GABRIELLA MONGARDI
Il mistero di un libro “anomalo”
Da sempre, su tutti i libri che compro o che mi vengono regalati segno almeno l’anno, se non il mese o il giorno, in cui entrano a far parte della mia biblioteca – oppure segno le date delle mie letture o riletture. Niente di tutto questo è successo con il libro Due vite di Emanuele Trevi, Neri Pozza Editore, Vicenza 20201 (ma la mia edizione, prima nella collana Bloom, è del 2021): l’ho ritrovato per caso, il 2 marzo di quest’anno (2024), nell’alloggio che affittiamo in montagna, ma non so altro.
Non so come abbia fatto a finire lì, non so chi ce l’abbia regalato e a chi di noi due sia stato regalato, se a me o a Guido, mio marito: non penso di essere stata io a comprarlo, non vedo per quale motivo avrebbe potuto interessarmi un libro che parla di Pia Pera e Rocco Carbone. Andando per esclusione, è improbabile che qualcuno l’abbia scelto per Guido: lui sapeva sì chi era Pia Pera, in quanto entrambi giardinieri appassionati, ma a chi poteva venire in mente di regalargli un libro del genere? La domanda ammette una sola risposta: Giuliana.
Se invece il libro non era destinato a Guido, ma a me, a maggior ragione la risposta alla domanda non può che essere: Giuliana. Perché Giuliana, oltre a essere una lettrice appassionata per natura e onnivora “per professione”, aveva una predilezione per le storie vere (non importa se in forma di biografie o di autobiografie), specialmente se ruotanti intorno a una malattia – e il libro di Trevi ha tutti questi requisiti: è la narrazione autobiografica di un’amicizia a tre, che intreccia la biografia della Pera a quella di Carbone ed è stata scritta dopo la morte tragica dei due: per un incidente stradale Rocco, dopo una lunga malattia Pia.
Scrive Trevi:« Di una cosa sono sicuro: mentre scrivo, e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. Se invece penso a Pia, ci sono solo io che la penso, è tutto nella mia testa, all’altro capo del filo c’è solo un’assenza. E se la sogno, è la stessa cosa, è un’altra parte del mio Io che sta creando la sua Pia. Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta».
Un messaggio dall’oltre
Ecco: questo libro, la cui presenza nella mia biblioteca è avvolta da un mistero così fitto, è forse un segno del destino, mi verrebbe da dire un “messaggio dall’oltre”, un segnale che Giuliana mi manda per indurmi a scrivere di lei, anche se lei non potrà più leggere né rispondere alle mie parole, anche se scrivere di lei significa inevitabilmente parlare di me, cosa che mi mette sempre a disagio, tanto più che negli ultimi anni ho maturato una sorta di diffidenza nei confronti delle parole – usate e abusate, bistrattate e travisate – e me ne sono in un certo senso allontanata.
E poi, nel ringraziare Trevi per il suo consiglio (Consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne), gli vorrei obiettare che per scrivere di un morto non basta sedersi alla tastiera di un computer come oggi fanno tutti, bisogna essere “scrittori”, veri e possibilmente grandi, com’è lui – e come non sono io, soprattutto senza Giuliana. Eppure, non posso non scrivere di Giuliana, che tante volte, quand’era in vita, mi ha detto Scrivi!: perciò ubbidirò all’invito che misteriosamente mi è giunto dall’oltre. Glielo devo, ancora una volta.
Storia di un’amicizia (Palazzeschi a parte. O forse no?)
Ho conosciuto Giuliana trent’anni fa, quando i nostri figli hanno incominciato a frequentare insieme la prima elementare: oltre a due figli coetanei, avevamo in comune il mestiere di professoresse di lettere, l’amore per la letteratura e la montagna, la visione politica di “femministe sessantottine”, ma per molti aspetti eravamo agli antipodi – c’erano insomma tutti gli ingredienti perché nascesse un’amicizia duratura che, pur coinvolgendo tutta la famiglia, ha sempre conservato il suo nocciolo di amicizia-a-due. Giuliana, che è stata la mia prima “nuova” amica dopo gli anni dell’adolescenza, aveva infatti un modo tutto suo di coltivare le amicizie, nel senso che cercava di incontrare gli amici con regolarità, di rimanere in costante contatto con loro, e non tramite le telefonate o – più tardi – le mail, ma tramite tête-a-tête dal vivo che erano diventati una cara abitudine, un riferimento imprescindibile anche per una solitaria e “selvatica” come me.
Grazie a Giuliana ho pubblicato nel 1997 il mio primo libro di poesie, La tela di Penelope (Boetti & C. editori), in cui lei ha scritto la prefazione e io ho raccolto una selezione dei testi che avevo composto nell’arco di circa trent’anni; grazie a Giuliana ho continuato a scrivere regolarmente poesie, perché a ogni gita in montagna lei mi “dava il compito” di scrivere e mi incalzava finché non le portavo una poesia. Sempre per sollecitazione di Giuliana, anche quei nuovi componimenti sono poi diventati un libro, Nella stanza segreta, edito nel 2018 dagli Spigolatori, l’associazione culturale da lei fondata nel 2006. Questa volta Giuliana ha scelto di rimanere dietro le quinte, affidando la prefazione al poeta Remigio Bertolino, un altro dei fondatori dell’associazione, e lo stesso è accaduto con le altre due raccolte poetiche che ho pubblicato successivamente presso l’editore Ladolfi di Borgomanero. Ma lei è sempre rimasta la mia prima lettrice, perché per noi la poesia salva la vita non era solo il titolo di un saggio della poetessa Donatella Bisutti che entrambe amavamo e utilizzavamo, a volte, nelle nostre lezioni: era un professione di fede, profondamente radicata nel nostro vissuto “complementare”.
Affascinante e attrattiva ma non accondiscendente, vulcanica e instancabile, piena di impegni e interessi, amava circondarsi di una “corte” di amiche e amici anche per avere conferma del suo potere di seduzione, e il salotto di casa sua era sempre aperto ad accogliere discussioni letterarie o politiche, progetti di iniziative culturali o semplicemente le più intime confidenze personali. Così poco corazzata com’era, così esposta alla violenza delle emozioni, poteva apparire un’amica fragile – come il suo prediletto Fabrizio De André – mentre era sostenuta da una forza vitale straordinaria, che traeva dalla poesia di cui si nutriva e che ha dimostrato quando è stata “richiamata”, per dirla con la nostra Emily. Sono sicura che i versi della Dickinson che avevo tradotto per lei trent’anni fa: « Morire non esige che un istante – / dicono inoltre che non faccia male – / ci si sente più deboli – per gradi – / e poi – più nulla –» l’hanno accompagnata nel suo passaggio all’oltre.