La ricerca di Urfaut

LORENZO BARBERIS.
Il periodo in cui viviamo è indubbiamente un’era di transizione.
Nella tradizione ermetica, ormai di massa, col nuovo millennio si avvia una New Age, sotto la signoria del segno astrologico dell’Acquario. In molti hanno fissato il passaggio nel 2012 appena concluso: è l’anno scelto dai calendari maya, nella tradizione cristiana sarebbero duemila anni dall’iniziazione al tempio di Cristo (2000 + 12).
Anche alcuni fatti pubblici di grande rilievo, come le inusuali dimissioni del Papa e la venuta di un presunto papa “angelico” (e gesuita) sembrano dare conferma a tale visione.
Anche sotto un profilo essoterico, comunque, è innegabile una notevole trasformazione avvenuta a cavallo del millennio. E’ fin banale e scontato identificarla con la diffusione di Internet e delle nuove tecnologie, volto visibile della terza rivoluzione industriale, quella dell’Informazione, iniziata nel 1975 e tuttora in corso.
L’operazione artistica di Urfaut, l’alchimista digitale, riesce in un’impresa ambiziosa e azzardata: unificare i due versanti nel segno di una sola trasmutazione: la trasmutazione degli Urtypes.
Ur-Types, come indica il nome, sono dei Nuovi Archetipi, reinventati dall’artista in una complessa operazione artistica, simbolica, concettuale.
Sotto un profilo materiale, gli Urtypes sono immagini, prodotte fotograficamente, e sviluppate su E-Paper tramite una complessa tecnica che l’autore stesso ha creato, come un antico alchimista: i nuovi dagherrotipi dell’età digitale.
Ma all’evoluzione tecnologica Urfaut ha accompagnato una notevole riflessione tramite le 22 immagini rappresentate in questa prima serie.
Già a un primo sguardo è evidente la potenza simbolica, che va a ripercorrere il moderno immaginario iconico con scelte fra loro diversissime, ma unite da un legante comune che non è riconducibile solo allo stile, in senso calligrafico, dell’artista.
Il loro titolo è infatti puramente numerale, a partire da una prima (o ultima) immagine priva di numero, e a seguire 21 Urtype numerati.
Apparentemente, quindi, questo non fornisce alcuna indicazione: e certamente l’autore, come è suo solito, è stato criptico volutamente.
Però a chi abbia bazzicato anche solo superficialmente il vasto e frastagliato milieu dell’esoterismo, questa coincidenza numerale non potrà che rimandare alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, base della cabala, e ancor più alle 22 lettere dell’alfabeto iconico, base dell’esoterismo dell’età cristiana: i 22 Arcani Maggiori dei Tarocchi, o Trionfi.
Naturalmente, è impossibile dire se sia veramente questa la scelta di Urfaut. Di fronte a un simile indizio, però una verifica delle corrispondenze s’impone.
I tarocchi, secondo l’analisi junghiana, sono i 22 più potenti archetipi della cultura occidentale, così come emergono dal maelstrom trasmutativo del passaggio medioevo – rinascimento.
Inizialmente le figure – apparse probabilmente con la diffusione della carta, tra ’200 e ’300 – sono molto più numerose e frammentate: poi le immagini meno forti vengono abbandonate per un processo spontaneo nei mazzi definitivi, già all’inizio del ’400, e rimangono solo i 22 Archetipi, o Arcani, Maggiori che conosciamo.
Il punto di arrivo è considerato il tarocco a stampa di Marsiglia, che con la sua riproducibilità tecnica codifica in modo totalmente stabile la corte degli Arcani nel corso del ’500.
“La cattedrale di carta”, è stata definita: una bibbia iconica nei suoi snodi fondamentali e ricombinabili, con radici che affondano nelle età precedenti, fino alla preistoria delle grandi madri.
La stampa su carta li formalizza in uno schema codificato: ma ora l’età della carta va terminando e gli Archetipi vanno riscritti.
Un’esegesi.
In questa lettura, ovviamente di parte, Urfaut avrebbe riscritto così i 22 Arcani nelle sue 22 moderne “lame” (il nome dato alle carte da gioco), non so se consapevole o inconsciamente. Andiamo comunque a verificare le corrispondenze di ogni singola immagine presentata.
Per un parallelo, considererò qui soprattutto il tarocco di Marsiglia, dato che è ritenuto la sintesi della concezione tarologica, e in particolare il recente restauro critico di Alejandro Jodorowski, uno dei principali studiosi moderni del tema.
Il primo Urtype, quello senza numero, corrisponde dunque, in questa ipotesi, al Matto dei Tarocchi.
Una figura eccezionalmente significativa, che apre e chiude circolarmente (non ha numero) la serie degli Arcani.
La figura del Matto è dunque quella di una sorta di giullare / vagabondo, figura che diverrà, nelle carte tradizionali, quella del Jolly Jocker, la figura più potente, che può assumere qualsivoglia valore.
La foto di Urfaut mantiene una disposizione identica del volto rispetto all’Arcano senza Numero, quasi a confermarcila validità della nostra ipotesi di partenza: ma esso diviene intanto qui un volto femminile, quasi a segnare il ritorno acquariano dal regno patriarcale a quello matriarcale. Simile è anche la posizione eclettica del volto rispetto alla postura del corpo del viandante (anche la fanciulla ha, come il Matto, una sacca a tracolla) ma se nel tarocco originale ciò derivava da una certa stortura del viandante, qui il volto è quello di un tatuaggio posto sulle spalle della fanciulla, il cui vero volto ci resta ignoto: l’età matriarcale deve ancora iniziare a rivelarsi.
I.
La carta numero I, il Bagatto, mostra un prestigiatore da fiera, un ciarlatano di livello (almeno apparentemente) basso. Il primo gradino dell’iniziazione tarologica, dunque, identificato dallo stesso Crowley con l’archetipo del Magus.
Urfaut (nome che già in sé rimanda all’occultista per eccellenza, l’Ur-Faust) si pone qui in continuità con la lettura di Crowley usando per la carta un proprio autoritratto, scattato nella vetrina di un hipster bar pomposamente definito “Coffee Lab”.
Un laboratorio alchemico per eccellenza, quindi, essendo già il primo ciclo di operazioni artistiche dell’autore, Uncle Bob (dal 1999 in poi), strettamente legato al tema del caffé come elemento di trasmutazione alchemica.
Altre simmetrie sono ancor più inquietanti. Le tre linee in basso alla foto, che potrebbero rimandare alle tre gambe del tavolo, richiamano anche in modo perfetto la bacchetta del mago stesso, mentre la scritta “The Best Is Yet To Come”, slogan della tecnocratica età dell’ottimismo, assume la valenza di indicare l’avvio della rigenerazione archetipa.
Seguono due archetipi chiaramente matriarcali, che nel tarocco tradizionale sono qui posti per minor potenza. Urfaut invece li rinforza, nei suoi Urtypes, con una figurazione che ne sottolinea e accentua, in modo piuttosto vistoso, la forza matriarcale.
II.
Il numero II è la Papessa, figura che Urfaut interpreta, con potenza, con la statua di Sekhmet.
La dea appare così nell’incongrua ma affascinante versione innevata (certo piuttosto rara nell’originario ambiente egizio).
Qui dunque la trasmutazione ricrea a livello simbolico l’archetipo, reso infinitamente più potente. Se infatti la Papessa storica era semplicemente una temporanea e fortuita usurpazione del massimo potere rituale, quello del Papa, Sekhmet è forse la più potente incarnazione della Dea nell’era egizia, superiore in certi riti alla stessa Isis.

