Schiavitù dei moderni e schiavitù degli antichi

Roman collared slaves marble relief Smyrna 200 ce collection of the Ashmolean Museum Oxford

Roman collared slaves marble relief Smyrna 200 ce collection of the Ashmolean Museum Oxford

PAOLO LAMBERTI

Quando Cassius Clay si converte all’Islam con il nome di Muhammad Alì non si rende conto di essere passato dalla religione degli acquirenti dei suoi antenati schiavi a quella dei loro venditori. Fatto comprensibile, dato che i pugili frequentano più le palestre che le biblioteche, e gli statunitensi non brillano per conoscenze storiche. Però colpisce come questa mancanza di profondità storica sia diffusa anche tra europei colti e benpensanti.
Lo schiavismo è un tratto pressoché universale nelle culture umane, pur nelle diversità storiche che rendono diverse le esperienze nella Roma antica, in Virginia, in Cina, in Arabia, in Congo o tra i Maori. Tuttavia, in base al discorso pubblico, sembra che lo schiavismo occidentale, tra XV e XIX secolo, sia un unicum nella storia umana.
Dal punto di vista storico e culturale il termine di paragone più immediato è la società schiavistica del mondo romano, ma una sua analisi ne rivela le grandi differenze, ed anche il diverso peso rispetto all’Europa.
Lo schiavismo romano è intrinseco, centripeto. Sono le legioni romane a catturare e schiavizzare popolazioni “barbare” o ribelli, i soldati rivendono gli schiavi a mercanti romani che li fanno affluire su mercati locali o internazionali, come Delo, dove gli acquirenti finali sono gli stessi romani.
È anche possibile agli stessi cittadini liberi cadere in schiavitù, come ci ricordano le commedie di Menandro, Plauto o Terenzio o la vicenda del giovane Cesare; anche Seneca, nella celebre Epistola 47 dalle Lettere a Lucilio ricorda nobili romani resi schiavi perché catturati in battaglia. Ma la schiavitù per pirateria, che avrà un parallelo nel Mediterraneo tra Islam e Cristianesimo, diventa secondaria dopo Pompeo.
La natura centripeta di questo schiavismo comporta il rischio di grandi rivolte, Spartaco docet, però la natura dello schiavismo è più giuridica che etnica o razziale, di qui quel fenomeno oltremodo singolare della manumissio. In pochi minuti è con un gesto, il mittere manum, che quello che era uno strumento vivente, un mancipium perché captus manu, indicato con il neutro come gli oggetti, diventa cittadino romano, una condizione privilegiata rispetto alla maggioranza degli abitanti dell’impero, i provinciali senza cittadinanza. Certamente tale sorte tocca ad una minoranza abile o fortunata, e i liberti sono imprigionati in una ragnatela di obblighi,  ma il figlio di un liberto come Orazio può diventare protetto di Augusto e amico di Mecenate; i liberti di Petronio ostentano una ricchezza grossolana ma guadagnata; e sempre Seneca ricorda il padrone che ha venduto uno schiavo inutile e si ritrova umilmente in coda davanti al palazzo del medesimo schiavo, ora liberto potente come quelli che governarono l’impero sotto Claudio.
Inutile sottolineare le differenze con il razzismo, che ha impedito per secoli non solo la liberazione degli schiavi, ma il loro accoglimento nella piena cittadinanza e la loro ascesa sociale, politica ed economica: un fenomeno che si è attenuato, ma non è scomparso, solo negli ultimi decenni.
Ma la differenza maggiore è nel diverso peso della schiavitù, strutturale per il mondo antico, che non ha saputo immaginarsi senza; per l’occidente moderno invece la schiavitù è stata una soluzione estemporanea per un problema nuovo ma non fondamentale, ovvero lo sfruttamento delle nuove possibilità offerte dalle scoperte geografiche.
In particolare è il Nuovo Mondo ad offrire tre diverse categorie di risorse: la prima ad essere sfruttata è quella delle risorse naturali, metalli, legname, pellicce; uno sfruttamento che richiede, anche nelle miniere, relativamente poca manodopera e pochi capitali; infatti è più significativo nei primi secoli e ad opera della Spagna, impero economicamente arretrato.
La seconda è data dallo scambio colombiano, che la biologia, prima ancora che il colonialismo, ha reso ineguale: alle Americhe molte malattie e poche risorse utili ai nativi, poche malattie e molte risorse all’Europa; qui si ritrovano le nuove coltivazioni, patate, mais, pomodori, peperoni, che solo lentamente entrano nell’agricoltura europea, senza cambiarne le strutture profonde, ma velocizzando il cammino verso un’agricoltura di mercato e rafforzando la crescita demografica.
Ma è la terza categoria a porre nuovi problemi; sono le coltivazioni tropicali, native o importate: tabacco, caffè, canna da zucchero, cacao, cotone si adattano ottimamente alle nuove terre, e creano nuovi mercati e nuovi consumi. Esempio eclatante è lo zucchero: spezia di lusso e materia medica nel Medioevo, viene prodotta nel Mediterraneo e l’Europa ne importa poche tonnellate all’anno, ancora alla fine del XV secolo. Tre secoli dopo l’Inghilterra ne importa decine di migliaia di tonnellate dalle colonie e lo zucchero costituisce un bene primario che assicura alle classi inferiori una quantità significativa dell’apporto calorico totale.
Tuttavia queste coltivazioni richiedono due risorse significative: capitali e manodopera. La forma tipica di coltivazione diventa già a fine Cinquecento la piantagione, i capitali sono forniti dalla madrepatria e negli ultimi decenni gli storici dell’economia hanno sottolineato l’importanza dell’accumulo di capitale permesso da queste produzioni e dallo schiavismo per l’innesco della rivoluzione industriale. Il triangolo atlantico zucchero (Caraibi)-manufatti (Inghilterra)-schiavi (Africa) arricchisce le zone dell’Inghilterra da cui parte l’industrializzazione.

