CLAUDIO SOTTOCORNOLA
Mi ha fatto sorridere, qualche tempo fa, chiacchierando con un amico, sentire da lui questa battuta: “Ci sono alcuni che hanno una tale nozione dell’autorità pontificia per cui se, improvvisamente, ci dicessero che il papa ama la sangria, correrebbero a farne scorta, convinti di doversi così adeguare al suo magistero”. Se è vero che l’ironia castigat ridendo mores, che cosa ci può insegnare questa battuta un po’ irriverente, ma senz’altro rivelativa? Che per molti è assai difficile distinguere – in ciò che definisce la propria esperienza religiosa – quel che è essenziale e irrinunciabile da quel che è marginale e irrilevante. Sembra una osservazione di costume, ma ha invece a che vedere con la comprensione profonda della propria fede e, in ultimo, con i fraintendimenti che essa troppo spesso porta con sé.
Qualche teologo si è adoperato a mettere in fila affermazioni che in un determinato tempo storico la Chiesa riteneva essenziale proporre all’osservanza dei suoi fedeli e che oggi mai si sognerebbe di riproporre, come ad esempio la condanna che essa espresse, a fine ’800, contro la libertà di coscienza, di religione e di insegnamento (nel famoso Sillabo, elenco degli errori moderni, allegato all’Enciclica Quanta cura di Pio IX), essendo a tutti evidente, per esempio, che la Chiesa è invece oggi nel mondo una delle maggiori assertrici proprio della libertà di religione e di insegnamento. Non solo, il metodo storico-critico nell’analisi dei testi sacri fu lungamente osteggiato e ritenuto illecito, e solo con il Concilio Vaticano II si ribaltò la situazione, tanto che oggi tale metodo è ampiamente utilizzato in tutte le facoltà teologiche cattoliche. Se poi volessimo viaggiare a ritroso nel tempo, ci imbatteremmo nella celeberrima questione galileiana, che un papa profetico come Giovanni Paolo II volle risolvere, sia pure a quasi 360 anni dalla condanna ecclesiastica ufficiale, con una cerimonia solenne, di definitiva riabilitazione, alla presenza dei membri della Pontificia accademia delle scienze, da lui presieduta, il 31 ottobre 1992. E, ironia della sorte, la distinzione galileiana fra scienza e fede, anche e soprattutto all’interno dell’esegesi biblica, è oggi il metodo acclarato in uso presso lo stesso mondo cattolico, che lo utilizza proprio per legittimare la distinzione dei contenuti di fede rispetto a quelli, totalmente autonomi, della scienza.
Se poi, nella nostra ricognizione, ci avventuriamo all’interno della stessa Bibbia, e ci soffermiamo sui salmi di imprecazione contro i nemici del popolo ebraico, caratterizzati da una violenza che si comprende solo a partire da una cultura ancora arcaica e tanto lontana nel tempo, che interpreta prevalentemente Dio come potente e vendicatore, oppure, nel Nuovo Testamento, affrontiamo i passi di un genio religioso come Paolo, e tuttavia condizionato dalla mentalità ebraica dell’epoca, sul ruolo delle donne, che non dovrebbero parlare in pubblico, né tantomeno insegnare, e soprattutto dovrebbero mantenersi subalterne ai propri mariti, non possiamo non concludere che vi è in ogni tempo un gap, una discrepanza, una discrasia fra l’esperienza religiosa, con la sua tensione all’unione con Dio e col mondo, e le modalità culturali con cui essa si autocomprende, manifesta ed esplicita al mondo, così che sarebbe assai fuorviante credere come essenziale all’unione con Dio l’assumere quelle caratteristiche culturali che hanno contraddistinto una fase di tale esperienza religiosa, e che potrebbero essere ampiamente superate in una fase successiva (come le Crociate medievali o la pratica della tortura da parte dell’Inquisizione romana).
Mi sono volutamente soffermato su alcuni fra gli aspetti più controversi della Storia della Chiesa e del Cristianesimo, perché mi sembrava più facile dimostrare in tal modo la trascendenza dell’esperienza religiosa rispetto alle forme storiche in cui essa si codifica e manifesta nel tempo. Ma ora vorrei sottolineare, tentando un passo ulteriore, come anche nelle manifestazioni positive ed espansive della fede sia possibile una evoluzione, un progresso, un rinnovamento, laddove ci si renda disponibili per quella profezia, che trova sempre nuove strade di accesso al divino, quando il sacerdozio, con la sua dimensione normativa, ne sancisce le attuali modalità di presenza, e la regalità lo manifesta in tutto il suo splendore.
Perché dunque abbia luogo una esperienza religiosa di autenticità e verità più profonda, occorre quindi superare ogni stereotipo culturale che condizioni la libertà e maturazione del nostro vissuto spirituale, come, a volte, una ritualità ripetitiva e stanca, una interpretazione puerile del dogma, una appartenenza rigida e autoconsolatoria, e rivolgersi alla vita che pullula di alterità e chiede, attraverso il prossimo, di essere riconosciuta e celebrata, qui ed ora, senza se e senza ma, come ambito di manifestazione del sacro, epifania di quel divino che si fa ogni giorno bambino, per abitare la novità della storia, che è allora ogni giorno storia della salvezza.
E il riferimento a Gesù di Nazareth come modello umano e insieme icona della divinità diviene allora, anche alla luce di quanto detto, occasione non già di una pedissequa imitazione storica – peraltro impossibile – ma di una ispirazione profonda ad assumerne lo slancio, il volo, la passione cristica, perché essa abbia a risplendere un po’ anche in noi.
Ma voi credete che Gesù di Nazareth vorrebbe dei sosia, attenti ad imitarne caratteristiche storiche, culturali e sociali, o degli originali, che però – come lui – si abbandonano al Padre e ai fratelli, nel segno della venerazione e della adorazione? Non c’è dubbio che il vero discepolo del Cristo è un Alter Christus, ovvero un essere affatto diverso ma che risplende della medesima luce.
(da Claudio Sottocornola, Così vicino, così lontano, Velar 2023, pp. 37-40)