Un segno, dunque dell’avvenuto rovesciamento dei rapporti di forza, per cui la papessa è, nella nuova era, la vera figura legittima di potere: vicaria di Iside, appunto.

III.
L’Imperatrice, Urtype numero III, è collegata indubbiamente alla Papessa nella sua natura matriarcale già nel tarocco originario;
Urfaut sottolinea il paragone donando alla sua Imperatrice una corona che è evidentemente ripresa dal triregno, la triplice corona della tiara papale. In questo modo il notevole potenziamento cui è sottoposta la Papessa si riverbera anche sulla seguente carta matriarcale. La Papessa diviene Dea, e l’Imperatrice, tramite il triregno, Sacra Imperatrice, con una duplice “promozione sul campo” dell’archetipo originario.
Tutto ciò pare segnare la matrice spirituale ed acquariana della nuova età femminile che si prepara, ove il sacro e il divino ha più spazio.
Va rimarcato, del resto, che già nel tarocco marsigliese le due figure erano unificate dal baldacchino azzurro (acqueo, quindi) che faceva loro da sfondo, creando la suggestione di una sorta di ali azzurre spirituali.
Anche il piatto, di cui si scorge solo un bordo, parrebbe rimandare all’uovo covato dietro il trono dalla pontefice, che in Urfaut trova invece il suo spazio presso l’Imperatrice (nel tarocco di marsiglia, nell’Imperatrice, esso è già divenuto l’aquila imperiale che ella stringe in braccio).
La imperatrice-papessa lo fissa pensierosa, quasi a sorvegliare il suo ormai prossimo dischiudersi.

Una trasmutazione, in questo caso, che riporta indietro le lancette della figurazione archetipa: evidentemente, se in età patriarcale l’Aquila dell’impero è alla sua piena maturazione (l’ACUIL – LUCIA di dantesca memoria…), negli Urtypes la nuova era matriarcale è ancora embrionale, racchiusa nel suo “uovo cosmico” prossimo ormai alla disvelazione. La scritta rovesciata sulla vetrina alle spalle dell’Imperatrice evoca nuovamente il Caffé, creando un legame con la figura del Magus, a cui viene collegata, nel comune scopo della nascita del nuovo Eone.

