Era sordo Ludwig e Lazzaro disarticolava giunture: recensione di Gianna Cannì
Contro la musica di Francesco Gianino è un poemetto scandito da indicazioni di tempo musicali. In apertura ci viene consegnato un viatico, nella forma di tre regole: ho salvato tre regole sul mio conto/distrarre il cuore/girare dietro lo specchio/scegliere croci fuori sede. Occorre tenerle a mente durante la lettura, sono chiavi che aprono casse, urne; porte non ce ne sono.
Il Preludio contiene la rivelazione alle spalle dello specchio, un primo apprendistato del poeta-personaggio (vivo, morto, resuscitato) presentato come il rituale sbagliato (non parve esatto il rito/al tocco la salma non cantava p.9) che confonde l’ordine delle stelle e che preannuncia la perdita futura: sbrino il volto/la luce così dorata/ per tutto quello che perderemo (p.10). Qualche memoria liceale, il professore di inglese (un salesiano) fissato con Jesus Christ Superstar, la fiorata e cigliata pallavolista, l’ombra di Ludwig invocato e quella di Lazzaro nascosto nello specchio, che fa qui la sua prima comparsa: ed è già un chi me lo ha fatto fare/tornare, lo stupore perplesso per il ritorno nella terra dei mangiacavalli (p.7).
Nel passaggio all’Allegro con fuoco si entra nel regno della carne/carme alla brace: appare una sulfurea Catania che brucia e divora, fucina alchemica (o vulcanica), città-ventre e città-scannatoio in omaggio a Zola e Feuerbach; e non ristora neanche il cortilone dell’infanzia, dove bambini si gioca a pallone, perché è un’altra gola che fagocita. Nel rito dei mangiacavalli, l’unto sacrificale è mantato d’aceto e origano prima che la mannaia del chianchiere gli mozzi la testa e le ali.
Se il cielo è precluso, si intravede una via di fuga musicale per mare: certo l’abbrivio avviene in un bicchiere, di gazzosa per di più, ma pasto dopo pasto la salma scende/dove lampi scheggiano bordi/e noi raccogliamo sartie/ voghiamo da rupi/arcobaleni all’orizzonte mentre lo spirito di Ulisse in forma di innumeri editiones/di James Joyce sullo scaffale (p.17) si chiede per la seconda volta chi glielo ha fatto fare a tornare nella terra degli squagliacavalli (p.1G).
La perdita annunciata si materializza in forma di domanda e colpa nell’Andante. La terra del fuoco cede il passo al regno freddo dell’aria. Lo scenario è mutato: bianco, luce, finestre spalancate, vento, uccelli, rondini e rapaci, colpi d’ali, fughe ad est, fuga mortale di coniglio; domande sospese sul filo della perdita (chissà dove si perda la neve, p.19, e ancora chissà per dove volano le case/quando andiamo via p.20) e soprattutto la semplice dichiarazione amavo una donna (p.21), con il suo straziante imperfetto, che è dolcezza sfumata. In questa terra bianca e straniera – siamo nell’Allegretto grazioso - si consuma una battaglia a parole (questa poesia/ dissotterra l’ascia/ e prepara la guerra p.2G) che sarebbe stato meglio combattere con i gesti dei muti per oltrepassare la barriera del suono fingendosi sordi: è un saluto salato, con i capelli inzuppati di mare e gli occhiali da sole.
Nello Scherzo si entra nel cuore del sentimento contro la musica. Ci sono ancora Lazzaro e Ludwig e gli altri loro, il maestro e il master e il mister; ma di nuovo il rito fallisce perché il maestro che ha risuscitato Lazzaro è sordo e il corpo è un elastico/teso in corda per spezzarsi/alla trentaduesima misura (p.32), la colonna, la scala musicale delle vertebre si spezza e se non vedi o dici nulla/fai finta e fai male (p.33). E intanto il mister, obliando l’alloro, impartisce lezioni un giorno di pioggia in Via Vittorio Emanuele: di nuovo una folgore in cuore diventa un barbecue allestito dall’ex allieva e allora si riprende al piano la via del mare (il legno mosse per altre acque/il vento sbandava l’imbarco, p.37). Il mister, in Cadenza, addita un posto disponibile, ma è una convocazione di cortesia, è solo per andare a vedere, andare a provare, per ritrovarsi poi con il fiato corto, ad avere di nuovo torto.
Arriva infine la confessione contro la musica, perché una volta sola siamo/ l’età che viviamo/ lei invece chiama/ e quando sei in cima/c’è una vecchia senza denti/oppure una scimmia (p.42): perché alla fine la musica è un atto mancato, un arto mancato e storto.
