ANTONELLA PALERMO
Abbiamo messo il tavolo al centro
e ci siamo finiti sotto.
Le parole esposte all’intralcio delle sedie.
Ci si sbranava per minuzie
qui ora si gioca al minimo,
le voci attutite,
sentire il vuoto sotto
anche se poggiamo i piedi.
*
Le infermiere coprivano e ricoprivano
e in mezzo a quei gesti tutta la forza
per farti respirare meglio
l’avevi usata per spostare zolle
costruire il pozzo, tirar su gli ulivi.
Teli stesi con le patate ad asciugare
a proteggere gli alberi dalla grandine.
Svelamento e ammanto:
così si spiega la vita.
*
Girasoli maestosi
su giacimenti di sterpaglie
è bonaccia
poco ancora e
spegneranno la faccia
perderanno i semi per vecchiaia.
Le suole saranno sfinite e le domande.
La riserva su di te caduta.
Antonella Palermo, Il giunco e la statua, Vydia editore, 2024.
Recensione di Stefano Serri
Accomuna religioni, filosofie e tanto sentire, un elogio del vuoto che trovo espresso e direi personalmente verificato, palmo a palmo, giorno a giorno, il libro di Antonella Palermo Il giunco e la statua. All’inizio sembra solo un restare disponibili e attenti alle torsioni e alle sparizioni di creature, oggetti e percezioni; mi è venuta in mente, alle prime pagine, la doppia accezione del verbo mancare, tra non trovarsi più, lasciare un buco vuoto, chissà dove l’ho messo, e l’accezione dello svenire/morire (chi l’avrebbe mai detto, che morire può essere soltanto un’accezione). Ma indizi qua e là sempre più rumorosi, un crescendo senza trionfo (la renella che forse nasconde dell’oro, ad esempio, con quella fatata confusione di regni e materie: «Se ci fosse dell’oro nel pietrisco del rene? / Tanto oro fino quanti fiati servono a disseppellirlo») ci portano oltre questa iniziale verifica che il male c’è attorno e dentro noi, e si vede, e lascia segni, e ci lascia, e ci fa mancare.
Tra le molte possibili, una contrapposizione di modi poetici può essere fatta tra chi crea, nella successione dei testi, un discorso fluido e quasi ininterrotto, come un unico poema brevemente scandito solo per prendere meglio fiato, e chi invece, sapendo quanto siano inaffidabili i polmoni, canta breve, e con colpi di reni e, sforzandosi a rialzarsi, a ogni testo, sembra ricominciare tutto (tutto lo sguardo, tutto il mondo), tutto da capo. Non è contrapposizione di merito. A volte, dopo un certo dire, davvero è meglio cambiare (argomento, tono, interlocutore). Nel libro mi sembra si tenda più verso il secondo ritmo, per il coraggio di guardare ogni volta in faccia, di nuovo, il disastro quotidiano. Mancare, appunto, e poi mancare di nuovo, e ancora. E si esplorano così tutte le stanze della casa, tutti i giorni della settimana, e in ognuno si trova un momento giusto per non morire mentre tutto muore (è la cosa più vicina al risorgere che intendo).
Questo, per la prima metà del libro.
Poi entriamo nel corridoio bianco, nelle camere sovraccariche di vuoto, e gli scenari e il gergo del dolore ospedaliero (che ho conosciuto in molte occasioni, per lavoro e per persone care, e le due cose non si possono ignorare tra di loro) diventano “un” mancare, uno specifico vuoto che continua ad avere un nome proprio. C’è il mondo, e c’è un tu. I versi, vasi comunicanti tra particolare e universale, qui s’intasano per i grumi di ricordi, quasi si solidificano (le statue sono ricordi) e abbiamo poesie che ci guardano in faccia, con una faccia che… ognuno ha la sua, proprio quella.
Che grande consolazione, tornare in questi luoghi dove non si dovrebbe e non si vorrebbe stare, tornarci con le poesie di Antonella Palermo. Si ha la sensazione che qualcuno vegli sempre, che puoi dormire (e anche più che dormire) e verrai ricordato, non verrai lasciato, verrai salvato. C’è qualcuno, vicino, c’è qualcuno anche quando tu manchi.
E per finire, per finire tutto e tutti, arriva l’angelo della mancanza, il silenzio. Si viaggia molto, e lo si trova ovunque. È la sezione più dinamica del libro, l’ultima. E sempre all’aria aperta, dopo il chiuso delle precedenti; eppure spunta sempre questo invito alla mancanza, questo dettato dritto in faccia: lascia la parola lì dov’è. Interrogarsi su questo dove, a questo servono i libri, e con le poesie di Palermo si arriva appunto al vuoto che dicevo all’inizio. C’è tanta pace, verso la fine (anche verso la fine del libro), così tanta che quasi si preferisce la fine. Nell’ultima parte, l’io lirico spera: ringrazio di cedere a questa tentazione fuori moda.
Antonella Palermo è di origini molisane. Giornalista, vive e lavora a Roma, occupandosi soprattutto di approfondimenti culturali e dell’attualità internazionale. Ha esordito in poesia con Le stesse parole (Lietocolle, 2012). Per il suo secondo libro di versi, La città bucata (Interno Poesia, 2018), ha ricevuto l’Attestato di Merito al Premio Lorenzo Montano 2020. È autrice di sperimentazioni teatrali basate su suoi testi. Recensioni a sue opere compaiono su: Poesia, Poesia del nostro tempo, Carteggi letterari e altre riviste. Per Vydia ha pubblicato Il giunco e la statua (collana di poesia Nereidi, 2024).
Stefano Serri (1980) ha curato e tradotto una quarantina di volumi, soprattutto dal francese, da classici del XX secolo come Paul Éluard e André Gide, a poeti contemporanei come Jean-Baptiste Para e William Cliff. Tra gli ultimi suoi testi pubblicati, Bradipismi. Dieci racconti lenti (2023) e le poesie di Un gatto steso al sole (2022).
La foto di Antonella Palermo è di Lello Muzio, che concede i diritti per la pubblicazione su Margutte.
(A cura di Silvia Pio)