IIII.
L’Imperatore, nel tarocco IIII, presenta una notevole similitudine nella posa e nella foggia del singolare cappello,
che già nell’originale è più berretto frigio che corona. I simboli appaiono sparpagliati nella scena: la croce è separata dallo scettro, che il sovrano non stringe più in mano. Inoltre, il monarca nell’arcano originale è, più che seduto in trono, appoggiato ad esso come un viandante in pausa; qui ha ripreso a camminare, e si avvia all’uscita di scena.
Un tratto confermato dal palazzo sullo sfondo, dall’aspetto imponente e signorile, come testimoniato anche dallo stemma sabaudo che occhieggia sulla sua facciata, con la sua croce bianca in campo rosso di reminiscenza templare. Curioso notare che i Savoia, per la partecipazione alle crociate templari, sostituirono il previo stemma con il nuovo stemma crociato: e lo stemma precedente era l’Aquila Imperiale che appare nello stemma dell’Imperatore, unita all’Uovo alchemico della Papessa Imperiale.
I Savoia parteciparono all’ideazione del primo mazzo noto di tarocchi, dono sponsale dell’unione di Bianca di Savoia con Filippo Maria Visconti, ai primi del ’400. Appare quindi cruciale la riproposizione del loro sigillo in questa carta di transizione.

L’Arcano IIII, primo di una serie di arcani maschili, è l’ultimo ad essere piuttosto trasparente, mentre i successivi saranno effigiati in una chiave criptica e “assente”: a rimarcare, appunto, la “sparizione del patriarcato”, che l’Imperatore avvia cedendo il proprio posto sulla scena.

V.

La carta numero V è una delle più criptiche: non a caso quella riferita al Papa, il massimo potere spirituale maschile, che diviene assente. Al suo posto, permane solo un’altura collinare, quasi il suo tumulo, anch’essa di natura matriarcale nella sua forma morbida e duale. Tuttavia, il palo della Luce in primo piano evoca il vincastro papale, tripartito come la sua triplice corona del triregno. A rafforzarne il valore di simbolo magico patriarcale, le due scie chimiche che si intersecano in croce perfetta su di esso, come la croce dell’In Hoc Signo Vinces di Costantino. Essi tripartiscono lo spazio che delimitano in tre triangoli rettangoli, in un gioco di simmetrie sacre che, pur evanescenti come le chemtrails che le formano, ribadiscono ancora la loro potenza. A ben guardare, su una delle due mammelle del sacro monte sullo sfondo si erge un’alta antenna fallica, che richiama il palo in primo piano, estendendo il suo dominio sull’etere come una provinciale tour Eiffel. Il regno del Papa va a dissolversi, ma a lungo manterrà ancora la sua influenza.

VI.
Anche gli Amanti, la numero VI, non rifugge da una certa cripticità, benché le tre figure umane essenziali siano presenti.
Non a caso la carta rimanda ai Fedeli dell’AMOR, criptici fedeli di ROMA, con rovesciamento iniziatico: ovvero la setta, riunita intorno a Dante, che puntava alla Restauratio Imperii, col ritorno del trono a Roma, a fianco del potere papale maschile. Una carta dunque fortemente matriarcale, nonostante le apparenze.
La lama presenta i due amorosi, in fuga sulle striscie pedonali, e lontano da loro, molto più che nell’originale, il pronube, che li guarda benedicente. Anche qui, come nell’Imperatore, un senso dialogico tra i Marsigliesi e Urfaut: nell’incisione appare la cerimonia, sotto la benedizione di Amore; in questa scena, di poco susseguente, i due amanti si allontanano dal luogo della celebrazione.
Eros, il dio, è svanito con la fine del rito: e del resto, divinità maschile, appare normale sia assente.
Grande rilievo assume però un elemento strutturale della carta, che qui viene evocata: il fatto che sia la prima a presentare corte righe, nello spazio destinato al nome, eseguite a tratteggio. Elemento qui richiamato con notevole centralità, dal gioco delle strisce pedonali.
Le righe segneranno anche la Giustizia, separata dagli Amanti solo dal Carro; la Forza (le striscie sono solo da un lato) e, nelle carte ormai “astrali”, Luna e Sole. “Forza”, “Giustizia”, “Eros” (inteso come principio di “attrazione cosmica”, come nei presocratici) e gli astri: in un certo senso, le carte che segnano l’energia cosmica sono segnati da queste bande.
Come nel Papa, il dio non è più visibile, ma c’è ancora la traccia, quasi magnetica, del suo agire.

