LAURA BONFIGLIO
“Dovrete passare sul mio cadavere se uscite dall’aula con le sedie”: queste le parole pronunciate dal preside della mia scuola, il Liceo Scientifico Leonardo Cocito, che durante una delle prime settimane autogestite nella storia dell’istruzione pubblica italiana, suonavano come una minaccia a cui seguì il nulla di fatto. Era il 1976 e nelle scuole superiori si progettavano per la prima volta attività in autogestione aprendo le aule, per parlare e discutere di argomenti che avrebbero dovuto, di lì a poco, essere materia di studio per migliaia di studenti e studentesse.
Noi scegliemmo di parlare di economia e di sanità, in particolare di psichiatria, superando i limiti dei programmi della vecchia scuola, facendo entrare i problemi della società in quelle mura, con l’entusiasmo che caratterizzava quegli anni. Si parlava di educazione sessuale, di femminismo e lotta alla famiglia patriarcale che fino a pochi anni prima legittimava il delitto d’onore.
Sono infatti i baby boomer, come venivamo chiamati i bambini nati intorno agli anni 60, che vollero provare a gestire quel conflitto tra generazioni costruendo nella scuola spazi di crescita personale, come l’emanazione dei famosi decreti delegati, che introdussero organi collegiali formati da insegnanti, studenti e genitori. Si cercava di responsabilizzare i giovani.
Io scelsi il gruppo di medicina perché quell’anno uscì un film realizzato da Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, il cui titolo era “Matti da slegare”.
In questo film si parlava di manicomi, di malattia mentale, di “matti”, che venivano trattati, prima dell’intervento di Franco Basaglia, come detenuti e non come malati e persone bisognose di cure.
A seguito delle teorie dello psichiatra che avrebbe dato il nome alla legge del 13 maggio 1978, la famosa 180, inerente alla chiusura dei manicomi e alla regolamentazione del trattamento sanitario obbligatorio, i quattro autori si interrogano sulle effettive possibilità di inserimento nella società degli ex internati. Dimostrando una sensibilità diversa, danno la parola a pazienti già dimessi dai centri che la nuova legge avrebbe poi contribuito a “svuotare”: nel caso specifico, l’Istituto di Colorno in provincia di Parma.
Il documentario è in bianco e nero ed è un esempio di incredibile delicatezza e di passione militante; la grande umanità dei registi si svela nelle inquadrature anche se raccontano alcuni episodi di incredibile durezza. Il tutto condensato nella malinconica festa del finale, tra fumi di sigaretta e canzoni da osteria. Un prodotto coraggioso, appassionato e sentito che riflette in maniera intelligente sulla condizione dei malati mentali come persone da slegare e da reinserire attivamente, nei limiti del possibile, all’interno della comunità, mettendo in discussione le certezze della scienza e della medicina (gli psichiatri vengono rappresentati sostanzialmente come uomini di potere, tutori dell’ordine simili a poliziotti).
I lunghi racconti dei protagonisti davanti alla macchina da presa fanno del documentario un esempio di cinema militante e quasi sempre sono i malati stessi a raccontarsi: l’immagine coincide totalmente con il narrato. Gli autori sono lontani, mediatori non invadenti anche se partecipi evidenziando il grottesco di una realtà tragica e assurda, quella della condizione emarginata e vilipesa, rifiutata dalla società; questa sua marginalità viene confrontata con ciò da cui essa è esclusa. Questa è la verità del film, che fa parlare la realtà.
Tutto ciò nasce anche da una precisa scelta metodologica, dice Sandro Petraglia: “avevamo steso un progetto minimale che poi è saltato quasi completamente. Ci è stato utile come binario, come traccia, ma poi i rapporti con i ragazzi sono stati così stretti da modificare sostanzialmente quanto ci eravamo prefissi”.
Si era creata una collaborazione spontanea ed una immedesimazione tra gli autori e i protagonisti, ma ci vollero otto mesi di montaggio perché il materiale filmato era così abbondante e vitale per cui non lo si poteva spezzare così come si fa normalmente in un film, informa Silvano Agosti. Il montaggio diventa così una sorta di riscrittura all’interno d’un discorso già fatto, una seconda
operazione critica che si innesta sulla prima senza modificarne la sostanza, un lavoro di sintesi che segue il lavoro d’analisi, senza contraddirla né forzarla.
Sugli spettatori, in particolare su di noi, giovani studenti, suscitò una reazione emotiva incredibile: ci immedesimammo negli emarginati ma ambiguamente, essendo parte di quel sistema che produceva sì l’emarginazione ma era anche la causa dello straniamento.
Tutto questo sforzo di modificare una società che era (ed è ancora) fortemente patriarcale e che usciva dalla seconda guerra mondiale traumatizzata e spaesata, di cui facevano parte i nostri genitori ed insegnanti; una società ancora troppo bisognosa di persone come Franco Basaglia, che aveva avuto il coraggio di mettere in discussione la psichiatria, parte di quella scienza ufficiale caratterizzata da rigidità e talvolta da compromessi per compiacere la parte politica che, a scapito della libertà di alcuni, i più fragili, trovava il consenso di molti che esigevano “sicurezza”.
L’11 marzo di quest’anno Franco Basaglia avrebbe compiuto 100 anni: il suo lavoro di sensibilizzazione e trasformazione della società, continuato da molti suoi collaboratori e seguaci, si è dimostrato più che mai necessario.
Non so se poi quei ragazzi di allora siano riusciti a diventare degli adulti più attenti e critici, se siano riusciti a capire molte di quelle trasformazioni in atto che andavano invece in senso contrario all’idea di progresso pensata come maggiore giustizia sociale, quindi una sanità a cui dovevano poter accedere tutti, ridistribuzione delle risorse attraverso riforme fiscali (e un’attenzione al pianeta aggiungerei adesso), l’idea insomma di una evoluzione positiva del processo storico.
Ai posteri l’ardua sentenza.