Alla Fiera del Santuario (da “Misfatto in Fiera”)

sicardi-copertine-gialliSTEFANO SICARDI

«L’han masalu! L’han masalu![1]».
Tra la ormai fitta ressa della Fiera, una vera furfa[2] (come aveva già, e non solo una volta, mormorato Barba Giaco), un tocao[3] pluridecorato si faceva strada un po’ ansante ma gagliardo, ben piantato come un torello, con camicia a scacchi, canna di ordinanza per ciadellare, per governare le vacche e con un ventre ovviamente ragguardevole, tenuto a bada da imponenti bretelle violette.
«L’han masalu! L’han masalu!». La notizia correva sulle teste della gente, sui brtocio, i foularin, le lobie da monsu, le lucide crape pelate o le cirià, le permanenti da ptnoira o i lunghi capelli da bela fia[4]. La notizia si diffondeva tra tutta quella gente che, prima distratta dalle tante bancarelle, ora cominciava a farci caso. Gli sguardi si facevano interrogativi, molte madri d’istinto prendevano saldamente per mano i bambini o se li stringevano in braccio.
Magna Rina fu la prima a rizzare le orecchie. Lo sguardo le divenne fisso e vivido. Un levriero pronto a scattare appena avessero alzato la griglia di partenza. E dire che di levriero Magna Rina non aveva proprio un bel niente, non era certo magra ed affusolata ma piuttosto massiccia ed imponente. Semmai un maestoso, ruvido ma anche affettuoso buldog. Ormai era all’erta, forse ancor meglio si poteva ora pensare ad un rispettabile cane da punta, come un bel pezzo di bracco pronto a spiccare la corsa.
«Ma No Magna, ‘n cheui lasa sté, lasa perde… suma si per desmourese»[5], le disse Saretta, la sua cara nipote che le passeggiava al fianco in stato interessante piacevolmente visibile e con cui avevano appena condotto un’approfondita istruttoria su certe tovaglie proprio a buon prezzo, ma così a buon mercato che bisognava fese furb, ben n’ti vist[6] e stare attenti se c’era una comola, una tarma, insomma un difetto nascosto, che alla Fera erano anche buoni a contartela ma poi…
Saretta scosse la testa. Lei ci aveva provato, ma chi mai avrebbe potuto trattenere la Magna dall’andare subito a vedere cosa si tuirava. «Venta ‘nde a veghe»[7], sentenziò Magna Rina e si trattava di sentenza definitiva, passata… in giudicato, come avrebbe detto l’avvocato Pasquero che veniva a comprarle il cappone per Natale (un signor cappone, che infatti l’avvocato mica si sbagliava, era uno che di roba buona se ne intendeva, e non solo di capponi).
Magna Rina marciò decisa verso il gruppo, che continuava ad accrescersi, dal quale si era staccato il tocao, cui era spettato il ruolo, molto ben interpretato, di banditore, di diffusore di notizie. La Magna notò subito minuto, ritto e silenzioso tra due allampanati carabinieri, il maresciallo Prestìa, in forza alla locale stazione, purtroppo ancora per poco, gli anni passavano per tutti. Magna Rina, fissandolo, non riusciva a farsi un’idea dell’accaduto. Il maresciallo era serio, consapevole di essere di fronte ad un fatto doloroso, e pareva sconcertato, come se continuasse a mormorare dentro di sé, nel suo dialetto, l’equivalente di robe da mat, od anche di robe da ciò, insomma cose da matti o da chiodi.
Magna Rina riuscì rapidamente a farsi strada nella calca dei curiosi. La ferma decisione, la non indifferente stazza ed ‘l respet che tutti le portavano, le avevano aperto la via e stava per conquistare la prima fila.