Appare probabile che con questa sottolineatura Urfaut voglia evidenziare come il suo gioco di rispondenze si sviluppa soprattutto a livello di simmetrie spaziali, di valori posizionali, più che in una ripresa iconografica che è, comunque, spesso presente.

VII.
Anche il Carro, l’arcano numero VII, presenta una notevole oltranza criptica: la massima su figura maschile (superato però, in modo significativo, sulla figura femminile potenzialmente più forte in questa serie, come vedremo).
Da notare che i simboli maggiormente trasfigurati sono quelli a forte connotazione maschile, come anche questo carro trionfale tramutato in un semplice vaso da pianta d’appartamento.
Tuttavia, anche in questo caso di trasmutazione più radicale è conservato un singolo elemento, che ne riceve maggiore potenza: se nel Papa era il Pastorale, bastone magico e fallico, singola Linea Retta; in Eros le molteplici piccole Linee, forse le sue stesse Frecce. Qui il Cerchio, la Ruota del carro, la ROTA.
Un rimando, per molti, che sarebbe soggiacente agli stessi tarocchi (TARO, appunto, con ulteriore rotazione). Anche perché i Trionfi derivano il loro nome, appunto, dai Carri Trionfali dove, per primi, avevano iniziato ad apparire come figurazione allegorica.
Inoltre, come si può vedere dalla piantina che sbuca dal cerchio di terra, la Rota di Urfaut è una che genera la vita, come la svastika solare ciclo di vita (invertita nel simbolismo nazista in ciclo di morte).
E il simbolo del Carro trionfale è appunto una verde foglia incorniciata in un sontuoso stemma, una cornice dorata come quella dell’Aquila dell’Impero nelle due figure imperiali, maschile e femminile.
Se l’Aquila, però, era simbolo patriarcale (ancor prima dei Romani, Horus: e non a caso Urfaut evoca Bastet, figura antica di Isis), la Foglia è simbolo matriarcale, già nel patriarcale tarocco.
VIII.
Anche l’Arcano VIII, la Giustizia, continua ad essere criptico a un primo livello, ma la corrispondenza dell’archetipo è invece piuttosto precisa a una seconda occhiata, richiamandone la celebre “bilancia col trucco”.
Con la svolta del Carro (non a caso identificativo dei tarocchi stessi, per certi versi) siamo passati dalle figure ancora, per certi versi, terrene (l’Imperatore, il Papa, il Pro-nube sacerdotale, il Trionfatore, in una sorta di chiasmo tra potere materiale e sacrale) alle pure figure simboliche ed allegoriche, come appunto la Giustizia, archetipo tra l’altro femminile.
La Giustizia dei Tarocchi, dunque, regge una bilancia che solo all’apparenza è equilibrata, mentre invece è modificata da lei stessa, che con un ginocchio solleva uno dei due piatti. Anche il tavolo dell’immagine di Urfaut risulta lievemente inclinato, con lo stesso angolo, si direbbe, di quello del tarocco originale. La mezzaluna del piatto sollevato è resa da un coccio di bottiglia di vetro, e anche le carte disordinatamente sparpagliate sulla scena formano un rimando agli scartafacci associati al funzionamento della giustizia terrena. L’evidenziamento della falce lunare, isiadica, come il numero 2 (rimando alla Papessa – Sekhmet) appaiono rimandi alla sfera matriarcale che va apparendo.
VIIII.
L’arcano VIIII, l’Eremita, ritorna ad essere una carta più trasparente. In esso non è tanto figurato un anacoreta umano (non più di quanto la Giustizia sia un giudice concreto), ma è più che altro Hermit come Hermes, signore della conoscenza iniziatica, qui spesso con-fuso con la figura di Cronos, il signore del tempo, figurato classicamente nella modalità dell’eremita: un vecchio barbuto con tanto di lanterna.
Urfaut sceglie di raffigurarlo con un richiamo, evidente e citazionista, alla silohuette con cui Hitchcock sigillava i suoi lavori filmici. Il maestro del fantastico e del bianco e nero è indubbiamente un Hermit adatto a questo lavoro. L’orrore di Hitchcock scaturisce infatti dall’inconscio, sia per temi che per utilizzo di formalismi volti a suscitare tensione psicologica nello spettatore. La sua opera è citata, per certi versi, nelle stesse operazioni artistiche del giovane Urfaut, a partire dal ciclo di Uncle Bob (1999) che si serve spesso, in modo ironico, dello strumento filmico e dei temi del noir cari al maestro. Inoltre, Hitchcock è gran maestro proprio nel tema di transizione dal maschile al femminile, con la sua opera più nota e dirompente, Psycho (non credo di spoilerare a nessuno se sottolineo come Norman Bates, come serial killer, regredisca all’interno della madre fino a identificarsi con essa anche nel suo travestimento esteriore).