Nel finale così, dopo aver cercato un varco nell’agosto e aver visto una casa cadere e una casa svuotarsi, dopo laurea e confetti, Lazzaro disarticola e si richiude in una scatola armonica. È stato inutile resuscitarlo. Concedendo il Bis, si può infine ammettere che dicono che non è colpa mia/ eppure sento così (p.53). Qual è il torto? Perché è storto? La risposta ha a che fare con la rettitudine, che è il contrario – geometricamente e moralmente parlando – della inclinazione. L’inclinazione, che poi è talento, è sempre storta, inclina, è orizzontale (divento orizzontale come può il mare, p.44). Il torto è ciò che ci viene tolto, la perdita che si nasconde in una cassa che suona contro la musica.
Questi sono i fatti contro-versi, il côté narrativo del poemetto. E poi ci sono le parole che raccontano un’altra storia. In ogni sezione le parole chiave, martellanti e inchiodate, hanno il loro sosia, il loro doppio allitterante: è la folgore dietro lo specchio, la rivelazione che si rifrange e respinge (se sono quello che sono/ ho visto folgori cadere/alle spalle dello specchio: da qui si parte). Una manciata di esempi di queste parole gemelle, parole incatenate: carme/carne; corpo/torto/tolto/storto/morto, sordo/sordido; maestro/mister/master e così via. E accanto a queste parole che slittano nel senso e nel suono avvicinandosi, ci sono campi semantici come campi di concentramento: nell’Allegro con fuoco carne e brace si moltiplicano in decine di sinonimi e iponimi soffocanti più del fumo.
È vero, c’è una vicenda intima e biologica che viene offerta in pasto al lettore, ma si sviluppa contro tempo, non ci include, ci lascia fuori. E sta in questo la potenza del poemetto: nell’invitarci a una festa che non si farà, nel farci guardare dentro uno specchio al piombo che nasconde altre identità (poi ho piombato allo specchio/il sogno bendato/e l’ho incorniciato/in pergamena azzurrina/ho richiuso in cassa/un sacchetto di naftalina/ma lui sotto il vetro lumeggia pp. 32-33). E del resto il piombo, ci insegna l’alchimia, è la materia prima imperfetta della trasmutazione più pura.
Da Contro la musica (Il Convivio Editore 2023)
(Allegro con fuoco)
se scrivo
vado incontro a chi
laggiù cova brace
l’inadempienza è dell’inchiostro
non del rimasuglio di griglia
a cui vespe succhiano nutrimento
ardore di carme
anneriva le stelle la luna
a lutto a focone acceso
e a man bassa donne
riposavano trucchi sulle labbra
‒ colpi di marrancio frutta secca
sul tavolaccio scuotono
nella bottega equina
voluttà profumavano appetiti
cembali tamburi ordalia
scogli incatramati carboni di seta
appiccata dolce la fiamma
la gente intorno la piazza
del castello normanno
campa sfizia ventre palato
e la prima persona nominale
s’insala putacaso inciampasse
il morso sulla lingua
a filo di lama
taglio delicatissimo
da asfissiare gola cuore
tremori visibilio
gigli misti a viole
del chianchiere l’asse [...]
*
(Andante)
non so quale branco di cani
dorma dietro la tenda
‒ non c’è più quella falcata tra spigoli ‒
in quale armadio in quale cassettone
il maglione a collo alto
pesantissimo e giovane
chissà dove si perda la neve…
a sera fatta di mercato
volevo abbracciarti
ti avrei spaventata
desideravo addentare l’amo
(domani è venerdì
il vento schiaffeggerà foglie sugli alberi)
ti avrei baciata
non ti sei voltata
allora va’, tuffati in mare
parti per i paesi dell’est
al tramonto
vigila un rapace sulla porta
‒ le ali spiegate
il colore dei tuoi capelli
come molto altro
sulle labbra
e questa febbre tanto sincera
quanto una bugia
non so quale branco di cani
dorma dietro la tenda [...]
*
(Bis)
dicono che non è colpa mia
eppure sento così
e vedo qualcosa
anche se dicono
di non farmi guastare dai pensieri
io sento così
e questo è il mio onore
il mio orrore
quando voglio pensare
vado a camminare
dove la gente scompare
non mi dicevano niente
tu camminavi a testa in giù
e loro non dicevano niente
si riempivano la bocca
a perdifiato
sembrava di sentire cigolare
gli alberi curvati dalla neve…
avere torto e sentirsi in colpa
‒ nascondere il mal tolto
dentro una cassa a corde percosse
le parole sono mute
se le tocchi non reagiscono
se guardi la fine
chi ti vuole bene
chiama per nome
per una strada che non sai
al sole fermo che s’addormenta
come un albero
sottoterra