GABRIELLA MONGARDI
Poesie scritte all’aria aperta: non poteva esserci titolo più calzante per queste liriche di Emilio Paolo Taormina, che confermano la generosità della sua vena poetica, la musicale fluidità del suo stile, la fedeltà a temi ricorrenti (natura, tempo, musica , amore) che di libro in libro vengono però incessantemente ripresi e variati e arricchiti di nuove sfaccettature – una su tutte, la sicilianità.
Certo, il paesaggio di Sicilia era ben presente anche nelle precedenti raccolte, ma qui è con un nuovo, diverso orgoglio che il poeta dichiara, nel congedarsi:
«sono siciliano
le parole che scrivo
sono bagnate
di salmastro
scivolano sulla pelle
delle pagine come pesci
conoscono
il canto delle sirene
gli incantesimi delle stelle
il mio cuore
è circondato dal mare
all’orizzonte vedo itaca
fuggita da un canto di omero».
È una poesia mediterranea, la sua, come quella di Omero; una poesia che emerge dalle acque come Venere Anadiomene, fascinosa e inafferrabile come una sirena, incantata dalle stelle nel suo viaggio verso Itaca.
Essendo “poesie scritte all’aria aperta”, sono a prima vista ariose e luminose, dinamiche e leggere, pullulano di foglie che vibrano, di voli di uccelli e soprattutto di sole, di “lembi” o “brandelli” di sole:
«le finestre
fischiettano canzoni d’amore
tu mi pensi stai scendendo
dal treno
lo sento lo vedo dagli alberi
le foglie vibrano si muovono
in una danza»;
«la notte scivola
sugli aranci
una stella saltimbanco
tremola ad occidente
una canzone
si sveglia dal letargo
il vento piange
tra le ali
degli uccelli notturni
nella cala
gli alberi delle barche
sono pieni di nidi
pigolano
il cane nero nel cimitero
latra ai fuochi fatui
gli angeli di marmo
posate le ali
danzano in cerchio
intorno alla luna»;
«lembi di sole sostano
sul muro di calce
come pendolari in attesa
del treno
sul tavolo in terrazza
un libro aperto
si chiede
come uno smemorato
cosa hanno detto le pagine».
Ma al di sotto di questa solare vitalità mediterranea si avverte una persistente inquietudine, se non addirittura un cupo basso continuo di angoscia. Certe liriche ricordano Verga, nella loro “sicilianità”:
«un asino magro legato
a una porta listata a nero
un vecchio scarpone
con la bocca aperta
come un affamato
un cane
accucciato all’ombra
un contadino con gli occhi
nel vuoto
una balilla nel sole
un elmetto tedesco
col pastone per le galline
un carretto porta a spasso
tre militari americani
nel meriggio deserto»
«le sere d’estate
le vecchie con abiti neri
bruciati dal sole
venivano a sedere
sul belvedere
poi il tramonto
con un dito di fumo
veniva su per i comignoli
il chiacchierio delle onde
entrava nelle vene del silenzio
il raglio dell’asino
raschiava dai muri
gli ultimi brandelli di sole
dava la buonanotte
a finestre e a balconi
qualche donna restava ancora
a contare le stelle
come i cucchiaini d’argento
di casa».
Ma più che l’interesse per il “mondo dei vinti” o la storia, la molla della scrittura per Taormina è il recupero del proprio passato, della vita vissuta, perché nemmeno una briciola ne vada perduta:
«ho una fame inesauribile
sarò sazio
quando avrò catturato
la vita
in un solo verso».
Da questa tensione, da questa “fame inesauribile” sgorga la poesia di Taormina, e questo è il vero tema di fondo della raccolta: un discorso sul mistero della poesia, sulla sua essenza, la sua inafferrabilità, il suo infinito “farsi”, che s’intreccia e si confonde con un discorso amoroso:
«le parole non spiccano il volo
verso il nido del verso
sono appiccicose come le mosche
nei meriggi di agosto
nell’anima ho la pergamena
con la rotta verso itaca
una foglia verde avvizzita
nel disegno dell’arcipelago manca
un’isola
la prendo dagli occhi
piove»;
«ho imparato a parlare
con l’alfabeto degli aranci
ho rubato i colori
all’aurora e al tramonto
per tessere i tessuti dei tuoi abiti
ti ho trovata in un vagito
nei calendari assopiti
della mia anima
sei nata
nella musica di un verso»;
«sarai sempre imperfetta
tra la musica
che mi attraversa
e la parola
come la luce di un attimo
non sarà mai uguale
ad un’altra
ma ci sei
come l’estate c’era
prima che adamo
desse un nome
alle stagioni».
Questa è la poesia: qualcosa che esiste dalla notte dei tempi, prima della lingua in cui si esprime; una musica che “possiede” il poeta e che lui non riesce mai a tradurre in parole adeguate; un tentativo (o una tentazione?) perenne, perennemente incompiuto… Per questo, si continua a scrivere.