La scritta sullo sfondo, parzialmente celata, sostiene “Freedom, not genius”, quasi a indicare che l’operazione di Hermit (e di Urfaut?) non ha il senso di una personale genialità, ma la liber-azione di energie psichiche che stanno per disvelarsi. L’artista come “posseduto dal divino”, come nell’antichità e come in Dante “fedele d’Amore”, che segue ciò che Eros gli “ditta dentro”.

X.
Come già il carro, anche l’arcano X, la Ruota della Fortuna, è carta fondante nella definizione dei Tarocchi (ROTA), di cui forma una sorta di bipartizione, chiudendo le prime undici carte. La Ruota della Fortuna mostra appunto il variare delle umane sorti tramite tre animali simbolici, Regnavi Regno Regnabo, simboli del perpetuarsi del potere (patriarcale), evocati anche nei tre Juves della tradizione massonica.

In Urfaut, la ruota viene evocata dalla hall di una metropolitana, dove soprattutto la volta illuminata riprende, nella sua forma circolare ripresa in prospettiva centrale, la ciclicità della Rota tarologica. Le linee prospettiche dei lucidi marmi intarsiati del pavimento riprendono anch’esse i raggi spezzati della Ruota (a loro volta, ripresa della forma delle Spade nelle carte, o Lame, minori). L’idea della Rota è però connaturato anche alla stessa dimensione della stazione di metropolitana come luogo (sotterraneo) di passaggio: e ce lo ricordano bene i tornelli, ben visibili anche se in lontananza, sullo sfondo: vere e proprie porte girevoli, Ruote dunque. La scena è vuota, le figure che appaiono sono per ora periferiche ombre, a segnare il momento di transizione tra la perpetuazione del patriarcato e quella del principio femmineo.

XI.
Se la Ruota chiude un ciclo, la Forza ne apre un altro dei due gruppi di undici del mazzo tarologico. Mostrata nell’atto di forzare la bocca a un Leone (aprirla o chiuderla?), Crowley ne faceva figura della Donna Scarlatta dell’Apocalisse, potente ricordo di Isis nei culti patriarcali cristianizzati, anche nella connessione all’elemento leonino (Bastet, appunto).
Tale carta è dunque fondante nella rinascita matriarcale propugnata nella rilettura d’Urfaut, e difatti è sottoposta a una interessante trasmutazione. Se la carta originaria effigia la virtù personificata nell’atto di aprire a forza la bocca di un leone, qui è la bocca della forza ad essere evidenziata con una lama di luce, in una transizione significativa che pone al centro della carta la forza della parola. Sottolineatura accentuata dagli occhiali a specchio (mirrorshades, come il primo nome dell’avanguardia cyberpunk) che celano lo sguardo della dea, bendata come la Fortuna (e “Fors – Forte”, in latino, è la dea Fortuna).

Se la forza patriarcale, pur femminile nell’aspetto, rimandava alla forza bruta, almeno esteriormente, qui si è evoluti verso un superamento della fisicità più brutale, in favore della conoscenza. Da Marte ad Atena, per dire.

XII.
Anche l’Appeso (Arcano XII) è rovesciato, nella misura in cui la figura è colta dal mezzo busto in su, mentre l’appeso, impiccato per i piedi, veniva talora, nei mazzi piemontesi con figure double face (per esigenze e comodità di gioco), effigiato solo con le gambe, inquietante “figura senza figura”.
Il rimando è alla figura di Giuda Iscariota, come rimando alla conoscenza ebraica della cabala, che nei tarocchi sarebbe in qualche modo riassunta e sintetizzata: 22 le lettere della permutazione cabalistica, 22 le carte degli Arcani maggiori. Nella carta, vi è anche un doppio rimando alle dieci sefiroth, contenute nei dieci bottoni della giacca dell’appeso e nei dieci nodi dei due alberi da cui pende il condannato; unite alle due lune, calante e crescente, dissimulate nelle sue tasche.
Le aperture del singolare mobile orientaleggiante alle spalle dell’Appeso sono invece 30, forse un riferimento ai 30 denari associati usualmente alla figura di Giuda: in altre versioni, sono infatti dieci monete che cadono dalle tasche a forma di falce lunare a rappresentare, invece dei bottoni, le Sefiroth.

La figura resta quindi maschile (sebbene nel tarocco piemontese fosse appunto ambigua, dato il taglio), com’è coerente, in quanto rappresenta un principio che viene annichilito: nel tarocco cristiano la tradizione ebraica, superata dal nuovo culto che ne nasceva; qui il patriarcato tout court.