Ma come ci era arrivata Magna Rina sul luogo del… delitto?
Di prima mattina – a la fera vanta ndeie prima ca pica o so[8], una norma che, per Magna Rina, non ammetteva repliche – si erano in tanti ritrovati nell’aia del suo cascinale. Era una bella abitudine, meglio una tradizione, recarsi alla ben nota fiera che, ogni inizio di settembre (meno, purtroppo, nei tempi della pandemia) si svolgeva da tempo immemorabile attorno al Santuario di Vicoforte, a pochi chilometri da Mondovì.
E Magna Rina, per non far torto a nessuno dei due comuni in cui trascorreva la sua vita, abitava proprio a metà strada, sulle colline punteggiate da campi, boschetti, frutteti che amorevolmente li separavano. Insomma, ci si trovava da Magna Rina e poi, attraverso sentieri e strade poco battute, si scendeva verso il luogo della Fiera. La Magna riteneva il recarvisi in auto più che un oltraggio addirittura una bestemmia, tanto il tragitto non era mica tanto lungo. Unica eccezione si era affacciata, almeno parzialmente, quest’anno, a causa della – finalmente! – gravidanza della sua adorata nudina, della adorata nipotina Saretta, a seguito di un braccio di ferro tra zia e nipote che aveva alla fine visto la stipula di un trattato di pace.
«Ti Saretta, st’an t’veni nen, mei che t’stugni ben ben tranquila»[9], al che la nudina, guardando la Magna nel bianco degli occhi aveva replicato «Mi stugn pi che ben e na spasgiada i va propri…»[10].
Come uscire dallo stallo? Le due fomne, le due donne che avevano la medesima testa dura di famiglia, si erano accordate sul fatto che Saretta sarebbe venuta con loro sul fresco a piedi, che in Fiera se la sarebbe presa comoda a spasso con tutti loro e, eccezione che mostrava quanto la Magna tenesse alla nipote, alla fine della gira il marito di Saretta, Aldo Muratore, autorizzato, quando usciva dal lavoro, a venire più tardi in auto, l’avrebbe raccolta ai bordi dei baracconi e delle cabane[11] e delicatamente –    come lui ben sapeva fare – l’avrebbe ricondotta a casa.
La comitiva si era così mossa dal cascinale. Apriva la via, naturalmente, Magna Rina, seguita, e non certo solo da oggi, dal fedele e un po’ sbuffante marito Berto Beccaria e dalla contentissima Saretta; e poi procedevano, in ordine sparso, gli amici e le conoscenze di sempre. L’avvocato Greg Pasquero – “sbuffo davvero troppo, bisogna che perda… qualche chilo…», si diceva ad ogni camminata -; e poi sua moglie Lisa – che ormai non si disperava nemmeno più per questi suoi velleitari propositi -; lo zio di Greg, Barba Giaco, ferroviere in pensione, che per nulla al mondo si sarebbe perso l’annuale ricorrenza; Artemisia Gaffòdio, la affascinate collega di studio di Greg, senza il marito però – che proprio non se la faceva con le fiere – e che sfoggiava una tenuta casual non pretenziosa, discreta, ma che le stava a pennello e non sarebbe certo passata inosservata; e infine Al, Alberto Canepa, il giornalista, che già pensava ad assaggi di qualche buon bicchiere, che poteva riservare le più liete sorprese.
La mattinata era davvero gloriosa. Sotto un cielo lavato di fresco dal temporale della notte, i prati ed i campi ben bordati da siepi e da boschetti si dividevano fraternamente il terreno con frutteti ordinati e, anche da lontano, multicolori, e da filari di viti già quasi da vendemmia che digradavano giù per le colline. L’aria era ancora estiva ma già con quel non so che di frizzante che ricordava alla comitiva che il tuf, l’afa della tarda estate pareva, almeno stamattina, davvero sconfitto.
Conquistarono senza fatica la cima di alcune colline e da lì iniziarono a scendere verso la Fiera. Ecco che apparve la grossa cupola del Santuario, circondata da ogni sorta di bancarelle e capannoni, da recinti di animali, da lunghe file di cavalli, asini e bovini, da ogni sorta di altro bestiame (ormai persino da qualche tempo anche gli struzzi, ma non erano dei nostri e a Magna Rina facevano storcere il naso) e poi da una distesa di macchine agricole, di baracconi e di giostre. Profumi, già a quest’ora, di salsiccia arrostita, porchetta, crauti, peperoni e cipolle gratinate, di bomboloni ripieni di crema, nutella e pistacchio e di zucchero filato, bussarono alle narici dell’avvocato, che non avevano alcuna intenzione di respingerli.
Ecco, anche quest’anno, alla Fiera ci avrebbero fatto una bella gira.
 


[1] «L’hanno ammazzato, l’hanno ammazzato!»

[2] Una folla fitta ed accalcata.

[3] Chi governa le vacche con l’uso di un tipico bastone per spingerle e dirigerle.

[4] «Sui berretti, i foulard, le lobbie signorili, le zucche pelate, le permanenti da pettinatrice, i lunghi capelli da bella ragazza».

[5] «Ma No, Magna, oggi, lascia stare, lascia perdere… siamo qui per divertirci».

[6] Farsi furbi, ben all’erta.

[7] Letteralmente cosa si mescolava, si girava, cosa stava succedendo. «Bisogna andare a vedere».

[8] Alla Fiera bisogna andarci prima che picchi il sole, che faccia troppo caldo.

[9] «Tu Saretta, quest’anno non vieni, meglio che te ne stai proprio tranquilla».

[10] «Io sto più che bene e una passeggiata è quello che ci va».

[11] Capienti capannoni quasi sempre adibiti a luoghi di ristoro a base di raviole, insomma di agnolotti, preferibilmente conditi “al vino”.

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