figura che, per quanto standardizzata, si propone come “soggetto”. Certo il confronto con l’arte americana rimane importante, soprattutto nel 1964 quando la Biennale di Venezia (anno del Leone d’oro a Robert Rauschenberg) dedica una particolare attenzione ai nuovi realismi americani ed europei. Un altro gruppo di opere degli stessi anni (“Liberty”) è caratterizzato da una raffinatezza iconografica e stilistica, tutta europea, di figure femminili e fa parlare Gillo Dorfles di arabesco. La prevalenza di giovani donne nelle opere della Fioroni va di pari passo con l’emancipazione e il movimento femminista ma all’artista preme dire che il suo lavoro è incentrato non sul femminismo ma sulla femminilità, anche la più segreta e malinconica. Ad essa si aggiunge il tema dell’infanzia come luogo d’origine cui tornare, per sintetizzare un commento di Goffredo Parisi in un articolo pubblicato nel 1965. Con lo scrittore, dal 1964, inizia infatti il lungo rapporto interrotto nel 1986 dalla morte di lui, cui dedica il “Ritratto di Goffredo Parisi” (1966). La coppia si trasferisce in una casa a Salgareda, lungo il Piave, luogo eremitico lontano dalla mondanità romana, dove l’artista, pur non abbandonando la tela, si dedica al disegno (“Spiriti silvani” a china nera) e al collage (“Le Teche”, contenitori lignei per pezzi di natura raccolti nei boschi come fiori, legni, piume di uccelli, nidi).
Nel 1968 realizza una performance, modalità in ascesa in quegli anni, dal titolo “Spia ottica” con la cinepresa che “spia” la quotidianità: una donna è ripresa nella camera da letto di Giosetta in azioni abitudinarie a cui gli spettatori assistono guardando attraverso una lente applicata sulla porta della stanza, un po’ come l’ultima opera di Duchamp “Étant donnés” (1946-1966). È tutto un gioco di rimandi tra chi guarda, la donna consapevole d’essere guardata, l’autrice che inquadra il proprio alter ego; la performance sottolinea tanto la tendenza voyeuristica degli astanti quanto la riduzione a stereotipo “consumabile” della protagonista. Ciò che spiazza è la rivelazione di quanto falsa sia l’intimità apparente della scena per la presenza dello spioncino che la annulla. Negli anni Settanta nascono i “Paesaggi d’argento” che Parise chiama “diapositive di sentimenti”, i “Teatrini” (“giocattoli per adulti”, dice la pittrice), altro modo per mettere lo spettatore nei panni del voyeur che entra furtivamente nel mondo dei ricordi familiari (la madre già le costruiva teatrini quand’era piccola). Troviamo poi una serie di opere ispirate alle fiabe popolari con elfi, gnomi, spiritelli, mostri (lo spunto è la lettura di “Morfologia della fiaba” di Propp e del “Ramo d’oro” di Frazer) e, ancora, illustrazioni di testi poetici (Zanzotto) e in prosa (Arbasino). Seguono acquerelli, disegni, sculture e, in ultimo, ceramiche. Siamo ormai molto oltre la stagione dei Sessanta; le opere dai Settanta in poi costituiscono un “viaggio sentimentale” (titolo di una retrospettiva al Museo del Novecento di Milano nel 2018) sul proprio vissuto: la sintesi mi sembra perfetta nella delicatissima scultura “Giosetta con Giosetta a nove anni” del 2002. Per chi volesse saperne di più consiglio la sua autobiografia (“La mia storia”) scritta dall’artista nel 2013.
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