Interior layout of a slave ship

Interior layout of a slave ship

Il problema rimane la manodopera. L’Europa ha abbandonato di fatto la schiavitù con il tramonto di Roma e del sistema di produzione antico; nel Medioevo rimangono sacche di schiavitù, ma residuali: possono essere i ministeriales, cavalieri al servizio dell’Impero giuridicamente schiavi (simili ai mamelucchi o ai giannizzeri); possono essere gli schiavi domestici importati dalle steppe e dal Caucaso, oggetti di lusso; poi c’è la tratta degli schiavi legata al confronto tra Islam e Cristianesimo, provocata dalle razzie di corsari barbareschi e ordini militari cristiani: una ripresa della pirateria antica. Non è fenomeno secondario per i numeri, si parla di un milione in tre secoli, ma come per la pirateria antica prevale il desiderio di riscatti sull’effettivo sfruttamento lavorativo.
Nelle Americhe, soprattutto nei Caraibi, è difficile trovare manodopera: i nativi sono stati quasi cancellati dalle malattie; si ricorre ai servi a contratto, europei, ma il clima li falcidia e sono comunque pochi e dopo sette anni il contratto finisce; inutile contare sugli schiavi della steppa, pochi e inadatti al clima; impossibile spostare i contadini europei.
La soluzione viene già individuata alla fine del Quattrocento, quando le esplorazioni entrano in contatto con l’Africa Occidentale e nelle Canarie nascono le prime piantagioni di canna da zucchero e tabacco: sono i portoghesi, con capitali toscani e liguri, a iniziare la tratta, e gli spagnoli la allargano alle Americhe.
Si tratta di una riscoperta, non di una novità. La tratta di schiavi dell’Africa subsahariana è antichissima, una prima via di commercio segue il Nilo e risale almeno al Medio Regno: schiavi, oro e avorio sono testimoniati in innumerevoli testi geroglifici, e attraverso i millenni ancora oggi fenomeni di schiavitù e contrabbando di oro ed avorio si ritrovano in Sudan. Altrettanto antica dev’essere anche la strada parallela che porta dal Corno d’Africa e dall’Etiopia verso la penisola arabica ed il Medio Oriente. Almeno a partire dai Cartaginesi un’altra strada della tratta unisce attraverso il Sahara l’Africa Occidentale e il Mediterraneo; anche qui schiavi ed oro, con un commercio che viene ereditato ed incrementato prima dall’Impero Romano poi dagli stati islamici.
In questo contesto si affacciano in Africa Occidentale come nuovi acquirenti gli europei; questa è la più vistosa differenza tra schiavismo antico e moderno: per Roma lo schiavismo era strutturale e centripeto, per gli europei è un fenomeno collaterale e centrifugo, tanto da poter essere superato nel giro di un secolo quando la nuova sensibilità e l’economia moderna lo rendono un elemento superfluo.
La dimensione centrifuga sta proprio nell’essere gli europei solamente acquirenti: una forma di outsourcing della manodopera, acquistata dove è in vendita; quindi un’analisi dello schiavismo moderno non può limitarsi agli acquirenti, ma deve esaminare anche i venditori e i produttori.
Qui torna in mente Cassius Clay/Mohammed Ali; perché come testimonia la vicenda del dottor Livingstone, e come ricordano innumerevoli romanzi d’avventura dell’Ottocento, la tratta degli schiavi era quasi interamente nelle mani di stati o gruppi islamici, arabi come a Zanzibar, sahariani come i Touareg, o africani come a Ouidah (Chatwin docet).
Se l’ossessione europea per la burocrazia permette di tenere conti ragionevolmente precisi degli schiavi acquistati, circa 12 milioni tra fine XV secolo e metà circa del XIX, valutare la consistenza dei flussi verso il mondo islamico è molto più difficile, anche per il maggior arco temporale, che va dai primi secoli dell’Islam sino ad oggi: le stime vanno da 5-6 milioni ad un numero analogo a quanti furono venduti agli europei. Va ricordato che si parla di europei perché i principali paesi impegnati nella tratta furono la Gran Bretagna e la Francia, ma anche olandesi, i vari stati tedeschi, danesi, spagnoli e portoghesi entrarono nel commercio, e spesso con alle spalle, almeno nei primi secoli, dei banchieri italiani. Quanto al mondo islamico, le destinazioni prevalenti erano l’Egitto, l’Arabia e il Medio Oriente, arabo e poi turco, ma flussi significativi si indirizzavano anche verso l’India, e si hanno testimonianze di schiavi africani sino in Cina.
Ma a catturare gli schiavi erano in misura minima gli europei, in misura minore i trafficanti islamici, in massima parte i vari stati ed imperi africani, all’interno delle guerre e delle lotte di un’Africa molto più statuale che tribale; si può dire che la schiavitù in Africa fosse strutturale e centripeta come a Roma. La differenza era la presenza di un vasto mercato esterno, ma alcune stime indicano nel corso del secondo millennio un numero di schiavi non lontano dai 50 milioni, il che significa che il 60/70% degli esseri umani caduti in schiavitù in Africa vi rimase: come i Cartaginesi e i Galli nell’Impero Romano.