XIII.
L’Arcano XIII o Arcano Senza Nome (è l’unico a non avere indicazione precisa) è solitamente identificato con la Morte, nella tipica figurazione occidentale. L’immagine non ha nei tarocchi lo stesso valore negativo del sentire comune, in quanto simboleggia un necessario processo di rigenerazione, sia pure tramite un elemento distruttivo.
L’immagine prescelta da Urfaut, ironicamente, sceglie di presentare, in bella evidenza, una scritta singola proprio per l’arcano che non ne prevede alcuna. “Liberty”, insegna sulla vetrina di un negozio che rimanda, chiaramente, allo stile floreale ma anche, nella rilettura dell’artista, alla “Libertà” di cui la morte, la
Livella, è innegabilmente portatrice. Una Liber-Azione che era già evocata nella figura dell’Hermit, quando la si opponeva al “Genius”, e che qui trova la sua esplicazione nella carta “di trasmutazione” per eccellenza.

La piramide di teste di manichini è una figurazione mortifera dal potere incredibilmente inquietante, che rimanda certo ai corpi dei sovrani alchemici sparigliati dalla morte nella lama di Marsiglia, ma anche decisamente all’immaginario complottista del New World Order, frequentemente associato a una piramide di teschi umani. La bellezza stereotipa dei manichini rimanda poi alla freddezza delle maschere e dei volti delle ierodule degli Illuminati, le popstar che, nel racconto cospirazionista, sono in verità strumenti nelle mani di controllori occulti, per lanciare sul popolo i loro oscuri messaggi mentali. “Liberty”, dunque, per l’immaginario femminile, che sta per essere scardinato dal suo ruolo fisso nel culto patriarcale.

XIIII.
La Temperanza, Arcano XIIII, è di nuovo colta in un dettaglio minimo e criptico, il sigillo che ella porta al collo nel tarocco, che ha la forma di un cerchio spezzato, quasi come l’icona di Pacman.
Il cerchio è stato colto in un segno tracciato sull’asfalto, di quelli che servono a identificare, nella struttura urbana, un guasto al sistema di linee sotterranee che regola, tramite le acque bianche e nere, la vita della città superficiale.
Un segno che rimanda al gesto stesso della Temperanza, colta nell’atto di far transitare una linea d’acqua tra le due brocche che tiene in mano. Il simbolo, poi, oltre che rimandare al monile che le fa da collana, richiama nell’aspetto un’Ala stilizzata, come le due ali azzurre, acquee, che sono attribuite alla virtù personificata nella carta originale.
Abbiamo visto che negli archetipi maschili la cripticità è un’assenza, e un segno di una necessaria demenutio. Potremmo credere che qui abbia la stessa valenza, ma sarebbe un errore: se là eravamo negli archetipi ancora “umani”, concrete figure di potere da ridimensionare, qui siamo nel campo degli archetipi immateriali, e la sintesi ha una valenza diversa.
La Temperanza è infatti LA carta matriarcale dell’età dell’Acquario, figurazione stessa del principio acquariano.
Come il segno astrologico zodiacale, la temperanza rimescola le acque delle due brocche (maschile e femminile) per portarle a un bilanciamento, come la Giustizia, che però è, come visto, una bilancia imperfetta.
La carta è quindi il cardine della trasmutazione, di questo tarocco, nonostante (o meglio: proprio per) il suo aspetto non immediatamente seducente. Il cerchio che la circonda, che reduplica il cerchio pieno spezzato all’interno, ne conferma la natura di TARO-ROTA, la forma ad Ala, inoltre, pone l’attenzione su questo elemento strutturale, le Ali Azzurre, già possedute, come avevamo accennato, da Papessa e Imperatrice nel tarocco originale.
Ali Azzurre rispecchiate nello sfondo acqueo della carta stessa, dalla base ondulata e azzurra; una base che, libera o imbrigliata in piscine alchemiche, continuerà di qui fino alla fine della serie degli Arcani e degli Urtypes.
Gli Arcani sono infatti da qui tutti segnati dalla base acquea che poi, nel Giudizio (XX) si trasformerà nel vapore acqueo che incorona l’Angelo e poi, nel XXI, nella Mandorla acquea ed aerea del Cristo.
Negli Urtypes questo elemento non è immediatamente presente, se non forse in un rinnovato slancio matriarcale negli ultimi, più alti, Archetipi effigiati, molto femminei e molto evidenti, a segnare l’ormai conclusiva decantazione dell’opera.

La Temperanza infatti collega, travasa due archetipi trasmutativi, fortemente femminilizzati dall’azione di Urfaut, il già visto Senza Nome (“Morte”) e il Diavolo.

XV.
Il Diavolo, Arcano XV, è infatti nuovamente trasparente, e anche qui troviamo la femminilizzazione di un archetipo originariamente maschile. Nei Tarocchi il Diavolo è maschio, o meglio androgino, perché presenta sia il fallo che seni prominenti. Qui la figura, effigiata in origine su una scatola di latta, è femminile, una bambina cosmica che presenta vari tratti
inquietanti di corrispondenza con l’archetipo: gli occhi sono cancellati con graffiture (Lucifero è cieco) come la bocca, mentre la coroncina floreale che le adorna il capo evoca le corna fitomorfe dell’immagine originale.

La trasmutazione del diavolo in senso femmineo è resa necessaria dal suo ruolo tarologico di figura di trasmutazione, come la Morte, che segna questo passaggio di transizione nei due archetipi più “trasformativi” (non a caso, i più temuti nel malinteso senso comune). Dopo questa “triade femminile trasmutativa”, entriamo in una “terza fase” dell’opera.

XVI.
La Torre, Arcano XVI, rimanda alla Torre di Babele e alla sua caduta, e quindi implicitamente ai perduti riti mesopotamici ed egizi. La “caduta della Torre” assume l’aspetto dell’avvenuta trasmutazione, il vecchio mondo che è distrutto e trasformato nel nuovo.
Urfaut sceglie una resa abbastanza trasparente, in questo caso, ancorché sintetica: la Torre diviene una finestra rettangolare tripartita in tre quadrati, schiantatasi al suolo. Il vetro più in alto si è frammentato in mille pezzi, mentre gli altri due sono intatti. In questo modo, il rettangolo con due quadrati diviene omologo alla forma stessa delle carte da gioco tarologiche tradizionali, da sempre divise in due quadrati per la loro composizione e analisi (nel tarocco piemontese, la divisione diviene il ribaltamento speculare del busto della figura, per esigenze di gioco, e così viene ulteriormente “distrutto” uno dei due quadri).

Il fatto di porre il tarocco come “torre di Babele spezzata” rimanda quasi alle leggi mosaiche del Sinai, di cui una parte – iniziatica – viene distrutta, mentre solo le due tavole della legge note sono conservate. Anche il tarocco, infatti, va sempre interrogato in modo interattivo dal postulante, che deve integrare il messaggio che l’Arcano gli presenta nella divinazione, “completando il disegno”.

XVII.
Anche l’Arcano XVII, La Stella, è lineare e riconoscibile nella sua riproposizione. Urfaut usa a tale scopo un’immagine di quella disorientata arte sacra post-conciliare, ove la Vergine (coronata di dodici stelle come nell’Apocalisse) è raffigurata con una spartana linea di ferro battuto. In questo modo Urfaut sottolinea la natura specifica della Stella, che rimanda alla continuità tra Isis e la “Vergine Solare” apocalittica: la corona di stelle, il ventre tondo per l’attesa di Gesù/Horus (ove l’Ombelico diviene un Occhio iniziatico), perfino l’uccello su un albero dello sfondo, che può essere figura del drago apocalittico. Nell’Urtype il bambino appare già nato, la corona di stelle è
presente, sebbene ridotta a tre stelle (sono nove nel Tarocco), mentre il vetro infrangibile che protegge l’opera, certo più per evitare vandalismi che un furto, diviene un rimando alla minaccia incombente dell’Apocalisse.
XVIII.
Anche l’Arcano XVIII, la Luna, è trasparente, con l’immagine della Luna ricomposta dal ventaglio orientaleggiante, ove il volto femminile che lo contraddistingue è in ombra, esattamente come nel corrispondente Tarocco, generando così una sghemba falce lunare. Ombra generata da quella che iconicamente è una colonna che nell’ombra si duplica, esattamente come nella Luna due torri circoscrivono la scena, rimando forse alle colonne iniziatiche della tradizione massonica.
XVIIII.
L’Arcano XVIIII, quello maschile per eccellenza, il Sole, è “oscurato”, ovvero diminuito nella sua potenza maschile, ma il modo è evidente. La composizione, ottenuta da un’insieme di Lego, richiama infatti da un lato il Suprematismo russo, nella struttura diagonale delle linee che si formano nell’immagine, simbolo di cripticità visiva per eccellenza. Dall’altro, il rimando ai Lego è rimando all’infanzia: quasi a indicare che la forza maschile e Solare è ricondotta all’età infantile. Il puer cosmicus, difatti, appare nell’arcano XVII a fianco della Madre isiadica, a segnare che Horus, nella nuova età matriarcale che si apre, è sotto la tutela materna e femminea.
Il Cerchio Solare comunque occhieggia frequentemente nella composizione, essendo del resto i Lego basati su questi due simbolI base, il rettangolo delle forme e i cerchi che consentono di incastrarli tra loro. Specialmente nelle Ruote del treno il simbolo diviene evidente, sottolineato dal grosso copertone raggiato che spunta sotto il vagone ferroviario.
Un rimando all’Inno a Satana del Carducci, dove l’antico dio solare cancellato dal cristianesimo risorgeva patriarcalmente nel Treno, simbolo del progresso positivistico. In questa lettura, però, l’aggressività maschile appare sconfitta, perché i binari sono divelti, il “carro del fuoco” è atterrato e quasi completamente in frantumi (frantumi, ovviamente, che possono sempre esser ricomposti, come lo Zeus distrutto dal nemico Tifone). La potenza distruttrice maschile è ridotta allo stadio infantile, agli alchemici “giochi di bimbi”, fase pressoché finale

della Grande Opera alchemica (così come questo arcano è ormai prossimo alla conclusione).

XX.
Di grande potenza visiva, dal rimando evidentre, è poi il Giudizio, l’arcano XX. Nell’Urtype la condizione delle anime risorte in attesa del giudizio universale è ripresa nel pubblico di uno spettacolo (che noi ignoriamo, come ignoriamo quello del Giudizio), nell’ombra consuetudine del teatro ottocentesco e di conseguenza del cinema. Le lame di luce che irrompono sulla scena, i raggi irradiati dall’Angelo apocalittico, richiamano nella loro forma rettangolare anche i Sepolcri presenti nel Tarocco, come se i Giudicati fossero colti ancora nella loro dimensione sotterranea, mentre però ormai le tombe sono scardinate e dall’esterno proviene la luce sovrumana del Giorno faditico.
XXI.
L’Arcano XXI, il Mondo, che conclude il ciclo dei tarocchi, è giocato nell’Urtype in chiave apparentemente minore, specie dopo la grande e palese potenza visiva delle ultime Lame. La figura che chiude i tarocchi è infatti il Cristo apocalittico, circondato dal simbolo dei quattro evangelisti (che appaiono appunto nell’ultimo libro della Bibbia nella loro forma zoomorfa). Anche qui, al simbolo cristiano si sovrappone un rimando pagano, per cui gli animali sono anche le quattro forme della regalità divina egizia: aquila, leone, toro e figura umana, riunificati solitamente nella Sfinge (Bastet, ancora una volta).
Il tarocco marsigliese dona all’angelo nudo dei seni rotondi, facendone una figura dall’aspetto femminile (il sesso è però coperto), almeno in alcune letture (altre hanno ricostruito la figura maschile attesa). Il senso è, appunto, quello di una trasmutazione attesa con la chiusura del ciclo archetipo che i tarocchi riassumono. Appare quindi lineare che, nel suo ciclo matriarcale, Urfaut produca un rovesciamento.
Nell’Urtype, tuttavia, la figura maschile è decisamente minore, quasi ridicola, uno striminzito pupazzo gonfiabile all’uscita da un centro commerciale di periferia, che ricorda sviliti cartoon di South Park e similari, quasi la rana di crowleyana memoria.
Come si erano aperti nel segno di Crowley, con un Bagatto-Mago, gli arcani di Urfaut si chiudono nel suo segno, con un lavoro non sul Magus, ma quello simmetrico sulla divinità.
Dopo la potenza visiva delle carte “decisive”, dal Diavolo in poi, la cosa non può essere certo casuale. Il senso appare quello di indicare che la rinascita maschile è al suo punto più lontano, essendo all’inizio di un nuovo eone femmineo. In questo, il cartello stradale, che indica il numero 19 così ben visibile, è un richiamo all’Arcano XVIIII, dove il Sole era ridotto ad alchemici “giochi di bimbi”. E anche qui il Divino Maschile è ridotto al suo minimo, a un puro pupazzo mosso dal vento.
Anche l’indicazione sottostante, che identifica la Strada Provinciale 564, richiama volendo il 5, il 6 e il 4, tre arcani maggiori “patriarcali” che, come abbiamo visto, sono stati a vario titolo “ridimensionati” nel lavoro di Urfaut.
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A questo punto, possiamo tornare con occhi nuovi all’Arcano Senza Nome, che apre e chiude la serie. E tornando scopriamo nuove cose: ad esempio, prima, personalmente, non avevo calcolato che sulla spalla opposta alla faccia della fanciulla cosmica, troviamo un altro tatuaggio, su cui possiamo vedere un asse spezzato avvolto dalle fiamme. Forse è il vincastro patriarcale dell’antico Matto che viene dato alle fiamme, generando una nuova fiaccola alchemica come quella posseduta dal Diavolo, un fuoco forse acceso dal fulmine divino che ha incendiato la torre, Fuoco Solare disceso da Eros o dal Sole, che va racchiuso nella Lanterna dell’Hermit per dare nuova Luce. E il gioco potrebbe continuare: ma ciò che è evidente è che, in un gioco circolare, la Matta contiene al suo interno ANCHE l’elemento per la rinascita del Fuoco, ovvero la successiva rinascita maschile.
Lasciamo ai lettori, se lo vorranno, di fare un nuovo giro della ROTA, alla luce di questa considerazione.